SCRITTORI D’ITALIA
GIAMBATTISTA MARINO
ADONE
A CURA
DI
MARZIO PIERI
VOLUME PRIMO
CANTI I-XI
GIUS, LATERZA & FIGLI
SCRITTORI D’ITALIA
N. 259
GIAMBATTISTA MARINO
\DONE
A CURA
DI
MARZIO PIERI
VOLUME PRIMO
CANTI I-XI
GIUS. LATERZA & FIGLI
1975
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli, Spa, Roma-Bari
CL 20-0924-2
DEDICA
A MARIA DE’ MEDICI
Maestà Cristianissima
di Maria de’ Medici
Reina di Francia, e di Navarra.
La Grecia di tutte le bell’arti inventrice, la qual sotto velo
di favolose fizzioni soleva ricoprire la maggior parte de’ suoi
misteri, non senza allegorico sentimento chiamava Hercole Musa¬
gete, quasi Duce e Capitano delle Muse. Il che non con altra
significazione (s’io non m’inganno) hassi da interpretare, che per
la vicendevole corrispondenza che passa tra la forza e l’ingegno,
tra ’l valore e '1 sapere, tra l’armi e le lettere; e per la reciproca
scambievolezza che lega insieme i Prencipi e i Poeti, gli scettri
e le penne, le corone dell’oro e quelle dell’alloro. Perciò che sì
come alla quiete degli studii è necessario il patrocinio de’ Grandi,
perché gli conservi nella loro tranquillità; così allo ’ncontro la
gloria delle operazioni inclite ha bisogno dell’aiuto degli Scrittori,
perché le sottraggano alla oblivione. E sì come questi offrono
versi e componimenti, che possono a quelli recare insieme col
diletto l’immortalità; così ancora quelli donano ricompense di
favori, e premi di ricchezze, con cui possono questi menare com-
modamente la vita. Quinci senza alcun dubbio è nato ne’ Signori
il nobilissimo costume del nutrire i Cigni famosi, acciò che illu¬
strando essi col canto la memoria de’ loro onori, la rapiscano alla
voracità del Tempo. Quinci d'altra parte parimente si è derivata
in coloro che scrivono, l’antica usanza del dedicare i libri a’ Gran
maestri, a’ quali non per altra cagione sogliono indirizzargli, se
non per procacciarsi sotto il ricovero di tale scudo sicura difesa
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A MARIA DE’ MEDICI
dall’altrui malignità, e dalla propria necessità. Questi rispetti
mossero Virgilio ad intitolare il suo Poema a Cesare, Lucano a
Nerone, Claudiano ad Onorio, ed a tempi nostri l’Ariosto e ’l
Tasso alla Ser.ma Casa da Este. Questi istessi dall’altro lato mos¬
sero Mecenate a sovvenire alla povertà d'Orazio, Domiziano a
promuovere Stazio e Silio Italico a gradi onorevoli, Antonino a
contracambiare con altrettanto oro le fatiche d’Oppiano; e ulti¬
mamente (per tralasciare gli altri stranieri) Francesco il primo
Re di Francia a remunerare con effetti di profusa liberalità le
scritture dell’Alamanni, del Tolomei, del Delminio, dell’Are¬
tino, e d’altri molti letterati italiani; Carlo il nono a stimare,
onorare, e riconoscere oltremodo la virtù ed eccellenza di Piero
Ronzardo; Arrigo il terzo ad accrescere con larghe entrate le for¬
tune di Filippo di Portes, Abate di Tirone; ed Arrigo il quarto
dopo molti altri segni d’affezzione parziale, ad essaltare alla sacra
dignità della porpora i meriti del Cardinal di Perona. Non mos¬
sero già (per mio credere) questi rispetti la M. ta Cr. ma di Lodo-
vico il xiii, quando con tante dimostrazioni di generosità
prese a trattener me nella sua corte, sì perché all’edifìcio della
sua gloria non fa mestieri di sì fatti puntelli, sì anche perch’io
non son tale, che basti a sostenere con la debolezza del mio stile
il grave peso del suo nome. Né muovono ora similmente me a
consacrare a S. M. ta il mio Adone, come fo, sì perché l’animo mio
è tanto lontano dall’interesse, quanto il suo dall’ambizione, sì
anche perché sono stato prevenuto co’ benefici, ed ho ricevuti
guiderdoni maggiori del disiderio, e della speranza, non che del
merito. Ma quantunque i fini principali della sua protezzione e
della mia dedicazione non sieno questi, contuttociò tanto per la
parte che concerne i debiti della obligazion mia, quanto per quella
che s’appartiene ai meriti della grandezza sua, con ragione panni
che si debba il presente libro al nostro Re, e che da me al nostro
Re sia buon tempo fa giustamente dovuto. Devesi a lui, come
degno di qualsivoglia onore; e devesi da me, come onorato (ben
che indegnamente) del titolo della regia servitù.
Per quel che tocca a S. M. ta dico, ch’è proporzionato questo
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tributo, essendosi già col sopraccennato essempio d’Hercole di¬
mostrato, ch’a’ Prencipi grandi non disconvengono poesie. E mi
vaglio della somiglianza d’Hercole, meritando egli appunto ad
esso Hercole d’essere per le sue azzioni paragonato; poi che se
l’uno ne’ principii della sua infanzia ebbe forza di strangolare
due fieri Dragoni, il che fu preso per infallibile indizio dell’altre
prove future; l’altro ne’ primordii e della sua età e del suo governo
conculcò né più né meno due ferocissime e velenosissime Serpi,
dico le guerre intestine di Francia, e le straniere d’Italia, superate
l’una con la mano del valore, l’altra con quella dell’autorità; dal
qual atto si può far certissimo giudicio dell’altre imprese segnalate,
che ci promettono gli anni suoi più fermi. Havvi però di più
tanto di differenza, che quel che l’uno operò già adulto e robusto,
l’altro ha operato ancor tenero e fanciullo, estirpando dal suo regno
un mostro così pestifero, com’era l’Hidra della discordia civile, le
cui teste pareva che d’ora in ora moltiplicassero in infinito. E
se bene al presente guerreggia tuttavia co’ suoi sudditi, il che
par che repugni alla publica pace, e contrafaccia alla concordia
dello stato, vedesi nondimeno chiaramente, che dopo l’onor di
Dio (ch’è il suo primo riguardo) il tutto è inteso a quel medesimo
scopo, cioè di passare alla quiete per lo mezo de’ travagli; né
altro pretende, che con la dovuta ubbidienza de’ popoli tranquil¬
lando le continove tempeste del suo reame, stabilirsi nella pa¬
terna monarchia. Gran cosa certo è il mirare i miracolosi progressi
che fa questo mirabile giovane in età sì acerba con sì maturo
consiglio, che più di grave non si disidera nella prudenza de’ più
canuti. Ecco appena uscito della fanciullezza, mosso dal senno,
spinto dalla virtù, guidato dalla Fortuna, accompagnato dalla
loda, ascende a gran passi co’ piedi del valore le scale della im¬
mortalità, e va crescendo in tanta grandezza di pregio, che oggi-
mai i suoi fatti peregrini sono ammirabili, ma non imitabili. Si
arma per l’onor di Cristo, combatte per la verità evangelica,
vendica l’ingiurie della corona Gallica, ristora i riti del culto cat¬
tolico, fa inviolabili le leggi della buona religione. Le sue forze,
le sue armi, le sue genti, i suoi tesori, e tutti i concetti alti del
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A MARIA DE' MEDICI
suo animo reale non ad altro fine si rivolgono, che alla gloria del
Cielo. Passi essecutore della divina disposizione, difensore della
regia dignità, punitore della insolenza de’ rubelli; e in tutte le
sue generose azzioni si dimostra amico de’ buoni, compagno de’
soldati, fratello de’ servi, padre de’ vassalli, e degno figliuol pri¬
mogenito della Chiesa Apostolica. Risarcisce i quasi distrutti
onori della milizia, i disagi gli sono ozii, i sudori delizie, le fatiche
riposi. Fa stupire, e tremare, vince prima che combatta, ottiene
più trionfi che non dà assalti, e signoreggia più animi, che non
acquista terre. Il suo petto è nido della fortezza, il suo cuore
refugio della clemenza, la sua fronte paragone della maestà, il
suo sembiante specchio deH’affabiltà, il suo braccio colonna della
giustizia, la sua mano fontana della liberalità. La sua spada info¬
cata di zelo par la spada del Serafino, che discaccia dalla sua
casa i contumaci di Dio; onde il mondo che gli applaude, e che
ha delle sue magnanime opere incredibile aspettazione, con voce
universale lo chiama Intelligenza della Francia, Virtù del trono
e dello scettro, Angelo tutelare della vera fede, poi che angelico
veramente è il suo aspetto, angelico il suo intelletto, e angelica
la sua innocenza. Così la somma pietà di quel Dio il quale lo
regge, ed il quale egli difende, guardi la sua vita, e allontani dalla
sua sacra persona la violenza del ferro, la fraude del veleno, e la
perfidia del tradimento; come in lui si adempiranno appieno
tutte le condizioni di perfezzione che mancarono negli antichi
Cesari. E trattandosi in questa guerra santa dell’interesse pur
di Dio, non mancheranno a quella infinita sapienza modi da ter¬
minarla a gloria sua, e con riputazione d’un Re sì giusto.
Quanto poi alla parte che tocca a me, debita ancora, non che
ragionevole, stimo io questa dedicatura, acciò che se nell’uno
abonda cortesia, nell’altro non manchi gratitudine. Ma con qual
cambio, o con qual effetto condegno corrisponderò io a tanti
eccessi d’umanità, i quali soprafanno tanto di gran lunga ogni
mio potere? Certo non so con altro pagargli, che con parole, e
con lodi, in quella guisa istessa che si pagano le divine grazie.
Ben vorrei, che la mia virtù fusse pari alla sua bontà, per potere
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altrettanto celebrar lui, quanto egli giova a me; perciò che sì
come i suoi gesti egregi, quasi stelle del Ciel della gloria, influi¬
scono al mio ingegno suggetti degni d’eterna loda, così i favori
ch’io ne ricevo, quasi rivoli del fonte della magnificenza, innaf¬
fiano l’aridità della mia fortuna con tanta larghezza, che fanno
arrossire la mia viltà, onde rimango confuso di non aver fin qui
fatta opera alcuna per la quale appaia il merito di sì fatta mercede.
Potevano per aventura da questa oblazione distòrmi due circo¬
stanze, cioè la bassezza della offerta dal canto mio, e l’eminenza
del personaggio dal canto suo. Ma era legge de’ Persiani (come
Heliano racconta) che ciascuno tributasse il Re loro di qualche
donativo conforme alla propria facoltà, qualunque si fusse. E
Licurgo voleva, che si offerissero agl’Iddìi cose ancor che minime,
per non cessar già mai d'onorargli. Queste ragioni scusano in parte
il mancamento del donatore; ma per appagare la grandezza di
colui, a cui si dona, dirò solo che quell'istesso Hercole di cui par¬
liamo, per dar alle sue lunghe fatiche qualche sollazzevole inter¬
vallo, deposta talvolta la clava, soleva pure scherzando favoleg¬
giare con gli amori. Achille, mentre che nella sua prima età vi¬
veva tra le selve del monte Pelia sotto la disciplina di Chirone,
soleva (secondo che scrive Omero) dilettarsi del suono della ce-
tera, né sdegnava di toccar talvolta l’umil plettro, e di tasteggiar
le tenere corde con quella mano istessa, che doveva poi con somma
prodezza vibrar la lancia, trattar la spada, domare destrieri in¬
domiti, e vincere guerrieri invincibili. Per la qual cosa io non
dubito punto, che fra l’altre eroiche virtù, ch’adornano gli anni
giovanili di S.M. tà , in tanta sublimità di stato, in tanta vivacità
di spirito, e in tanta severità d’educazione, non debba anche aver
luogo l’onesto e piacevole trastullo della Poesia. E se il medesimo
Eroe pargoletto (come narra Filostrato) quando ritornava dal-
l’essercizio della caccia stanco per la uccisione delle fiere, non
prendeva a schifo d’accettare dal suo maestro le poma e i favi
in premio della fatica, con quello istesso animo grande con cui
poi aveva da ricevere le palme e le spoglie delle sue vittorie;
perché non debbo io sperare che S.M. tà , non dico dopo le cacce,
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nelle quali suole alle volte nobilmente essercitarsi, ma dopo le
guerre, le quali con troppo dure distrazzioni l’incominciano ad
occupare, abbia con benignità a gradire questo picciolo e povero
dono presentato da un suo devoto, il quale appunto altro non è,
che frutto di rozo intelletto, e miele composto di fiori poetici,
quasi lieto e sicuro presagio de’ ricchi tributi, e de’ trionfali onori,
che in più maturo tempo saranno al suo valore offerti? Farmi
veramente la figura biforme di quel misterioso Semicavallo ben
confacevole al mio suggetto, come molto espressiva delle due
necessarie e principali condizioni del Principe, dinotando per la
parte umana il reggimento della pace, e per la ferina l’ammini¬
strazione della guerra. La qual significanza si attende che debba
perfettamente verificarsi in S.M. ta , come degno figlio di sì gran
padre, ed erede non meno delle paterne virtù, che de’ regni; la
cui generosa indole precorre l’età, e vince l’altrui speranze. E già
gli effetti ne fanno fede, poi che non così tosto prese in mano le
redine dell’imperio, che stabilì per sempre la devozione ne’ popoli ;
e appena assunto al possesso dello scettro, gli fu commesso l’ar¬
bitrio del mondo. Egli è ben vero, che se il Centauro (come finge
il medesimo Scrittore) per rendersi uguale alla statura del giova¬
netto, quando le dette cose nel grembo gli sporgeva, piegando le
gambe dinanzi si chinava, chiunque volesse con dono conforme
pareggiare gli eccelsi pregi di S.M. ta , ch’ancor crescente si solleva
a pensieri tanto sublimi, bisognerebbe per contrario, in vece d’ab¬
bassarsi, inalzar più tosto se stesso a quel grado d’eccellenza,
che nella mia persona e nel mio ingegno manca del tutto. Per
riparare adunque alla disconvenevolezza di cotale sproporzione,
io mi sono ingegnato di ritrovare un mezo potente, e questo si
è introdurre il mio dono per la porta del favore di V.M., anzi
all’una e all’altra M. ta farlo commune, acciò che sì come ella è
per tutti una fontana, anzi un Mare, onde scaturiscono agli altri
Tacque della vena regia, così sia per me una miniera, onde pas¬
sando quelle del mio tributario ruscello, piglino altro sapore e
qualità, che non dispiaccia a gusto sì nobile. E sì come ella è fatta
(si può dire) lo Spirito assistente del regno suo, avendolo tanto
A MARIA DE’ MEDICI
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tempo governato con sì giusto e provido reggimento, così si faccia
anche il Genio custode dell’opera mia, rendendola in virtù del suo
glorioso nome e della sua favorevole autorità più cara e più dilet¬
tevole. Veramente, che la madre abbia a partecipare delle glorie,
e delle lodi, che si dànno al figlio, è dovere di legge umana e divina ;
e che in particolare debba ella aver parte in quelle che si conten¬
gono in questo volume, è cosa giusta sì per rispetto suo, come
per rispetto mio. Per rispetto suo, poi ch’essendo V.M. ta la terra
che ha prodotta sì bella pianta, e la pianta che ha partorito sì
nobil frutto, si debbono tutti gli onori attribuire non meno a
lei, come a cagione, che a lui, come ad effetto. Per rispetto mio,
perciò che essendo io sua fattura, e dependendo tutto il mio pre¬
sente stato da lei, per la cui ufficiosa bontà mi ritrovo collocato
nell’attual servigio di questa Corte, si come dalla sua protezzione
riconosco gli accrescimenti della mia fortuna, così mi sento tenuto
a riconoscere le ricevute cortesie con tutti quegli ossequii di grata
devozione, che possono nascere dalla mia bassezza. Oltre che,
per essere il componimento ch’io le reco quasi un registro delle
sue opere magnanime, delle quali una parte (ancor che minima)
mi sono ingegnato d’esprimere in esso; e per avere io ridotto il
suggetto che tratta (come per l'allegorie si dimostra) ad un segno
di moralità la maggiore che per aventura si ritrova fra tutte Can¬
tiche favole, contro l’opinione di coloro che il contrario si persua¬
devano; giudico che ben si confaccia alla modesta gravità d’una
Prencipessa tanto discreta.
Or piaccia a V.M. U con quella benignità istessa, con cui si
compiacque di farmi degno della sua buona grazia, accettare,
e far accettare la presente fatica; onde si vegga, che se bene il
mio ingegno è mendico e infecondo, e il Poema che porta è tardo
frutto della sua sterilità, vorrei pur almeno in qualche parte pagar
con gli scritti quel che non mi è possibile sodisfar con le forze.
Se ciò farà (per chiudere il mio scrivere con l’incominciato pa-
ralello d’Hercole) ricevendo ella per se stessa, e rappresentando
a S.M. tà composizioni di Poeta come non indegne di Re guerriero,
né disconvenevoli a Reina grande, conseguirà la medesima loda
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A MARIA DE’ MEDICI
che conseguì già Fulvio, quando delle spoglie conquistate in Am-
brada trasportò nel tempio dello stesso Hercole da lui edificato
i simulacri delle Muse. E senza più augurando a V.M. ta il colmo
d’ogni felicità, le inchino con reverenza la fronte, e le sollevo con
devozione il cuore.
Di Parigi a dì 30. d’Agosto 1622.
Di V. M. tà
Umilissimo, e devotissimo servitore
Il Cavalier Marino.
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
LETTRE
O U
DISCOURS DE M . CHA PELA IN
À MONSIEUR FAVEREAU CONSEILLER DII
Roy en sa Cour des Aydes, portant son opinion sur le Poeme
d ' A d o n i s du Chevalier Marino.
Je sgavois des-ja par vous mesme, et par Monsieur le Chevalier
Marin, la volonté où vous estiez de recueillir ensemble les doctes
et particulieres Observations que vous avez faictes sur son Poeme
d ’A d o n i s , et me resjouyssois, cette belle Piece ayant à sortir
au jour, qu’un si rare Esprit eust pris le soing de nous en descouvrir 5
curieusement la richesse et l’excellence; l’ors que j’ay receu par
la vostre la confirmation de ce que j’en avois creu jusqu’icy;
mais en telle sorte qu’il semble que vous attendiés ma response,
pour sgavoir si je pense que le travail vous en doive estre honno-
rable, et si l’oeuvre à mon opinion vaut que vous y donniez du io
temps. À quoy je vous diray que je m’estonne de deux choses
grandement: l’une que vous puissiez monstrer de douter tant
soit peu maintenant d’un ouvrage que vous sgavez estre de ce
grandhomme, lequel il vous a communiqué luy mesme, et dont
vous avez tant de fois, moy present, quand il nous en faisoit la 15
lecture, admiré et readmiré les beautez; comme si n’estant plus
vous mesme, vous commenciez tout seul à ne pas cognoistre que
les oeuvres du Marin sont sans reproche, et qu'elles portent en
son nom leur inviolable passe-port. L’autre chose qui m’estonne
encore d’avantage, c’est, posé que le mespris que le Chevalier 20
2
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DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
luy rnesme nous a faict plusieurs fois de ce Poéme-cy, vous eust
donne juste occasion de doute; et supposé que la modestie dont
vous faictes si estroicte profession, vous empeschast de vous en
rapporter à vous mesme, et vous fist défier de ce fort jugement
5 à qui les plus judicieux se remettent si volontiers, en somme qu’il
v eust grand lieu de craindre et de douter, c’est dis-je de voir
qu’entre tant de personnes habiles qui vous estiment et dont
vous disposez, vous ayez voulu jetter les yeux sur une telle foi-
blesse que la mienne, pour en desirer, et pour en esperer aucune
io bonne resolution: c’est bien là une chose dont je ne crois pas que
vous vous puissiez purger. Je suis un homme sans noni, sans
authorité, sans consideration dans le monde; et n’estoit que je
crains de desdire le jugement que vous en avez fait autre-fois
trop à mon advantage, je dirois sans doctrine, et sans les fonde-
15 mens necessaires pour parler dignement d’un si haut suject;
voyez ce qu’on peut attendre de moy. Xeantmoins afin de ne me
point dispenser d’une chose que vous m’ordonnez, et pour la-
quelle vous ne me laissez pas la liberté de trouver d’excuse, ne
pouvant à cause de la distance des lieux vous en dire de bouche
20 ce qu’il m’en semble, je vous le coucheray dans ce papier: mais
protestant auparavant que je desavoué dès à present mes propres
sentimens si vous jugez qu’ils s’esloignent les moìns du monde
du but de la verité; et non pourtant sans me promettre que vous
en lirez le discours benignement selon vostre coustume, ayant
25 esgard non à moy qui le feray, ains seulement au poids et au
bon alloy des choses qui s’y doivent dire.
Je dis donc pour vous respondre que je tiens l’A d o ni s ,
en la forme que nous l’avons veu, bon Poème; conduit et tissu
dans sa Nouveauté selon les regles generales de l’Epopée; et le
30 meilleur en son genre qui puisse jamais sortir en public.
Or pour proceder avec quelque lumiere à la preuve de cette
mienne opinion, il seroit icy comme besoing de dire ce que c’est
que Poesie, de combien d’especes il y en a, et quelle est la Nature
de chacune d’icelles, principalement de celle que les Grecs appel-
lent Epopèe, et à laquelle nous n'avons point encore trouvé de
35
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
19
nom, afìn de voir, demeurant dans ces Principes, accordé que ce
Poème ne soit de l’espece receué d’icelle, de quelle fa<jon il a peu
estre loysible au Poéte d’en introduire une nouvelie differente
de la receué, laquelle fust neantmoins embrassée par l’Epopée
comme par son genre, qui est ce qu’il nous faut monstrer 5
pour establir sa bonté. Mais comme je parie à vous qui n’ignorez
rien de tout celà, pour ne me point estendre sans necessité, je
laisseray toutes ces deffinitions et divisions comme presupposées
et traictées par d’autres à suffisance, et m’arresteray seulement,
pour le premier chef qui concerne sa simple bonté, à examiner io
trois points qui se rencontrent en ce Poéme, sujets à doute et
à objection, de la validité desquels la preuve de ma position
depend. La nouveauté de l’espece; l’eslection du suject,
ET LA FOY QU’ON Y PEUT ADJOUSTER.
Et quant à la Nouveauté en premier lieu j’en ima- 15
gine de deux sortesi l’une blasmable, contre nature, l’autre loiiable,
naturelle. Celle qui est contre nature est doublé: la premiere
s’appelleroit Parfaicte en son imperfection, qui est lors qu’à un
corps d’une Nature un autre corps d’une autre Nature est con-
joinct, comme on a veu des Satyres dans l’ancienneté, et de 20
nos temps des demy-hommes demy-chiens : et lors la Nouveauté
est en l’excés de Monstruosité ; la seconde se pourroit dire Impar-
faicte, et c’est quand à un corps d’une Nature un autre corps
de mesme Nature est assemblé, sans pourtant qu’ils s’unissent et
confondent, de sorte que les deux mouvemens n’apparoissent et 25
ne produisent deux operations distinctes, independantes l’une de
l’autre; comme on a veu des monstres d’hommes avec deux
testes, d’hermaphrodites, et d’enfans attachez par le front: et
lors la Nouveauté est purement Monstrueuse sans excez. Celle
qui est Naturelle aussi est de deux manieres: la premiere Parfaicte 30
en sa Perfection, quand une chose non monstrueuse qui n’a jamais
esté vient à esclorre; comme lors qu’en un lieu où jamais il n’avoit
pani d’eau, l’on voit sourdre tout à coup quelque surgeon d’eau
vive; l’autre tnoins Parfaicte, lors qu’en une chose des-ja trouvée
on descouvre quelque perfection jus-qu’ alors incognué, comme si 35
20
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
en ceste mesme source trouvée, après quelque temps l’on venoit
à remarquer quelque vertu particuliere, dont on ne se fust pas
apper^eu devant. Or pour reduire ces quatre fa9ons de Nouveauté
posées au propos de la Fable (c’est à dire du Suject du Poéme),
5 je range sous la premiere des non Naturelles les resveries et contes
des nourrices à leurs enfamjons, ou si vous voulez une partie des
nouvelles de Straparole, Autheur Italien, dans lesquelles sans
necessitò d’Allegorie il fait parler et agir les animaux irraison-
nables comme parlent et agissent les hommcs. Sous la seconde-
io je mets les Romans en generai de toute espece, qui n’ont point
ou unite d’action, ou unité de personnes agissantes. À la premiere
des Naturelles, j'attribue l’invention premiere des arts et des
Sciences, comme en particulier la Poesie, mise en avant par Apol¬
idi en son temps ou par autre; et cette Nouveauté est la plus
15 excellente, pource qu’elle ouvre le chemin à ceux qui viennent
après d’en trouver les vertus speciales. À la seconde j’assigne
l’invention des especes, comme de l’Heroique par Homere ou
Orfée, de la Lyrique par Sappilo: en laquelle invention, bien qu’il
y ait moins d’excellence, si v en a-t-il neantmoins beaucoup, au
20 regard de ceux qui en font la premiere rencontre: et autant en
est-il de celle des Subalternes. Donnés-moy ce mot et ceux encore
dont je seray contraint d’user en ceste matiere, pource que je
ne S9ache point que nostre langue en ayt de propres pour les
exprimer, et je ne suis pas assez hardy pour en mettre de nouveaux
25 en usage.
Maintenant venant au Suject, je di.s que VA d o n i s 11’est
ny de la premiere ny de la seconde espece de Nouveauté contre
Nature, veu que comme vous S9avez la Fable est une d’unite
d’action et d’unité de personnes, et que par exemple il n’y a point
30 en icelle de meslange d’Histoire sacrée avec de Poesie profane.
Il n’est non plus de la premiere des Naturelles, pource qu’estant
Poème et Poéme Epique, ce qui se fera voir cy-après, il suppose
la Poesie et l’Epopée avant luy. Reste s’il est Nouveau qu’il
soit de la seconde, c’est à dire de l’une des loiiables, et c’est ce
35 que je maintiens; en voicy les raisons.
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
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L’A c t i o n Illustre selon Aristote, ou se represente ou se
raconte: quand on la represente, la Tragedie s’en forme, lors qu’on
la raconte, l’Epopée. Je deffinis Action Illustre un Evenement
notable soit de bonne soit de mauvaise fortune, arrivò ou à per-
sonnes illustres d’elles mesmes, ou qui sont faictes telles par la 5
qualité d’iceluy. Or de ces sortes d’Actions les unes peuvent adve-
nir en guerre, comme, pour la Tragedie, la mort de Capanée,
l’Antigone, et pour l’Epopée, la mort d’Hector, celle de Tumus:
les autres en paix, comme pour la Tragedie l’Atrée, la Medée;
il est vray que pour l’Epopée on croit qu’il n’y en ayt point d’exem- io
pie. Mais qu’il y en puisse avoir il se voit clairement en ce que la
Tragedie et l’Epopée ne different point pour le suject, et que la
seule fa$on de le traicter, ou representant ou racontant, met
distinction entre elles. Or est-il bien vray qu’entre la represen-
tation et la narration il n’y a difference que par les accidens; 15
car le but de l’une et de l’autre n’est sinon de mettre devant les
yeux soit avec apparat scenique, soit avec des paroles seules (tous
deux instrumens de lTmitation) le suject entrepris: ce qui estant
rien ne peut estre suportable en l’une qui ne se doive recevoir
en l’autre. Mais il n’y a aucune doute que la representation tra- 20
gique ne re^oive des actions arrivées en paix; et ainsi on peut
conclure sans douter que la narration epique ne sgauroit refuser
les mesmes actions pacifìques. Autrement si l’Action Illustre
advenué durant la paix pouvant donner matiere au Poète Tra-
gique ne la devoit pas fournir à l’Epique, il s’ensuivroit qu’ils ne 25
participeroient pas esgalement au suject: ce qui est contre l’hy-
pothese. Je ne nie pas certes, qu’ainsi que, des Tragedies, celles-là
paroissent plus et sont les meilleures qui sont plus meslées dans
le tumulte de la guerre, de mesme des Epopées celles qui ont la
guerre pour suject ne soient les premieres en dignité, comme ayant 30
l’advantage des accidens, et le relief des troubles et du deme-
nement des plus importantes affaires; seulement je veux dire
que tout ainsi que les premieres Tragedies n’excliient pas les
secondes, pour se trouver favorisées d’un plus riche suject, de
mesme l’Epopée, estant en pareil degré et pareille obligation, veu 35
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DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
le suject d’Action Illustre qui leur est commun, ne peut rejetter
une seconde espece de soy, sur le simple aveu de sa préeminence.
Cela resolu de la sorte, posé, corame il est, que le Poéme
d \4 d o n i s soit introduit d’une action faicte en Paix, accom-
5 pagnéedes circonstances de la Paix, et qui n’a de troublesque ceux
que la Paix peut recevoir en elle, ny d’enrichissemens que ceux
que la Paix peut bailler, il est clair estant Nouveau qu’il l’est de
la seconde espece, le Poéte ayant trouvé par luy une chose nouvelle
dans une autre qui estoit des-ja trouvée, c'est à dire ayant trouvé
io dans l’Epopée, outre l’Heroique, qui est un Poéme de guerre
des-ja trouvé, cet autre-cy, qui est un Poéme de paix non encore
trouvé; et cela, d’autant que les Poétes, allechez jus-qu’icy par
la grandeur du suject des guerres (corame plus susceptible de di-
verses rencontres et d’accidens inopinez avec de consequences
15 plus notables) et ambitieux de s’aquerir du nom dans la descrip-
tion de ce qui, comme la guerre, est de plus grand entre les actions
humaines, se sont jettez si avidement et d’un si commun accord
sur cette espece de Poéme, qu’ils semblent avoir ignoré que l’on
en peust traicter une de l’autre opposée. Mais ou ignorée ou negli-
20 gée (ce que je penserois plustost) que cette derniere ayt esté,
entant neantmoins qu’elle constitué unsecond membre de l’Epopée,
si nostre Amy en a regardé l’Idée, comme je le crois, et qu’il ayt
voulu la mettre en practique et luy donner vogue, je dis non
seulement que son Poéme est bon pour estre Nouveau d’une
25 Nouveauté loiiable, mais outre ce que la Poèsie luy sera infini-
ment tenuè, comme à celuy qui luy estend ses bornes heureuse-
ment, et qui sous bon tiltre luy amplifie et augmente son ressort
et son Domaine.
Pour ce nonobstant que prouvant la realité de ceste Espece
30 nouvelle par la Tragedie (laquelle pour comprendre des faits de
guerre et de paix ne reijioit point pourtant de division, et ne pro-
duict pas deux especes de soy mesme, traictant les uns et les
autres esgalement, sans difference de stile ny exception d’accidens)
il semble que l’Epopée, recevant aussi les mesmes faits, les devroit
35 traicter de mesme sorte, sans aucune difference de Caracteres ny
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
23
de Constitution: et qu'ainsi au lieu de deux expeces il n’y en
auroit q’une, contre ce que nous avons concili; je diray premie-
rement que bien qu'en apparence les Tragedies d’un et d'autre
suject semblent n’avoir qu’une seule mode de composition, la
chose n’est pas neantmoins si resolué, pour le stile particuliere- 5
ment, que qui le voudroit examiner jusqu’au fonds ne pust en-
core trouver quelque diversité entre elles; mais secondement je
diray que quand ainsi seroit, la chose, pour ce qui est du traicter,
ne court pas esgale entre la Tragedie et l’Epopée; comme ainsi
soit qu’en la premiere le Poéte n’a point d’esgard à l’action comme io
passée en Guerre ou en Paix, ains à elle seule comme ayant un
trouble particulier, ce qui fait qu’estant Une pour ce respect,
elle ne peut estre traictée que d’une seule maniere; là où en l’Epo-
pée Hero'ique la consideration de la Guerre est receuè, mais tel-
lement receuè que sans elle l’Heroi'que ne seroit plus Hero’ique, 15
entant que le Trouble, qui constitué inseparablement sa nature,
n’est vray-semblablement en elle que pour le respect de la Guerre,
comme de la source du Trouble et de la confusioni et respecti-
vement en ceste nouvelle espece la consideration de la Paix doit
entrer aussi, pour en former inseparablement l’essence, ce qui 20
fera qu’estant doublé par ce moyen elle desirera doublé fa£on de
traicter. Mais en un mot, alleguant la Tragedie pour preuve, il
m’a deu suffire qu’elle m’ait asseuré du suject de Paix aussi bien
que de Guerre; car pour ce qui est du traicter d’iceluy, il est
tousjours different selon les differentes considerations que l’on 25
y apporte, et les choses se considerent autrement niies, autre-
ment revestiies de necessaires circonstances, comme on le voit
par la difference du stile de l’Historien d’avec celuy du Poéte,
sur mesmes occurrences et mesmes evenemens. Or, comme la
Guerre et la Paix sont reniarquables par des mouvemens diffe- 30
rens et des circonstances presque opposées, et qu’il soit neces¬
saire de traicter les choses differentes et les opposées par moyens
opposez, si la difference considerée comme felle peut constitiier
l'espece differente, il n’y a nulle doute que ceste sorte de Poéme,
ayant, dans l’estat de la paix qui l’informe, la difference qui la 35
2 4
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
peut rendre espece distincte, n’en constitué une distincte de
l’Heroi'que aussi, et par consequent ne desire d’estre traictée
differemment.
Et cette Espece, en consideration d’opposé de Paix à Guerre,
5 sera telle, si l’on veut, au respect de l’Heroique, que la Comedie,
en consideration d’opposé d’Action non Illustre à Illustre, l’est
au regard de la Tragedie, et les mesmes oppositions se pourront
rechercher proportionnement entre l’une et entre l’autre, qui
sont entre la Comedie et la Tragedie; pourveu que les regles uni-
io verselles s’y observent pareillement, pour ce qui concerne la gene¬
rale Constitution, et ce que les Poètes appellent Habitudes. Ce
qui se monstrera cy-après estre à perfection en ce Poéme, doni
nous parlons. Et cependant formant l’Idée de ceste nouvelle espece
sur ce fondement d’Action Illustre advenùe durant la Paix, je
15 diray qu’il faut que le subject du Poéme, à qui l’on voudra bailler
ceste Forme, soit Illustre, sans meslange de Guerre; Illustre s’il
se peut pour les personnes principales, et sur tout Illustre pour
l’evenement; que le Trouble particulier y soit aussi grand que le
suject entrepris le peut permettre, mais sans s’esloigner du rapport
20 qu’il luy convient avoir au Repos de la Paix et à ses evenemens
ordinaires; que, la Constitution tenant ainsi de la Simplicité plus
que du Trouble, et les accidens s’y considerans principalement,
à raison de la nature de la Paix qui ne fournit point de substance,
c’est à dire de diversité d’Actions, tout l’effort se mette aux
25 descriptions et à la particularité ; et ce plus des choses practiquées
en paix que de celles dont on use en guerre, comme de palais,
jardins, architectures, jeux et autres semblables; ne traictant de
ce qui n’est pas tei que forcement, et comme en passant; que
l’Amour v ayt la plus grande part, et que tout en sorte et y re-
30 tourne, les autres matieres n’y estans receuès que comme acces-
soires, et comme servans à ceste là: bref que les Faceties y puissent
avoir lieu, mais modestes ou modestement dittes. Toutes lesquel-
les conditions si elles sont propres de la Paix vous le voyez, et si
elles n’embrassent pas tout le contraire des choses qui se consi-
35 derent en la Guerre. Vous s^avez encore que 1 ’A cl 0 n i s en toutes
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
ces parties a un rapport entier à cette Idée, et pour comble de
perfection souvenez-vous qu’il est Mixte sans se ruiner, le tout
partant de sa nature, comme posé entre la Tragedie et la Co¬
medie, l’Heroìque et le Romant; tenant du grave et du relevé,
tant pour les personnes agissantes, que pour la Catastrophe, et 5
du simple et du ravalé, tant pour les actions qui precedent cette
fin, que pour les descriptions particularisées. Je ne parie point
en ce lieu du Stile qui l’accompagne, ayant les mesmes opposi-
tions à celuy de l’Hero'ique que son suject y a, mais je suis bien
certain que la Nouveauté en sera d’autant plus estimable, que io
les lumieres de l’antiquité y seront partout, et que toutes les
graces des Modernes la coloreront.
Et certes tant de riches et de fortes conceptions en emplissent
le corps, que quand bien la constitution du Poéme seroit irregu-
liere, vitieuse et faicte au hazard, sans aucun fondement de rai- 15
son (le contraire dequoy partie s’est monstré, et partie se mon-
strera), si faudroit-il avoiier que le dessein de donner au monde
un genre de Poesie tei que cettui-cy où toutes choses peussent
estre employées, ne fut jamais que tres-beau et que tres-utile;
car combien doit-on croire que se sont perdués, et se perdent tous 20
le jours de belles imaginations, pour n’avoir point de lieu où les
piacer assez dignement, et combien pense-t-on que se soient esga-
rées et ensevelies dans les ruines de l’Ancienneté de choses profì-
tables, que si les Poétes les eussent entreprises, regulierement ou
irregulierement, vivroient encore dans la memoire des hommes, 25
à la commodité du public? veu que chacun voit par experience
qu’il n’y a rien qui se conserve si longuement inexpugnable et
invincible cont re le secousses du temps que les monumens poé-
tiques. Ó que j’exalterois nostre Amy d’avoir esté l’Inventeur,
et le premier Promoteur de ceste Nouveauté, si je n’avois que ce 30
que j’ay dit pour sa deffence. Mais voila les Anciens des deux
meilleures langues, lesquels ont practiqué ce qu’il fait avant luy.
Je ne parie ny de 1 ’Odyssée, ny de 1 ’Histoire Ethiopique: l’une
et l’autre de ces compositions ont plus de troubles, que la Paix
n’en re£oit, et il est aisé à juger qu’elles n’ont jamais esté mou-
35
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
lées sur ce Prototvpe. Mais il nous est demeuré de Musée, si ce
n'est plustost de Nonnus, un Poéme tout pareil à cestui-cy, des
Amours de Leandre et de Hero, et Claudian en avoit ourdy un
long, fondé sur le rapt de Proserpine, dont il nous reste un fragment,
5 du mesrae stile et avec de pareilles actions (quov que bien moins
unes) que celles qui sont icv; de faeton que non seulement en
raison, mais en authorité plus que valable, ceste Nouveauté ne
sera plus en luy qu’un renouvellement, et cornine un legitime
remplacement du deffaut qu’il y avoit en la division de l’Epopée:
io et ainsi pour avoir trop de fondement il en meriterà moins de
louange. Sur quoy si l’on repartoit que ces Poémes alleguez sont
terminez en peu de vers, où cettui-cy en a une prodigieuse suitte,
je voudrois respondre premierement qu’il n’est pas vray pour
celuv de Claudian, et en second lieu que quand en cestui-cy le
15 Poéte se seroit donné la carriere large sans exemple, il l’auroit
peu justement taire, veu que, la matiere de Paix le souffrant,
comme il apparoist par ce qui a esté dit cy-dessus, ce ne sont
que les accidens qu’il a pris à estendre, lesquels accidens, comme
vous s<;avez bien, re^ivent le plus et le moins, n’y ayant en cecy
20 particulierement que la necessitò, ou la volonté qui les regie; ce
que monstre assez l’Episode d’Ariadne dans l’Epithalame de
Catulle, lequel, moins necessaire et moins vravseinblable que
pas un de ceux qui sont dans VA d 0 n i s , ne laisse pas de tenir
plus de place en ce petit Poéme, que le suject principal des Amours
25 de Peleus et de Thctis. Ainsi l’on voit qu’il ne revient aucun
inconvenient de cette longueur objectée. Adjoustés à cela que
tout y estant excellent, et ne pouvant d’ailleurs jamais v avoir
de trop des choses qui sont excellentes, il n’y a que le Poéte qui
perde en cette longuer; veu qu’il n’entend pas, à ce qu’il m’a dit
30 cent fois, qu’on luy face entrer cela en conte d’autre chose; et
qu’il veut qu’on le tienne en toute telle obligation pour les autres
grandes pieces qu’il a promises que s’il n’avoit jamais songé à
celle-cy. En quoy il ne faict que trop voir la difference de son
esprit d’avec ceux du commun; ne sijachant taire les choses negli-
35 gemment ny petitement, non pas mesmes les petites et le negligées.
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE 27
La nouveauté ainsi establie, l’Eslection, que nous avons mise
la seconde des trois choses à considerer, n’a pas besoing de bien
grande preuve après: l’Eslection, dit-on, est appellée bonne lors
qu’elle est proportionnée au Dessein que l'on a, et mauvaise au
contraire; comme qui pour faire un Palais choisiroit un lieu prò- 5
pre, des materiaux convenables, et des outils pour les disposer à
cet effect, celuv-là seroit dit bien choisir, pource qu’il auroit
esgard à la fin de son bastiment, à quoy toutes ces choses se rap-
portent, et sont necessaires; mais qui pour faire un habit, ou
un tableau, se fourniroit des mesmes choses, et auroit les mesmes io
considerations, celui-là se rendroit ridicule, et seroit dit avoir mal
choisi, pource qu’il n’auroit pas regardé à son but, auquel toutes
ces choses sont inutiles. Cela supposé je dis que l’Eslection de la
fable d 'A d 0 n i s est tres-bonne et tres-judicieuse, et qu’à cette
nouvelle Idée de Poème de Paix, à quoy nostre Chevalier doit 15
avoir butté, nul autre suject ne se pouvoit ny eslire nv rencontrer
plus plausible et plus convenant; et ce pour autant que, comme
nous avons dit, l’action en est Illustre de toutes les deux fa9ons,
arrivée en paix, plus simple qu’intriguée, toute d’Amour, et as-
saisonnée des douces circonstances de la paix, et du sei moderé 20
des faceties. Que si pour faire un Poème Heroique à l’ordinaire
il se fust voulu servir de ceste fable-cy, ó qu’il eust esté reprehen-
sible: mais ce ne peut jamais avoir esté son intention, et je m’as-
seure que si vous l’obligiez à la vous declarer sur ce suject, il
vous diroit qu’il ne le donne ny pour Heroique, ny pour Tragique, 25
ny pour Comique, l’Epique seni luy appartenant, mais avec
quelque participation de tous le trois. Et s’il est permis de parler
de ces choses par conjecture, une des principales raisons qui
l’ont deu porter à ceste Eslection, a esté sans doute pour monstrer
entre deux extremités, de grande bonté, comme est le Poème 30
Heroique, et de grande imperfection, comme est le Romant confus,
un milieu auquel le Poéte, qui ne pourroit pas aspirer si haut,
et qui desdaigneroit de s’abbaisser si bas, se pust reduire pour
travailler avec loiiange, et sans crainte de perdre le nom de Poéte.
A l’Eslection succede la Foy, ou la Creance que l’on peut
35
28
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
donner au suject. Point important sur tous autres, pource qu’iL
disent qu’où la Creance manque, l’Attention ou l’Affection man-
que aussi; mais où l’Affection n’est point il n’y peut avoir
d’Esmotion, et par consequent de Purgation, ou d’amendement
i és moeurs des hommes, qui est le but de la Poesie. La Foy dono
est d’absolué necessitò en Poesie: mais quelle Foy peut-on adjou-
ster à une Fable recognué pour telle? le voicy. La Foy, en la signi¬
ficatimi que nous la prenons, c’est à dire pour une inclination
de la fantaisie à croire qu’une chose soit plustost que de n’estre
io pas, s’acquiert par deux moyens: l’un imparfaict ou impuissant,
par le simple rapport ou de l’Historien ou d’autre; et j’appelle
celuy-là impuissant, pource que la sincerité des hommes est in-
cognue, et que le plus souvent on la revoque en doute, sur la
moindre difficulté qui se presente. L’autre parfaict et puissant,
15 par la vraysemblance de la chose rapportée, soit par l’Historien,
soit par autre; qui est le moyen naturel efficace de s’acquerir
de la foy, auquel le premier qui professe mesme la verité se reduict,
s’il est vray que de deux Histoires contraires ou diversement
racontées, on suit tousjours celle qui a le plus de probabilité:
20 ce qui arrivo pour ce que le premier estant Tyrannique, et suject
à estre rejetté, ce dernier-cy gaigne doucement, et empiete vigou-
reusement l’imaginative de celuy qui escoute, et par la conve-
nance des choses contenues en son rapport se le rend bien veil-
lant. Mais de ces deux cornine l’un est propre de l’Historien, aussi
25 faut-il s<;avoir que l’autre l’est du Poète, et cela pour autant
que l’Histoire traicte les choses comme elles sont, et la Poesie
cornine elles devroient estre, en maniere que la premiere ne peut
recevoir une chose fausse, bien qu’elle ayt toutes sortes d’appa-
rence, et la seconde 11’en peut refuser, pourveu que la vraysem-
30 blance y soit: et la raison de cela est d’autant que l’une considero
le particulier comme particulier, sans autre but que de le rapporter :
et c’est pourquov, dans les Histoires, les cas et les evenemens
sont tous differens et non reglés, comme dependans de la fortune,
qui fait aussi bien prosperer les meschans que les bons, et ruine
35 sans ecception les uns aussi bien que les autres; là où la Poesie,
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
29
une des Sciences sublimes, et un des membres non esloignés de
la Philosophie, met le premier en consideration d’universel, et
ne le traicte particulierement qu’en intention d’en taire tirer
l’espece, à l'instruction du monde, et au benefice commun; et
c’est pourquoy, dans les Poèmes, la suitte des actions, ou bonnes 5
ou mauvaises, est tousjours semblable, chacune en son genre;
tout bon recogneu, tout meschant chastié, comme procedant de
la vertu ou du vice, dont la nature est de recompenser ou de
perdre ceux qui les vont suivant; si bien qu’au lieu que, lisant
l’Histoire, je ne cognois que ce qui est arrivé à Cesar ou à Pompée, io
sans profit asseuré et sans instruction morale, lisant la Poesie,
sous les accidens d’Ulysse et de Polyphcme, je vois ce qui est
raisonnable qu’il arrive en generai à tous ceux qui feront les
mesmes actions: comme, par l’abstraction de l’espece, que la
Poesie desire de moy, je ne considere pas plus Enée pieux, et 15
Achille cholereux (ce qui se peut dire de mesrae de toutes les autres
actions et passions des hommes) dans les Poèmes de nos Anciens,
que la Pieté avec sa suitte, et la Cholere avcc ses effects, pour
m’en taire pleinement cognoistre la nature. Pour à quoy parvenir
les mesmes Anciens, poussez de ce zele et de ces considerations, 20
jugeant que la Veri té des choses (suppose qu’elles despendissent
du hazard) nuisoit par leurs fortuits et incertains evenemens à
leur intention si loiiable, tous d’un accord ont bannv la verité
de leur Parnasse, les uns composans tout de caprice, sans y rien
mesler qui fust d’elle, les autres se contentans de la changer et 25
alterer en ce qui faisoit contre leur Idée: mais nul nc faisant estat
de l’y rappeller que lors qu’elle s’accommoderoit à eux, c’est à
dire à la Justice et à la Raison, et qu’elle vestiroit la Vray-sem-
blance, laquelle en ce cas et non la Verité sert d’instrument au
Poète, pour acheminer l’homme à la vertu; à quoy sont autant 30
utiles les exemples de mal que de bien, pourveu qu’ils soient
considerez comme addressez à l’instruction, et payez chacun
selon ce qu’ils meritent. De tout cela nous servent de preuve,
soit l’Achille d’Homere, soit l’Enée de Virgile, lesquels, si l’on
en croit quelques uns, ne furent jadis ny si depits, ny si gens de 35
3 «
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
biens, qu’ils nous les ont baillez, et que neantmoins, voulans
proposer sous leurs noms les Idées des choses qui leur sont attri-
buées, ils ont fait estre tels, ne se mettant en nulle peine si la
verité particuliere en patissoit, pourveu que le genre humain en
5 generai y proffitast par la vray-semblance. Or cette Vray-sem-
blance estant une representation des choses corame elles doivent
avenir, selon que le Jugement humain, né et eslevé au bien, les
prevoit et les determine, et la Verité se reduisant à elle, non pas-
elle à la Verité, il n’y a point de doute que la Poesie l’ayant pour
io partage (c’est à dire le Poéte ne traittant que ce qui doit estre,
et ce qui doit estre estant tousjours Vray-semblable qu’il soit,
car ces deux choses se regardent reciproquement) et faisant par
icelle un insensible effort sur la fantaisie, entant qu’elle ne luy
apporte rien qui ne se juge pouvoir estre facilement ainsi, ce que
15 la Verité mesme ne faict pas, sinon autant qu’elle est Vray-sem¬
blable, il n’y a point de doute, dis-je, qu’elle ne soit plustost
creué, ayant pour soy ce qui se fait croire simplement de soy
mesme, que l’Histoire qui y procede plus tyranniquement, et
qui n’a pour soy que la Verité nué, laquelle ne se peut taire croire
-o sans l’ayde et le soulagement d’autruy. Ainsi donc il suffira au
Poéme qu’il soit Vray-semblable pour estre approuvé, à cause
de la facile impression que la Vray-semblance fait sur l’imagina-
tion, laquelle se captive et se laisse mener par ce moyen à l’in-
tention du Poéte.
25 Cette matiere discouruè de la sorte, pour en taire l’application
au Poéme de nostre Amy, l’on voit que si l’on veut nier la Verité
de la chose (comme la qualité de fable que le succés a pris jusqu’icv
semble le devoir faire avoiier, ce qui n’est pas neantmoins Constant,
veu que l’Escriture mesme fait mention des pleurs respandus pour
30 A d o n i s , et que selon les Anciens Rapsodieurs et Mythologistes
il n’y a aucune fable, specialement de celles des Deitez, qui n’aye
eu son fondement sur quelque Evenement veritable), le Poéme
ne laissera pas d’estre regulier pour cela, et n’en perdra pas la
Creance; pour ce que la Verité n’estant pas de l’Essence de la
Poésie, et quand mesme elle s’y rencontre ne se considerant pas-
35
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE 31
cornine telle, ains comme Fable seulement, à l’usage que nous
avons dit, si la seule Vray-semblance y est recherchée, tant que
le Poème sera vrav-semblable, comme vous s^avez qu’il l'est,
tant aura-t-il de Creance parmy les hommes: et plus il en perdra
par defaut d’Histoire, plus en acquerra-t-il par suffisance de prò- 5
babilité.
Pour d’avantage demonstrer la juste et necessaire Fausseté
des Poémes, j’eusse bien mis en avant l’Allegorie, dont ils doivent
estre accompagnez. Mais pour ce qu’elle estoit inutile pour le
discours de la Vray-semblance (comme estant une Operation de
l’entendement reflechv sur soy mesme qui passe d’espece à espece,
et non des cominunes de l’imagination), je l’ay renvoyée en ce
lieu : l’Allegorie donc, de la commune opinion des bons esprits,
fait partie de l’Idée du Poème, et est le second fruit que l’on en
peut retirer. Or comme il arrive qu’elle soit le plus souvent incom- 15
patible avec le veritable succes des choses, les Poètes obligés à
l’y taire entrer se resoudront tousjours plustost à fausser la Verité,
laquelle n’est en leurs ouvrages que par Accident, qu’à laisser
l’Allegorie, qui y doit estre par Nature. Dequoy nous avons une
notable preuve dans les fables qu’Esope a données à son pays. 20
Ont elles aucune Vray-semblance, non pas seulement Verité,
pour ce qui est des arraisonnemens, paroles, subtilités, prevoyances,
et autres choses qu’il attribùe à ses animaux? Et neantmoins
elles ont passé jusqu’à nous, avec un applaudissement generai
du monde, qui lisant la Fable va soudain à son Sens, c’est à dire 25
à l’autre espece designée, appliquant utilement ce qu’il a dit
d’une impossible à une possible, sans s’amuser à en examiner la
possibilité; comme pour nous avertir plus que clairement qu’aux
autres Fables (j’entens Poésies ordonnées et plus proches de nous
que celles là), laissant l’examen de la Verité, comme chose indifle- 3»
rente, il importe seulement de regarder si le proffit recherché s’y
rencontre.
Jusqu’icy, si je ne me trompe, les points qui pouvoient empe-
scher ce Poème d’estre Poème, c’est à dire bon en son genre de Poe¬
sie, sont suffisamment esclaircis, et il s’est assez monstré qu’ils ne 33
32
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
luy en font point perdre la Nature. Reste maintenant à voir ceux
qui peuvent le faire estre tei; et s’ilest possible, prouver qu’il a tou-
tes les principales conditions des Poémes Epiques des-ja receus,
et quepour celles dont on le voit despourveu, il ne les pouvoit pas
5 avoir sans disconvenance; et consequemment qu'il est en son
dernier point de bonté. C’est le second membre de la Proposition,
lequel il nous faut essayer d’establir pour sa preuve entiere.
En tout Poéme Narratif je considere deux choses: le suject,
et la fa9on de le traitter. La Premiere consiste en la Constitution
io de la Fable, laquelle selon ma division particuliere comprend
l’Invention et la Disposition proprement, et improprement les
Habitudes, et les Passions. La Seconde est le Stile, qui sert à
l’expression de toutes ces choses, et embrasse les Conceptions et
la Locution. Mais chacune de ces Parties a ses regles et ses con-
15 ditions, desquelles plus le Poéme approche plus est-il Poéme,
c’est à dire plus va-t-il pres de la perfection. Voyons commenl
VA d 0 n i s s’y accommode.
Preinierement je reduis l'Inventimi de tout Poéme à deux
points, le Premier la Diversité, le Second la Merveille. Cette Di-
20 versité s’acquiert en deux manieres: l’une par la Nature du Suject,
l’autre par ses Accidens. Celle qui provient de sa Nature est cornine
une Emanance de choses lluantes d’elles mesmes de l’abondance
naturelle du Suject; comme dans l’Heroique les choses qui con-
stitiient le Trouble, et sans lesquelles le Poéme ne seroit point
25 Heroique, sont dittes engendrer Diversité provenante de la Na¬
ture du Suject; et dans cette Espece nouvelle de Poéme de Paix,
les choses ordinaires non troublées la produiroient aussi, si la
Tranquillité pouvoit recevoir Diversité d’Evenemens, et non au
contraire. La diversité qui procede des ses Accidens est comme
30 un Rapprochement des choses qui luy peuvent convenir, mais
sans estre pourtant essentielles à sa Nature: comme en l’Heroi¬
que, tout ce qui entre dans la Fable sans contribuer au Principal
Evenement, et qui nonobstant luy est convenable (ce qui doit
estre peu, à cause que sa Nature Troublée luy donne assez de
35 corps de soy mesme, sans qu’il luy en faille mendier d’ailleurs),
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
33
et en cette Idée, tout ce qui entre inutilement ou non necessaire-
ment dans le Poéme, mais sans disconvenance neantmoins (ce
qui peut estre beaucoup, attendu sa pauvreté naturelle), toutes
ces choses, dis-je, sont estimées produire Diversité engendrée par
les Accidens. La premiere Diversité fait la Fable necessaire, la 5
seconde la rend riche d’ornemens. La Merveille a les mesmes sour-
ces; la Nature du Suject produict le Merveilleux, lors que par un
Enchaisnement de causes non forcées, ny appellées de dehors, on
voit resulter des Evenemens, ou contre battente, ou contre l’ordi-
naire. La Merveille a lieu par les Accidens, quand la Fable est io
soustenué par les Conceptions et par la richesse du langage seu-
lement, de fa^on que le Lecteur laisse la matiere, pour s’arrester
à rembellissement. Mais avant que d’amener ces choses à nostre
propos, il faut supposer que l’examen de tout Poéme gist premier
que tout en la cognoissance de son Suject, pour le rapporter à 15
son Idée; puis à voir s’il a l’observation des regles données à son
Espece.
L ' A d 0 n i s donc, pour venir au fait, estant un Suject Nou-
veau, constituant une Espece nouvelle, opposée, comme nous
avons dit, à l’Heroique (à qui les premieres manieres de la Diver- 20
sité et de la Merveille, qui partent de la Nature du Suject, appar-
tiennent), entant que la Nature de son Idée nouvelle (qui est
d’avoir plus d’Accidens que de Substance) ne re50it pas ce pre¬
mieres, s’arreste aux dernieres qui sortent des accidens, dont il
est tres-capable. Or il s’y arreste ainsi non pas qu’il n’y ayt et Di- 25
versité et Merveille de ces premieres especes, dans le Corps de la
Fable, tant qu’elle l’a souffert, mais d’autant qu’il est requis,
pour la perfection de son estre, qu’il s’attache à la Partie que
l’Heroi'que n’a peu embrasser; et que comme l'un se soustient par
ses seuls Evenemens, arrivez pendant la Guerre et le Trouble, 30
de mesme l’autre se maintienne par le seul moyen des choses
simples et vaines, que l’Action faicte durant la Tranquillité de
la Paix luy fournit. Mais que nonobstant cela le Poéte n’ayt rien
laissé en arriere dans 1 ’ A d 0 n i s , de ce qui luy pouvoit accroi-
stre et la Diversité et la Merveille qui procedent de la Nature 35
3
34
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
du Suject, sa tissure, en la forme que nous l’avons veué, s’il vous
en souvient, le tesmoigne assez; et pour prouver qu’il ne pouvoit
que mal faire, s’il l’eust prise et faicte d’autre sorte, je diray ainsi.
Si pour produire plus de Diversité et de Merveille des premieres
5 manieres, dans 1 ’ A d o ni s , qu’il n'y en a, le Marin eust introduit
d’autres matieres que celles qui y sont (comme il eust este besoing
pour cet efìect), il eust fallu qu’elles eussent esté ou bien de inesme
Espece, ou bien de differente; si de mesme Espece, c’eust deu
estre en y faisant entrer d’autres actions de Dieux principales que
io de celles qui y entrent (car de non principales il n’y en peut avoir
d’avantage, j’entens de celles qui peuvent servir au Suject), mais
s’il y en eust mis aussi de Principales (bien qu’elles y eussent
mesme peu servir), l’action eust esté des-unie, et par consequent
de la Seconde maniere blasmée de Nouveauté contre Nature;
15 c’est à dire que d’autres principales Actions eussent estouffé
cette-cy Principale, et V A d o n i s n’eust plus esté ce bel
A d o ni s , ains quelque Hydre à plusieurs testes. Si les Actions
qu’il y eust inserées eussent aussi esté de Differente Espece, c’est
à dire d’Actions humaines, les Actions adjoustées eussent deu ou
20 servir au dessein principal, ou n’y servir pas. Celles qui eussent
servy pouvoient estre ou Principales, ou non Principales. Les
Principales eussent des-uny l’Action ne plus ne moins que les
Principales de mesme Espece; et de plus eussent eu la Diversité
de l’Espece, qui n’est pas un petit esloignement. Pour les non
2 5 Principales il y en a (aussi bien que de celles de mesme espece)
autant que le Suject en a peu porter; soit maniées à l’Ancienne,
qui est la maniere de traicter que j’estime le plus en cecy; soit à
la Moderne, ce que je n’approuverois pas en ce Poème s’il y en
avoit plus d’un chant (divin certes en soy, il le nomine Gli Errori),
30 à cause de l’absurdité que me semble apporter le meslange des
genres, et la confusion des Temps. Mais s’il les y eust faictes de
Differente Espece, pour ne point servir, elles eussent esté Princi¬
pales toutes, si bien que les mesmes inconveniens remarquez cy-
dessus s’y fussent trouvez; et de plus la Composition, ne pouvant
35 estre de cette sorte qu’une opposition de Divin à Humain,
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
35
raonstrueuse, et non convenablement liée, fust torabée en la pre¬
miere maniere de Xouveauté contre Nature; et n’eust eu ny unité
d'Action, ny esgalité d’Espece, ny favorable couverture de con-
nexion. Et cecy pour la Diversité. Pour la Merveille maintenant
on ne la pouvoit rendre plus grande dans le Poème qu’en y adjou- 5
stant de nouvelles occasions d’icelle; or c’est chose qui n’a peu
estre, tant pour ce qui a esté dit sur le Suject de la Diversité, que
pour ce que le Poète ne peut attribùer à une fable receuè (comme
il le peut à une Histoire) d’autre evenement que celuy qui des-ja
est recognu en icelle; et la Raison, ce pense-je, est d’autant, que ce 10
que la Verité considerée comme vraye est à l’Histoire, cela mesme
est la Fable considerée comme vray-semblable à la Poesie. Or
comme l’Historien, ayant une fois receu et recognu la Verité pour
vraye, ne la peut alterer en fa^on quelconque, c’est à dire n’y
peut ny adjouster ny oster; de mesme le Poète recevant une *5
fable d’autruy et la recognoissant pour vray-semblable, c’est à
dire reduitte une fois à la Vray-semblance, object immuable de
la Poesie, demeure là sans y rien pouvoir innover, soit pour en
soustraire partie, soit pour y apporter du sien; en telle sorte que,
comme on dit que la Verité doit servir de vray-semblance à l’Hi- 20
stoire, au regard de l’Historien, ce qui fait qu’il n’y peut rien
changer, quelque utilité qu’il y sente, ainsi l’on puisse dire que la
Fable vray-semblable doit tenir lieu de Verité à la Poésie, au
respect du Poète, ce qui fait par mesme raison qu’il n’y doit
rien remùer, quelque commodité qui soit pour luy en revenir. 25
Mais aussi, pour retourner au Suject, ne pouvant faire
de nouvelle attribution de matieres, le Poète ne pouvoit
faire esclorre d’autre Merveille en ce Poème que celle qui y
est; veu que la Fable en soy est plus que pleinement trait-
tée, et que tout l’artifìce possible y a esté employé. Accordé 3°
neantmoins qu’il luy eust esté loysible de faire cette addition,
outre ce que le faisant la fable se fust trouvée chargée de trop
de Choses, contre le Posé de son Idée, elle eust d’abondant couru
fortune d’engendrer Diversité d’actions comme il a esté dit devant,
en l’examen de la Diversité. Or l’unité de l’Action, entre les regles 35
36
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL ADONE
generales que toute Epopèe doit observer, est particulierement la
Principale, sans laquelle le Poéme n’est pas Poème ains Romant.
Si donc pour garder cette Unité le Poéte s’est contenu dans les
bornes de la Fable proposée, bien que sterile de soy pour les pre-
5 mieres manieres de Diversité et de Merveille, il n’a faict que ce
qu’il devoit taire, et cherchant ces Diversité et Merveille dans les
secondes, ga esté chose conforme à l’Idée de son Poéme nouveau.
Que si vous me demandiez maintenant quelle des deux manie¬
res me semble la plus noble, ou celle qui vient de la Nature du
io Suject, ou celle qui sort de ses Accidens seulement; c’est à dire,
pour l’esclaircir par l’exemple, ou l’Heroique qui a le Trouble
essentiel, ou cette nouvelle Espece qui a la Tranquillité insepa-
rable; j’avoiierai tout ingenuèment que c’est la premiere selon
mon Sens, et que je ne mcts celle-cy que seconde en ordre; encore
15 que plusieurs raisons me peussent taire penser autrement. Car
si entre autres vous considerez la Fable, il vous souviendra que
les Anciens en ont recognu de trois sortes. La Premiere estoit
appellée des Latins Motoria, cornine celle qui contenoit en soy
des agitations et de la confusion dans la suitte de son Suject.
20 conduittes avec art à une fin ou heureuse ou malheureuse, selon
que la Matiere le desiroit. La Seconde se nommoit Stataria, corame
moins agitée et plus tranquille que l’autre; et celle-cy consistoit
en accidens ordinaires, et finissoit sans grand attirail, de la sorte
que le Spectateur se l'estoit persuadé. La troisiesme se disoit
25 Mixte, comrae celle qui tenoit de l’unc et de l’autre. Or de dire
quelles de ces trois Especes estoit la plus en estime auprès d’eux
il seroit difficile, et sembleroit aisément que la Tranquille ne leur
fust pas en moindre consideration que les autres, veu qu’ils la
mettoient souvent en practique, et veu que l’institution de la
30 Poesie fait plus pour elle que pour les deux autres; voicy comment.
La fin de la Poesie estant l’Utilité, bien que procurée par le moyen
du Plaisir, il y a de l’apparence que ce qui a l’Utilité pour object,
c’est à dire ce qui tend a l’Utilité, soit plus estimable en icelle, que
ce qui n’a pour object que le Plaisir seulement, c’est à dire ce qui
35 se termine au Plaisir; et qu’ainsi les Fables qui ne sont pas emba-
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL ADONE
37
rassées, corame ayans pour object l’Utilité, luy soient plus consi-
derables que celles qui le sont, corame n’ayant pour object que
le Plaisir tout seul. Mais que les Fables Tranquilles avent pour
object l’Utilité, ou ce qui la cause, je n’y vois point de doute;
car si l’Utilité de la Poesie consiste en la purgation des passions 5
vitieuses, il est clair que cet effect se tire plustost de celles qui ne
sont point troublées ny brouillées, que de celles qui le sont. Et
qu’il ne soit ainsi, chacun m’accordera que ce qui doit purger le
doit par impression, et non par relasche, par la continue, et non
par l’interruption. Or est-il que la simplicité des fables Tranquilles jo
leur donne cela par excellence, en tant qu’elles ne sortent jamais
de leur Suject, et qu’elles ne s’obligent qu’à la particuliere descrip-
tion de la passion entreprise; ce qui n’arrive pas à beaucoup près
à celles qui ont le Trouble affecté à leur ^Nature, comme celuy qui
les dissipe en parcelles, et qui par le meslange de plusieurs choses 15
differentes esmousse et enerve la viguer que chacune en sa sim¬
plicité pourroit avoir. Aussi les Anciens ayans esgard à cela se
sont empeschez tant qu’ils ont peu, mesmes dans leurs grand
Poémes, de se charger de tant de matieres, recognoissans que
bien qu’en leur Diversité et capacité de Merveille elles peussent 20
faire maistre le Plaisir, elles nuisoient aussi à la fin de l’Utilité, à
laquelle tous les Bons dressent toutes leurs machines; et c’est en
partie pourquoy ces Roraans se trouvent si mesprisables parmy
les bien sensez, comme ceux qui sans aucune Idée de perfection
sur qui se conformer, amoncellent aventures sur aventures, com- 25
bats, amours, desastres, et autres choses, desquelles une seule
bien traittée feroit un loiiable effect, là où toutes ensemble elles
s’entredestruisent; demeurant pour toute gioire l’amusement des
idiots, et l’horreur des habiles, qui n’en peuvent supporter le re-
gard seulement, les s^achant dans leur confusion du tout esloi- 3°
gnées de l’intention de la Poesie: car pour purger il faut esmou-
voir; or, comme on ne peut esmouvoir sans faire impression, la¬
quelle impression se faict par moyens et convenables et conti-
nuez, et comme d’ailleurs ces Romanceries, soit par la qualité,
soit par la quantité de leur matiere, en soient entierement rendiies 35
38
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
incapables, on ne peut aussi raisonnablement esperer cette purga-
tion par leur entremise. Mais tout au rebours de ceux-cy, et des
Heroiques mesmes, en l’Idée de ce Poéme Nouveau la Diversité
ne consistant pas en choses dont la multitude ou la confusion
5 puisse distraire et aneantir l’iinpression, ains en descriptions qui
aydent à la taire, et par consequent à produire cette Utilité re-
cherchée, il se voit que le but de la Poesie se pourroit dire y estre
pleinement atteint, et qu’en cette consideration elle obtiendroit la
premiere place. Voila bien une partie de ce que l’on diroit sur ce
io suject, qui auroit volonté d’y tout loiier, et d’en taire trouver
tout au premier degré d’excellence. Mais comme ce n’est nulle-
ment icy mon dessein, et que je ne m’emporte pas volontiers aux
apparences quand j’ay cognoissance de la Verité, la Conclusion
que je prens sur cette matiere est tede. Il est certain que la vraye
15 fin de la Poesie est l’Utilité, consistant en cette Purgation susditte,
mais qui ne s’obtient que par le seul Plaisir, comme par un pas-
sage force; de fa9on que sans Plaisir il n'y a point de Poesie, et
que plus le Plaisir se rencontre en elle, plus est elle Poesie, et mieux
acquiert-on son but qui est l’Utilité. Or le Plaisir en toute lecture
20 se peut considerer de trois sortes; soit quand il vient des Choses
seules nuès, et non ordonnées; soit quand il naist des Descriptions
seules, c'est à dire où les Choses servent aux Descriptions; ou soit
quand les Choses et les Descriptions le produisent ensemble, par
un assembiement judicicux et moderé, de maniere que Cune
25 n’empesche point l’autre, et que les Choses neantmoins y parois-
sent avoir le dessus. La premiere est abusive en Poesie, ne luy
est point propre tant que de l’Histoire, et n’a pas lieu par autho-
rité d’aucun bon Poète Ancien; et à cette sorte, si, outre la nudité,
la confusion et multiplicité monstrueuse d’actions Principales s’y
30 considere, je reduis les Poémes Anciens de vicieuse conforma-
tion et les modernes Romans dont, par sympathie d’imperfec-
tion, le sot populaire adore la folle tissure. A la Seconde cette
nouvelle Idée de Poéme de Paix se raporte, et en icelle la Poesie
y est en sa pure Pureté, sans qu’elle y reijoive rien d’estrange, que
35 pour luy servir simplement de suppost. La derniere esleve la Poè-
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
39
sie au dessus de soy mesrae, et la faict s’incorporer (sans alterer
en rien sa Nature) en un Suject qu’elle veut traitter pour luy, et
non pour elle mesme; et à celle-là s’attribiient les Idées du Poéme
Hero'ique. Maintenant, comme nous avons exclus la premiere ma¬
niere de Plaisir de toute composition poétique, aussi ne peut- 5
on nier que des deux dernieres la premiere, qui subsiste par les
seules Descriptions, ne soit autant au dessous de l’autre, qui
comprend les Choses revestiies de Descriptions, que la Description
seule est moindre que la Chose entiere descripte; ou bien que la
Description se servant de la Chose seulement comme de suppost, 10
est au dessous de la Chose (accordez à la Necessitò l’importune
repetition de ce terme, mais j’entens par tout du Suject) qui se
sert de la Description pour accompagneinent tout simple; comme
ainsi soit qu’en la Description qui se sert de la Chose, la Chose,
comme celle qui n’est pas Principale, n’y est point en sa perfection, 15
là où en la Chose qui se sert de la Description, la Chose d’une
part y est entiere, comme Principale, et la Description, bien qu’elle
ne soit pas Principale, y est neantmoins parfaitte comme si elle
l’estoit; veu que la Description est de l’essence de la Poesie, en
laquelle jamais elle ne doit manquer. Et ainsi, d’un costò, si la 20
premiere Espece de ces deux dernieres, qui s’approprie cette nou-
velle Idée, est plus purement Poétique, c’est à dire qu’elle donne
plus le nom de Poéte a l’Escrivain que l’autre (pource que la Vertu
de tout artisan, au rang desquels se met le Poéte, ne se remarque
pas par la richesse de la matiere, mais par la rareté de son artifice 25
à la traitter), d’autre costò la Seconde, qui s’establit par l’Heroique
recede, sera plus richement Poétique, comme estant avantagée
et perfectionnée par le surcroist de la Chose qui a sa perfection;
je veux dire qui est mise en consideration de parfaitte en son
estre, et traittée pour elle mesme principalement. Ce sont là les 3°
raisons qui m'ont faict dire, recognoissant la forme de V A d o ni s
comme tenant de cette nouvelle Idée, qu'elle cedoit la primauté
à celle de l’Heroique, et qu’elle se devoit contenter du Second
lieu que sa Nature luy donnoit.
A l’Invention se peuvent reduire les Parties du Poéme qu’ils 35
4 o
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
surnomment de Quantité, à s^avoir le Nouèment de la Fable et
son Desnoiiement, pour imiter les Italiens en la formation de ces
termes, lesquels se pourroient aucunement exprimer par l’Enla-
cement de la Fable, et le Desveloppement d’icelle. Or, bien que
5 ces Parties ne soient pas dans VA d o n i s , pour ce qui est de
l’Action principale de l’Espece tant estimée chez les Heroiques,
c’est à dire avec merveille ou sans Agnition ou avec Agnition ;
si y sont elles nonobstant; mais si c’est moins parfaittement, le
deffaut de la matiere en est cause. Or il s’est prouvé cy-devant
io que l’Eslection en a esté necessaire de la sorte, pour l’Idée de la
Nouveauté susditte, et qu’en cette Idée la Matiere ou bien la
Chose estoit ce que l’on consideroit le moins. Des Parties sou-
smises à la Constitution de la Fable, la Seconde des Propres est
la Disposition; à laquelle pour estre bonne on requiert ordinaire-
15 ment deux choses: l’une que le Poéte en la tissure de son ouvrage
ne tire pas le commencement du Narré ab ovo, recherchant la pre¬
miere cause de l’Action et la faisant marcher en ordre toute dans
le Recit, selon le Temps qu’elle est advenué, comme vicieusement
ont faict Stace et Silius Italicus, sans parler de Lucain, pouvant
20 faire autrement; l’autre que la Peripetie, j’entens la Conversion
ou le Changement de Fortune, s’y trouve, soit de bien en mal,
soit de mal en bien. Pour la premiere (si l’on veut que le Poéte
en VA d o n i s y ait contrevenu) je dis qu’il ne l’a peu observer,
ou du moins qu’il ne l’a pas deu. Mais qu’il ne l’ait peu d’une
is part il me semble manifeste; car s’il eust donné une autre Dispo¬
sition à l’ouvrage que celle qui y est, comme s’il eust commen-
cé la Xarration à l’arrivée d’Adonis dans la forest de Cypre,
ou dans le Palais d’Amour, ou bien plus avant encore, on void
qu’il eust perdu irremediablement l’occasion d’instruire le
30 Lecteur du Suject de l’Amourachement de Venus (chose qui ne
se pouvoit passer, estant absolument de l’essence de la Fable) ;
il l’eust dis-je perdué, veu que, le seul Amour le s^achant, il eust
esté contre la Bien-seance du Fils envers la Mere, de l’introduire
comme se vantant à aucun de sa vengeance; et eust encore esté
contre la raison, veu que, s’en vantant, il eust deu craindre le
35
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
41
courroux de Venus, et apprehender un nouveau chastiment d’elle;
et pour ce qui est d'Apollon et de Neptune, lesquels s^avoient
quelque chose de cette Vengeance, comme l’ayant aydée, ils ne
pouvoient non plus la raconter à d’autres, sinon en s’esloignant
beaucoup du Suject de la Fable, et cela encore avec un gran 5
dechet et du gros de l’affaire et des particularitéz qui y entrent
utilement; toutes lesquelles choses l’Amour ssavoit tout seul :
ainsi donc le Poéte ne luy a peu donner d’autre Disposition que
celle que nous y avons veué. D’autrepart qu’il ne l’ait pas deu,
quand il l’auroit peu, il apparoist de ce que cette Transposition io
de Matieres que l’on cherche dans les Poémes, en soy est plus un
recours et un expedient qu’une beauté: une necessité, sinon un
embarras, qu’une merveille; je veux dire que les judicieux Anciens
s’en sont servis, non pour expressement causer cette Suspension
tant recommandée, laquelle neantmoins differe de la Merveille, >5
qui l’examinera bien, mais seulement pour rappeller et comme
recomprendre dans le corps de leurs Compositions ce qui pou-
voit s’estre passé devant la demiere année, en laquelle leur Action
se descrit estre faitte: et cela pour plusieurs raisons; la premiere,
pour ne luy pas donner plus de cours que d’un an, terme que se 20
sont prudemment prescrit tous ceux qui avec honneur ont voulu
traitter d’Action Illustre en Poesie Narrative, comme celuy d’un
jour naturel ceux qui ont embrassé la Representative: la seconde,
pour ne pas surcharger leurs Poemes, par une Narration continuée,
de plus de grandes actions, respondantes à une seule, que le Suject 25
pour son Bien-estre n’en pouvoit recevoir: et la troisiesme, pour
ne pas corrompre leurs ouvrages par plusieurs Actions differente*
et independantes les unes des autres, qui les eussent rendus def-
fectueux en Unité. Que si leurs Actions, ou n’eussent pas plus
duré qu’un an, ou n’eussent pas eu plus de matiere que leur per- 30
fection n’en desiroit, ou n’en eussent point compris de separées
d’avec elles, il est tout clair qu’ils n’eussent pas laissé l’ordre de
Nature, qui n’est point forcé, pour en prendre un autre, où il y
a de la force, et où l’imagination travaille grandement; l’exemple
de Claudian y est formel, et des autres, c’est à dire de Musée 35
4*
DISCORSO DI CHAPEI.AIN SULL’ADONE
ou de Nonnus, qui suivent cet ordre facile. Mais en VA d o n i s ny
la Fable tonte ne s’estend pas au de là d’une année, ny la masse
des choses n’est pas si grande, ny ce qui precede l’Amour de Venus
n’est point si des-uny de l’Action proposée, que pour eviter à
5 tous ces maux il ayt esté besoing de recourir à cet ucrD-spov 7 tpó~£-
pov; il eust donc esté mal à propos que le Poéte s’y fust assujetty
pour laisser la voye naturelle, laquelle, tant qu’il n’y a point
d’inconvenient, est tousjours la plus loiiable. Pour la Conversion
maintenant elle y est, bien que sans Merveille, pour les raisons
io que nous en avons dittes cy-dessus, de l’espece la plus pathetique,
et la plus efficace pour purger les passions: la Tragique à s9avoir;
mais las ! de quelles circonstances accompagnée. Ausquelles choses
toutes ayant esgard, je me suis cent fois estonné de ce que nostre
Chevalier m’a dit et redit, qu’il n’estoit pas satisfait de cette
15 Piece, et que si c’eust esté à recommencer il luy eust bien baillé
une autre forme que cette-cy; mais après avoir pensé de luy que
la grandeur de son Esprit luy pouvoit fournir des Idées ausquelles
nul autre discours de raison ne sqiauroit arriver, incognuès à chacun
tant qu’il les eust luy mesme descouvertes, enfìn n’en ayant
20 rien tiré autre chose, j’ay creu, tondé sur ces raisons, que ce qu'il
en disoit n’estoit que pour me tenter, et pour me mettre en peine,
veu que mesme jusqu’icy je ne me suis rien pu figurer qui de-
struise ce que j’y ay considerò.
Après les Parties que nous avons dittes Propres de la Consti-
25 tution, suivent les Impropres, dont la premiere a este nommée
Habitude. Cette-cy se deffiniroit une Inclination naturelle confir-
mée par la pratique, soit au bien, soit au mal; laquelle on doit
trouver és Personnes qui entrent dans le Poéme, doiiée de quatre
conditions selon les Anciens, mais, comme je tiens, de deux seule-
30 ment, à s9avoir de la Bonté et de la Convenance, de la Ressem-
blance et de l'Egalité; car, pour les deux premieres, elles se reci-
proquent, attendu que ce qui convient est bon, et que ce qui est
bon est aussi convenable; de maniere que les Accidens qui seront
attribiiez à une Nature mauvaise, quoy que mauvaise en soy,
35 doivent estre dits bons, entant qu’ils luy conviennent; comme, si
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADOXE
43
Diomede ou Mezentius, cruels, estoient introduits dans un Poéme,
l'Habitude de la Cruauté seroit ditte bonne, pour ce quelle leur
conviendroit; ainsi l’Artifice et la Magie en Armide sont bonnes
Habitudes, non pas moralement parlant, mais en consideratimi
poétique. Autrement, ayant à faire un Poéme, le Poéte seroit
obligé de le former tout de personnes vertueuses, contre l’usage, 5
et contre la raison. Les deux dernieres d’autre part, je dis la Res-
semblance et l’Egalité, sont aussi mesme chose, ou peu s’en faut,
corame ainsi soit que l’une vue'ille que la Personne introduitte
soit faitte sembiable à ce que l’on a S9eu de son inclination, ou 10
par Renommée, ou par tesmoignage d’Autheurs; et que l’autre
desire, si elle n’a point este cogneiie d’une habitude plustost que
d'une autre ou qu’elle soit toute feinte à plaisir, qu’on la face
continiier dans toute la suitte du Poéme de la mesme Habitude
qui luy aura esté d’abord attribiiée; et c’eust esté aussitost fait 15
de dire, que la Personne introduitte soit faitte telle dans tout le
cours du Poéme qu’on l’aura ou prise d’autruy ou forgée de soy
mesme en le commen^ant. Mais que ces conditions des Habitudes
ayent esté exactement observées dans VA d o n i a , il est tout
apparent; et premierement, pour le Bon et le Convenable, si 20
l’on s’opiniastre mesme à vouloir constituer du Bon une Espece
differente du Bien-seant, entre les choses bonnes l’Amour est
estimé tres-bon, et les plus severes ne le S 9 auroient rejetter que
parmy les indifferentes; ce qui revient tout à un, pour le Poéte;
outre que, la seule fin des choses determinant leur bon té ou leur 23
mauvaistié, si celle des Amours d’A d o n i s par leur Catastrophe,
comme des Tragedies, est de purger la salleté qui se trouve en
cette passion, elle est bonne, et fait l’action entiere bonne en ce
regard de sa fin; mais si l’on s’arreste au Convenable pour tous
les deux, quelle chose a plus de convenance avec la Jeunesse et 30
avec la Beauté que la Chasse, et les Passions Amoureuses? Se-
condement, pour le Sembiable et l’Egal, de quelque sorte qu’on
les tourne, qui a-t-il dans ce Poéme ou de receu par renommée
ou d'inventé par le Poéte du tout, qui ne garde jusqu’au bout
son Habitude premiere? Sans en venir à plus evidente demon- 35
44
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
stration, pour ne vous pas estre ennuyeux vous le prouvant par
le menu, je m’en remets à vostre memoire.
Les Passions selon nostre ordre constitiient la Seconde partie
des Impropres; et semblent taire corps avec les Habitudes, comme
5 sortant d’icelles; la Passion n’estant autre chose qu’une Pertur-
bation arrivée en la faculté animale par une forte application, et,
si je Tose dire, tension extraordinaire de la naturelle inclination.
Et à cela, les regles communes de l’expression de Passions vous
estans cognués, je vous diray seulement que toutes celles d’Amour
io particulierement sont en VA d o n i s si efficacement et si s£a-
vamment animées, que le Poéte y a laissé derrière les plus renom-
mées en ce genre, et j’ose asseurer que ceux qui le suivront à
l’advenir de plus près en cela n’en approcheront janrais que de
bien loing encore. A l’ouverture de son livre vous en avez les
1 5 exemples tout clairs, sans qu’il soit besoing icy de les examiner
d'avantage.
Or, le Suject prouvé, le Stile se presente, dont nous avons
Jait deux parties: ( les Conceptions, et la Locution. Pour les Con-
ceptions, desquelles vous s^avez toutes les differences, et tous
2o les effects, je diray hardiment que ce Sublime Esprit y a tellement
excellé en cet Ouvrage, que je ne crois pas, soit pour les Passions,
soit pour les Descriptions, qu’il en soit jamais tombé de pareilles
en entendement humain. C’est en cette partie veritablement qu’il
a transporté la Diversité et la Merveille, lesquelles les autres
25 Poétes recherchent dans l’invention des Choses seulement; et en
cette partie tout autre pouvant se rendre saoulant et desgoustant,
il a reiissi luv si charmant et si agreable que sa longueur devra
sembler trop courte à quiconque aura tant soit peu de sentiment,
en matiere de belle lecture. Pour la Locution maintenant (s’il
30 m’est permis, sans estre suject à reprehension, de juger de la beauté
d’une langue qui ne m’est pas naturelle) la Diction est si pure
en luy, si Thoscane, si choisie, et si pregnante, qu’il n’y eust
oncques Poéte, en quelque Idiome que ce soit, qui eust ce don
plus accomply que luy; et de ces dernieres parties s’est forme
35 ce Stile qui, soit en douceur, soit en gravite, soit en boutades vraye-
DISCORSO DI CHAPELAIX SULL’ADONE
45
ment poétiques, n'a point de pareil, si ce n’est en quelques An-
ciens, et ne se verrà jamais surpassé que par soy-mesme.
Mais par ce que ce Stile est libre et diffus, et que quelques
Anciens mesmes ont trouvé des Jugemens qui l’ont blasmé en
eux comme une incontinence de piume, il sera bon de voir si le 5
sien, qui les suit, est sujet à mesme objection, et s’il en merite
ou blasme ou loiiange. C’est chose receuè pour maxime que tout
Stile doit estre conforme à son Suject, d’autant, ce dit-on, que
les paroles sont naturelles expressions de la Conception, et que la
Conception n’est autre chose que la pure image de la Chose mesme. 10
Or on recognoist de trois genres de Sujects, ausquels tous autres
se reduisent: l’un s’appelle Grave ou relevé, l’autre Humble ou
ravalé, et le troisiesme Mixte de l’un et de l’autre; lequel se nomine
Moyen, pource qu’il est petit au regard du grand ou de l’extraor-
dinaire, et grand au respect de l’ordinaire ou du petit. Sous le 15
Premier sont compris tous le faicts Heroi'ques, les revolutions
d’Estats, les ruines ou establissements de familles Illustres, les
courageuses entreprises, et choses semblables. Sous le Second,
les fourbes, les simplicitez, les amourettes, les querelles et les
reconciliations, qui surviennent dans la vie civile et pacifique, 20
entre gens de basse condition, sans que le bruit s’en espande au
loing, pour la vileté des personnes. Le Troisiesme regoit les Actions
meslées de tous ces accidens, attribuées à de particulieres Per¬
sonnes, grandes et Illustres pourtant, qui ne tirent point d’autre
consequence après soy que des plainctes et des larmes, sans guerre 25
et sans subversion d’Estat, ou au contraire. Mais comme ime
chose est alors moyenne qu’elle paroist tenir des deux extremitez
opposées, aussi le Suject se dira plus proprement moyen, lors
qu’il participera du Grave et du Ravalé; du Grave pour les Per¬
sonnes, du Ravalé pour les Passions ou evenemens ordinaires, 3°
ou bien du Grave pour l’evenement et pour les Passions extraor-
dinaires, et du Ravalé pour les Personnes ordinaires et pour les
circonstances. À ces trois manieres de Sujects donc les Maistres
de l’Eloquence anciennement ont cherché les Formes ou Caracteres
de Stile differens, pour les traitter convenablement selon leur 33
46
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
difference; et au premier ont assigné, s'il estoit simplement Tragi-
que, le Stile qu’ils ont nommé Grave simplement: s’il estoit He-
roique aussi, celuy de Grave et de Magnifique ensemble, c’est à
dire figure, vous voyez bien pourquoy. Au Second ils ont prescrit
5 un Stile comm un, trivial, estendu, coulant, propre et intelligible,
mais frippon et raillard. Au Troisiesme ils ont donné un Stile
Mediocre aussi, participant des deux autres, mais cornine adoucis
et temperez: du Grave et du Magnifique, aux lieux où le Suject
tient de l’Heroique et du Tragique, soit pour les personnes, soit
io pour les Actions; et du populaire ou commun en ceux és quels,
soit pour les unes soit pour les autres, il tient de l’ordinaire et du
Comique. Ces choses accordées, si l’on considere la Nature du
Suject de VA d o ni s , il n’y a point de doute qu’on ne le reco-
gnoisse du genre du Suject Moyen, et par consequent qu’on ne
15 juge qu’il doit estre traitté avec un Stile Mediocre. Or l’Idée de
ce Stile gist sur tout à exprimer les matieres clairement, mais
non bassement, inconvenient que porte ordinairement avec soy
ce Caractere de la Dilucidité (que nous interpreterions Clarté,
si nous commen5Ìons un jour à vouloir prendre cognoissance de
*0 cause en ce qui regarde le vrav sgavoir), et ce d’autant que pour
inettre les choses devant les yeux, il faut descendre aux particu-
laritez, et à la deduction des appartenances et dependances;
lesquelles d'ailleurs semblent ne se pouvoir expliquer sans bas-
sesse: Homere luy mesme le faisant y est encouru. Mais plus il
•25 v a de difficulté à rencontrer ce milieu qui exprime et qui ne
desgouste point, plus aussi y a-t-il de loiiange d’esprit à l’avoir
trouvé, et de jugement à l’avoir sgeu mettre en oeuvre, principale-
ment en un suject qui non seulement le souffre, mais le desire
pour sa perfection. Ce que si la Fable d ’A d 0 n i s fait particu-
30 lierement, jugés-le par ce que nous en avons dit cy-dessus. Si
donques nostre Amy l’a employé en cette occasion, g’a deu estre
plus par une judicieuse eslection que par une inclination forcée,
et il inerite d’en estre singulierement loiié, cornine estant le pre¬
mier des Modernes qui ayt franchy ce pas de la Description parti-
35 culiere (en quoy consiste l’Essence de la Poesie, je veux dire l’ener-
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
47
gie et l’Imitation), et cela encore sans avoir desmenty son Suject,
et sans s’estre laissé tomber en bassesse: ce que pour obtenir
voyez, je vous prie, quelle matiere il a esleu, et dans sa simplicité
combien elle est relevée; il n’y a celuy qui n’advoué que de toutes
les choses la plus vaste et la plus susceptible de visages dift'erens 5
ne soit la Passion humaine, unique pourtraict de la matiere pre¬
miere, et qu’entre toutes l’Amour et la Jalousie ne tiennent le
premier lieu : or pensés si ces parties sont dans VA d 0 n i s , et
de quelle sorte elles y sont. À dire le vray à peine trouvera-t-on
de Noeud d’intrigue, ny de Desveloppement de Fable merveil- io
leux qui vaille qu’on le mette en comparaison avec cette sirnple
maniere de Traitter, de la fa^on que nostre Chevalier l’a restablie
en son Poéme: dans lequel, soit pour les passions, soit pour les
Descriptions, cette Clarté Magnifique, c’est à dire (si je le peux)
cette Floridité ou Elegance de Stile, a esté gardée avec une telle 15
possession de ses pensées, une si grande observation de langue,
et un si particuliere esgard au nombre du vers, et à la conformi té
qu’il doit avoir avec son Suject, qu’on n’en peut desirer d’avantage:
ce que je trouve d’autant plus digne d’admiration que ces choses
sont les plus espineuses de la Poesie, et les dernieres à quoy l’on 20
parvient. Que si ce grand Critique du Siede precedent, Scaliger,
vivoit encore, je ne doute point qu’aprouvant cet ouvrage il ne
mist en consideration ce que nous avons faict icy, et que de la
mesme chose dont il a blasmé Lucain, le Suject duquel ne luy
permettoit pas de s’estendre, de la mesme il ne loiiast le Maria, 25
la matiere duquel vouloit qu’il la traittast ainsi: et ce qui me le
fait conjecturer est de voir qu’il n’a pas trouvée cela à redire
en Claudian, dont l’intemperance n’est pas moindre, ny en Ovide
(quoy qu’en ayt dit Quintilien), qui est estendu jusqu’à l’excez,
ayant sans doute esgard à ce que l’un vestoit une Fable sirnple, 30
qui avoit besoin de ces aydes externes pour la relever, et que
l’autre animoit et faisoit parler des Passions, qui sont des sources
inespuisables, dont on ne voit jamais la fin. Mais ayant dit que le
Stile de VA d o n i s en son genre estoit parfait, je crois bien que
vous entendez qu’il a toutes les Parties et conditions generales 35
4 8
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
d’un bon Stile: à s^avoir que la Xarration est tres-esgale, que les
comparaisons en sont claires par Nature, corame tirées de lieux
cognus, bref que pour les liaisons il n’y a que souhaitter; et qu’ainsi
la principale vertu de cette Idée gisant en l’excellence du Stile,
5 et cettui-cy estant excellent entre les excellens, au desespoir des
beaux esprits, vous voyez que le Poéme d ’Adonis à cause de
son Stile n’aura jamais de pareil en son espece. C’est pourquoy,
sans me d'avantage arrester sur cette derniere partie, et sans
parler ny de l'Allegorie comprise dans la Fable, corame chose
io assez esclaircie par le Poéte mesme, dans le discours qu’il fait
estat de faire aller devant chaque Chant, ny de la Concurrence
genereuse qu’il a prise avec les Anciens sur les principales de leurs
matieres, tant pour les manieres de dire, que pour les Concep-
tions et les Inventions particulieres mesmes, non tentées jusqu’icv
15 par autre que par luy, pour ne point courir indiscrettement sur
vos brisées, je finiray cette ennuyeuse enfilade en vous affermant,
cornine j’ay fait en commen9ant, que je tiens 1 ’Adonis, en
la forme qu’il me souvient l’avoir veu, pour bon Poème, tissu
dans sa Nouveauté selon les regles generales de l’Epopèe, et le
20 meilleur en son genre qui sortirà jamais en public.
Telle est donc l’Opinion que vous avez voulu avoir de moy
touchant l’Ouvrage de nostre Amy, pour laquelle appuyer d’avan-
tage j’eusse peu estendre plus au long ce que j’en ay dit en peu
de mots, et aurois encore tout plein de choses à dire si je parlois
25 à une personne moins entendué, ou moins affectionnée à l’hon-
neur du Chevalier Marin, c’est à dire à la Verité. Maintenant si
l’affection que vous luy portez vous faisoit trouver que je l’eusse
maigrement loiié icy, souvenés-vous que vous ne m’avés point
donné cette charge, et pensez que prenant la piume pour vous
30 contenter, mon intention n’a point esté de le couronner, mais
de vous faire voir succinctement que je sgavois pourquoy il meri-
toit la Couronne: il m’a semblé, estant simplement requis de mon
advis sur son Poème, que je satisfaisois à mon obligation vous
descouvrant en paroles nuès ce que j’en pensois, et les raisons
35 qui me faisoient prendre cette creance; et de l’humeur dont je
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL’ADONE
49
suis, vous vous estes deu attendre que je ne forcerois point raon
sentiment, pour luy rendre recompense de l’amitié qu’il luy plaist
me porter, et que s’il s’y fust rencontré la moindre chose dont
j’eusse mal jugé, vous la verriez icy notée en toute liberté: et
cela, comme je vous dis, d’autant que je n’ayme pas plus mes 5
amis que ma franchise, et que je ne sgay que c’est de leur grabeler
de l’honneur aux despens de la Yerité; la consideration de la-
quelle m’est si chere que ce qui me pourroit inquieter en cecy seroit
seulement non pas de l’avoir mal loiié (cela ne me met point en
peine), mais de ne vous pas avoir en presence, pour, si ce que j’ay io
dit d’aventure est suject à objection, entendre les oppositions
de vous mesme, et y respondre sur le champ en me deffendant,
ou bien, si les objections se trouvoient sans replique, afin d’abjurer
soudain mon erreur en vos mains, et de profiter de ma honte, en
aprenant ce que je n’aurois pas sgeu. Que si vous m’eussiez voulu 15
obliger à Paranympher et porter dans les Cieux le Chevalier
Marin comme il le merite, ou je vous eusse demandò plus de temps
pour m’y preparer, ou je vous eusse plustost prié de l'y eslever
vous mesme sur cette piume si admirée, qui, soit en prose, soit
en vers, soit en l’une ou en l'autre langue, n’en recognoit point 20
d’autre qui pointe plus haut qu’elle. Mais permettez-moy que je
vous die ma pensée: comme je n’ay pas suject de m’imaginer que
vous avez eu volonté de tirer cela de mov, aussi ne puis-je croire
mesme que vous avez attendu à vous resoudre en cette matiere,
que vous en eussiez eu mon advis; j’ay trop de cognoissance 25
de vos forces, et de mon peu de sgavoir, pour adjouster foy à
une chose, comme celle là, qui sans vous edifier en rien, iroit en-
tierement à la ruine de la retenué que mes amis ont jusqu’icy
seulement estimée en moy; et ne me puis persuader autrement,
sinon que vous ayez voulu esprouver si vostre authorité seroit 3°
bien assez puissante, pour me taire entrer en vanité, et m’induire
à penser de moy mesme que je fusse capable de porter jugement
là-dessus; aymant mieux vous taire importuner d'un fascheux-
entretien, que de ne pas sonder jusqu’au bout ma foiblesse; et
cela estant je n’aurois à opposer sur cette surprise que mon affec- 35
4
5«
DISCORSO DI CHAPELAIN SULL'ADONE
tion, et le voeu de complaisante obeyssance dont je me suis lié
envers vous; lequel me faisant fermer les yeux à toute autre consi¬
deratimi sur vostre premiere instance m’a porté à vous respondre
ce que j’ay fait pour ce qui touche VA donis , et m’oblige
encore à vous dire que vous devez poursuivre le beau dessein,
où vous estes, de travailler dessus; et pour vous tesmoigner plus
clairement que c’est ma creance que vous le devez, et qu’il y a
de l'honneur à gaigner pour vous, je vous avertis audacieusement
que si vous ne le faittes je m’efforceray d’en venir à bout, afin que
vous y preniez garde, pour vostre interest premierement, et en
second lieu pour delivrer nostre Chevalier de la juste crainte
qu’il auroit, si je l’avois entrepris, de sortir mal accoustré de mes
mains. Adieu.
L’ADONE
POEMA
DEL CAVALIER MARINO
Alla Maestà Cristianissima
di Lodovico il Decimoterzo
Re di Francia e di Navarra
con gli argomenti
del Conte Fortuniano Sanvitale
e l’allegorie
di don Lorenzo Scoto
LA FORTUNA
CANTO PRIMO
ALLEGORIA
Nella sferza di rose e di spine, con cui Venere batte il figlio,
si figura la qualità degli amorosi piaceri, non già mai discompa¬
gnati da' dolori. In Amore, che commove prima Apollo, poi
Vulcano, e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera
passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ Grandi.
In Adone, che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua
patria passa all’Isola di Cipro, si significa la gioventù, che sotto
il favore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la per¬
sona di Clizio s’intende il Signor Giovan Vincenzo Imperiali, gen¬
tiluomo genovese di belle lettere, che questo nome si ha appropriato
nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il Poema
dello Stato Rustico, dal medesimo leggiadramente com¬
posto.
ARGOMENTO
Passa in picciol legnetto a Cipro Adone
da le spiagge d'Arabia, ov’egli nacque.
Amor gli turba intorno i venti e Tacque,
Clizio Pastor l’accoglie in sua magione.
t. Io chiamo te, per cui si volge e move
la più benigna e mansueta sfera,
santa madre d’Amor, figlia di Giove,
bella Dea d’Amathunta, e di Cithera;
te, la cui stella, ond’ogni grazia piove,
de la notte e del giorno è messaggiera;
te, lo cui raggio lucido e fecondo
serena il Cielo, ed innamora il mondo.
2. Tu dar puoi sola altrui godere in terra
di pacifico stato ozio sereno.
Per te Giano placato il tempio serra,
addolcito il Furor tien l’ire a freno:
poi che lo Dio de Tarmi e de la guerra
spesso suol prigionier languirti in seno,
e con armi di gioia e di diletto
guerreggia in pace, ed è steccato il letto.
CANTO PRIMO
5
3. Dettami tu del Giovinetto amato
le venture e le glorie alte e superbe :
qual teco in prima visse, indi qual fato
l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe.
E tu m’insegna del tuo cor piagato
a dir le pene dolcemente acerbe,
e le dolci querele, e ’l dolce pianto:
e tu de’ Cigni tuoi m’impetra il canto.
4. Ma mentr’io tento pur, Diva cortese,
d’ordir testura ingiuriosa agli anni,
prendendo a dir del foco che t’accese
i pria sì grati, e poi sì gravi affanni;
Amor con grazie almen pari a l’offese
lievi mi presti a sì gran volo i vanni:
e con la face sua (s’io ne son degno)
dia quant'arsura al cor, luce a l’ingegno.
5. E te, Ch’Adone istesso, o gran Luigi,
di beltà vinci, e di splendore abbagli,
e seguendo ancor tenero i vestigi
del morto Genitor, quasi l’agguagli;
per cui suda Vulcano; a cui Parigi
convien che palme colga, e statue intagli ;
prego intanto m’ascolti: e sostien’ ch’io
intrecci il Giglio tuo col lauro mio.
6 . Se movo ad agguagliar l’alto concetto
la penna, che per sé tanto non sale,
facciol per ottener dal gran suggetto,
col favor che mi regge, ed aure, ed ale.
Privo di queste, il debile intelletto,
ch’ai Ciel degli onor tuoi volar non vale,
teme a l’ardor di sì lucente sfera
stemprar l’audace e temeraria cera.
LA FORTUNA
7. Ma quando quell’ardir, ch’or gli anni avanza,
sciogliendo al vento la paterna insegna,
per domar la superbia e la possanza
del Tiranno crudel che ’n Asia regna,
vinta col suo valor l’altrui speranza
fia che ’n su ’l fiore a maturar si vegna.
allor con spada al fianco e cetra al collo
l’un di noi sarà Marte, e l’altro Apollo.
8. Così la Dea del sempreverde alloro,
Parca immortai de’ nomi e degli stili,
a le fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili,
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili,
come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.
9. La Donna che dal Mar e il nome ha tolto,
dove nacque la Dea ch’adombro in carte:
quella, che ben a lei conforme molto
produsse un novo Amor d’un novo Marte:
quella, che tanta forza ha nel bel volto
quant’egli ebbe ne l’armi ardire ed arte,
forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
tenerezze d’Amor penna lasciva.
ro. Ombreggia il ver Parnaso, e non rivela
gli alti misteri ai semplici profani,
ma con scorza mentita asconde e cela
(quasi in rozo Silen) celesti arcani.
Però dal vel, che tesse or la mia tela
in molli versi, e favolosi, e vani,
questo senso verace altri raccoglia :
smoderato piacer termina in doglia.
CANTO PRIMO
5°
11. Amor pur dianzi, il fanciullin crudele.
Giove di nova fiamma acceso avea.
Arse di sdegno, e ’1 cor d’amaro fiele
sparsa, gelò la sua gelosa Dea,
e ’ncontro a lui con flebili querele
richiamossi del torto a Citherea:
onde il Garzon sovra l’etade astuto
da la materna man pianse battuto.
12. — Oimè, possibil fia — dicea Ciprigna
ch’io mai per te di pace ora non abbia ?
Qual Cerasta più livida e maligna
nutre del Nilo la deserta sabbia ?
qual Furia insana, o qual Arpia sanguigna
là negli antri di Stige ha tanta rabbia?
Dimmi, quel tosco, ond’ogni core appesti,
Aspe di Paradiso, onde traesti ?
13. Vuoi tu più mai contaminar di Giuno
le leggittime gioie e i casti amori ?
udrò di te mai più richiamo alcuno,
ministro di follie, fabro d’errori ?
sollecito avoltor, verme importuno,
morbo de’ sensi, ebrietà de’ cori,
di fraude nato e di furor nutrito,
omicida del senno, empio appetito ?
14. Ira mi vien di romperti que’ lacci
e quell’arco che fa piaghe sì grandi,
né so chi mi ritien, ch’or or non stracci
quante reti malvage ordisci e spandi,
che per sempre dal Ciel non ti discacci,
che ’n essilio perpetuo io non ti mandi
su i gioghi ircani, e tra le caspie selve,
Arcier villano, a saettar le belve.
LA FORTUNA
Che tu fra gli egri e languidi mortali,
di cui s’odono ognor gridi e lamenti,
semini colaggiù martìri e mali
convien, malgrado mio, ch’io mi contenti.
Ma soffrirò che ’n Ciel vibri i tuoi strali,
non perdonando a le beate genti ?
che sostengan per te strazii sì rei,
serpentello orgoglioso, anco gli Dei ?
Che più ? fin de le stelle il sommo Duce
questo malnato di sforzar si vanta:
e spesso a stato tale anco il riduce,
ch’or in mandra, or in nido, or mugghia, or canta.
Un pestifero mostro, orbo di luce,
avrà dunque fra noi baldanza tanta?
un, che la lingua ancor tinta ha di latte,
cotanto ardisce? — E ciò dicendo il batte.
Con flagello di rose insieme attorte,
ch’avea groppi di spine, ella il percosse,
e de’ bei membri, onde si dolse forte,
fe’ le vivaci porpore più rosse.
Tremaro i poli, e la stellata Corte
a quel fiero vagir tutta si mosse.
Mossesi il Ciel, che più d’Amor infante
teme il furor, che di Tifeo Gigante.
De la reggia materna il figlio uscito,
con quello sdegno allor se n’allontana
con cui soffiar per l’arenoso lito
calcata suol la Vipera Africana
o l’Orso cavernier, quando ferito
si scaglia fuor de la sassosa tana
e va fremendo per gli orror più cupi
de le valli Lucane, e de le rupi.
CANTO PRIMO
Gl
19. Sferzato, e pien di dispettosa doglia,
fuggì piangendo a la vicina sfera,
là dove cinto di purpurea spoglia
(gran Monarca de’ tempi) il Sole impera.
E ’n su l’entrar de la dorata soglia
stella nunzia del giorno e condottiera
Lucifero incontrò, che ’n Oriente
apria con chiave d’or l’uscio lucente.
20. E ’l Crepuscolo seco a poco a poco
uscito per la lucida contrada
sovra un corsier di tenebroso foco
spumante il fren d’ambrosia e di rugiada,
di fresco giglio e di vivace croco,
Forier del bel mattin, spargea la strada,
e con sferza di rose e di viole
affrettava il camino innanzi al Sole.
21. La bella Luce, che ’n su l’aurea porta
aspettava del Sol la prima uscita,
era di Citherea ministra e scorta,
d’amoroso splendor tutta crinita.
Per varcar l'ombre innanzi tempo sorta
già la biga rotante avea spedita,
e ’l venir de la Dea stava attendendo,
quando il fier pargoletto entrò piangendo.
22. Pianse al pianger d’Amor la mattutina
del Re de’ lumi ambasciadrice stella,
e di pioggia argentata e cristallina
rigò la faccia rugiadosa e bella,
onde di vive perle accolte in brina
potè l’urna colmar l’Alba novella:
l’Alba, che l’asciugò col vel vermiglio
l’umido raggio al lagrimoso ciglio.
LA FORTUNA
02
2j. Ricoverato al ricco albergo Amore,
trovò che, posto a’ corridori il morso,
già s’era accinto il Principe de l’ore
con la verga gemmata al novo corso;
e i focosi destrier sbuffando ardore
l’altere iube si scotean su ’l dorso:
e sdegnosi d’indugio, il pavimento
ferian co’ calci, e co’ nitriti il vento.
24. Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto,
che sempre il fin col suo principio annoda,
e ’n forma d’angue innanellato e torto
morde l’estremo a la volubil coda;
e qual Anteo, caduto, e poi risorto,
cerca nova materia ond’egli roda.
V’ha la serie de’ mesi, e i di lucenti,
i lunghi e 1 brevi, i fervidi e gli algenti.
25. L’aurea corona, onde scintilla il giorno,
del Tempo gli ponean le quattro figlie.
Due schiere avea d’alate ancelle intorno,
dodici brune, e dodici vermiglie.
Mentre accoppiavan queste al carro adorno
gli aurati gioghi e le rosate briglie,
gli occhi di foco il Sol rivolse, e ’l pianto
vide d’Amor, che gli languiva a canto.
2O. Era Apollo di Venere nemico,
e tenea l’odio ancor nel petto vivo,
da che lassù de l’adulterio antico
publicò lo spettacolo lascivo,
quando accusò del talamo impudico
al fabro adusto il predator furtivo,
e con vergogna invidiata in Cielo
ai suoi dolci legami aperse il velo.
CANTO PRIMO
6/5
27. Or che gli espone Amor sua grave salma,
— E che sciocchi dolor — dice — son questi ?
Se’ tu colui che litigar la palma
in riva di Peneo meco volesti ?
Tu tu mente del mondo, alma d’ogni alma,
vincitor de’ mortali e de’ celesti,
or con strale arrotato e face accesa
vendicar non ti sai di tanta offesa?
2 8. Quanto fora il miglior, sì come afflitto
di lagrime infantili il volto or bagni,
volgere il duolo in ira, e ’l dardo invitto
aguzzar ne l'ingiuria onde ti lagni?
Fa’ che con petto lacero e trafitto
per te pianga colei, per cui tu piagni;
ché (se vorrai) non senza gloria e nome
seguiranne l’effetto; ascolta come.
29. Là ne la regi'on ricca e felice
d’Arabia bella Adone il giovinetto
quasi competitor de la Fenice,
senza pari in beltà vive soletto.
Adon nato di lei, cui la nutrice
col proprio genitor giunse in un letto;
di lei, che volta in pianta, i suoi dolori
ancor distilla in lagrimosi odori.
30. Schernì la scelerata il Re mal saggio
accesa il cor di sozzo foco indegno,
ond’egli poi per cosi grave oltraggio,
quant’ella già d’amore, arse di sdegno;
e le convenne in loco ermo e selvaggio
girne ad esporre il malconcetto pegno:
pegno furtivo, a cui la propria madre
fu sorella in un punto, avolo il padre.
LA FORTUNA
64
31. Fattezze mai sì signorili e belle
non vide l’occhio mio lucido e chiaro.
Sventurato fanciullo, a cui le stelle
prima il rigor, che lo splendor mostraro!
Contro gli armò crude influenzie e felle
ancor da lui non vasto, il Cielo avaro:
poi che, mentre l’un sorse, e l’altra giacque,
al morir de la madre il figlio nacque.
3 2. Qual trofeo più famoso? e qual altronde
spoglia attendi più ricca, o più superba,
se per costui, ch’or prende a solcar Tonde,
il cor le ferirai di piaga acerba?
Dolci le piaghe fian, ma sì profonde,
ch’arte non vi varrà di pietra o d'erba.
Questa fia del tuo mal degna vendetta:
spirto di profezia così mi detta.
33. Più oltre io ti dirò. Mira là dove
a caratteri Egizzii in note oscure
intagliati vedrai per man di Giove
i vaticina de l’età future.
Havvi quante il Destino al mondo piove
da' canali del Ciel sorti e venture,
che de’ Pianeti al numero costrutte
sono in sette metalli incise tutte.
34. Quivi ciò che seguir deggia di questo
legger potrai, quasi in vergate carte.
Prole tal nascerà del bell’innesto,
che non ti pentirai d’avervi parte.
In lei, pur come gemme in bel contesto,
saran tutte del Ciel le grazie sparte;
e questa (oh per tai nozze a pien beato)
al Tiranno del mar promette il fato.
CANTO PRIMO
65
35. Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio
la memoria tra noi de’ gran contrasti,
ma tal premio n’avrai d’un dono mio
che ’n mercé di tant’opra io vo’ che basti.
Lira nel mio Parnaso aurea serb’io,
c’ha d’or le corde, e di rubino i tasti.
Fu d’Harmonia tua suora, e io di lei
con questa celebrai gli alti imenei.
36. Questa fia tua. Cosi qualor ti stai
di cure e d’armi alleggerito e scarco,
Musico com’Arcier, trattar potrai
il plettro a par di me non men che l’arco:
ché l’armonia non sol ristora assai
qualunque sia più faticoso incarco,
ma molto può co’ numeri sonori
ad eccitare ed incitar gli amori. —
37. Pur queste efficacissime parole
fòlli, ch’ai folle cor soffiaro orgoglio:
ond’irritato abbandonò del Sole
senza far motto il lampeggiante soglio;
e rumando da l’eterea mole
invèr le piagge del materno scoglio,
corse col tratto de le penne ardenti,
più che vento leggier, le vie de’ venti.
38. Come prodigiosa acuta stella,
armata il volto di scintille e lampi,
fende de l’aria, orribil sì, ma bella
passaggiera lucente, 1 larghi campi:
mira il nocchier da questa riva e quella
con qual purpureo piè la nebbia stampi,
e con qual penna d’or scriva e disegni
le morti ai Regi, e le cadute ai regni :
5
66
LA FORTUNA
39. così mentre ch’Amor dal Ciel disceso
scorrendo va la region più bassa,
con la face impugnata, e l’arco teso,
gran traccia di splendor dietro si lassa.
D’un solco ardente e d’auree fiamme acceso
riga intorno le nubi, ovunque passa,
e trae per lunga linea in ogni loco
striscia di luce, impression di foco.
40. Su ’l mar si cala, e sì condirà il punge,
se stesso aventa impetuoso a piombo.
Circonda i lidi quasi mergo, e lunge
fa de l’ali stridenti udire il rombo.
Né grifagno Falcon quando raggiunge
col fiero artiglio il semplice Colombo
fassi lieto così, com’ei diventa
quando il leggiadro Adon gli si presenta.
41. Era Adon ne l’età che la facella
sente d’Amor più vigorosa e viva,
ed avea dispostezza a la novella
acerbità degli anni intempestiva.
Né su le rose de la guancia bella
alcun germoglio ancor d’oro fioriva;
o se pur vi spuntava ombra di pelo,
era qual fiore in prato, o stella in cielo.
42. In bionde anella di fin or lucente
tutto si torce e si rincrespa il crine.
De l’ampia fronte in maestà ridente
sotto gli sorge il candido confine.
Un dolce minio, un dolce foco ardente
sparso tra vivo latte e vive brine
gli tinge il viso in quel rossor, che suole
prender la rosa in fra l’Aurora e ’l Sole.
CANTO PRIMO
67
43. Ma chi ritrar de l’un e l’altro ciglio
può le due stelle lucide serene ?
Chi de le dolci labra il bel vermiglio,
che di vivi tesor son ricche e piene?
O qual candor d’avorio, o qual di giglio
la gola pareggiar, ch’erge e sostiene,
quasi colonna adamantina, accolto
un Ciel di meraviglie in quel bel volto?
44. Qualor, feroce e faretrato Arciero,
di quadrella pungenti armato e carco
affronta, 0 segue, in un leggiadro e fiero,
o fere attende fuggitive al varco,
e in atto dolce Cacciator guerriero,
saettando la morte, incurva l’arco,
somiglia in tutto Amor: se non che solo
mancano a farlo tale il velo, e ’l volo.
45. Egli tanto tesoro in lui raccolto
di Natura e d’Amor par ch’abbia a vile,
e cerca del bel ciglio e del bel volto
turbar il Sole, inorridir l’Aprile.
Ma minacci cruccioso, o vada incolto,
esser però non sa, se non gentile;
e rustico quantunque, e sdegnosetto,
convien pur ch’altrui piaccia a suo dispetto.
46. Or mentre per l’Arabiche foreste,
dov’ei nacque e menò l’età primiera,
Torme seguia per quelle macchie e queste
d'alcuna vaga e timidetta fera,
errore il trasse, o pur destin celeste,
da la terra deserta a la costiera,
colà dove fa lido a la marina
del lembo ultimo suo la Palestina.
68
LA FORTUNA
47. Giunto a la sacra e gloriosa riva
che con boschi di palme illustra Idume,
dietro una cerva lieve e fuggitiva
stancando il piè, sì com’avea costume,
trovò di guardia e di governo priva,
ritratta in secco appo le salse spume,
da’ pescatori abbandonata, e carca
d’ogni arredo marin, picciola barca.
48. Ed ecco varia d’abito e di volto
strania Donna venir vede per Tonde,
c’ha su la fronte il biondo crine accolto
tutto in un globo, e quel ch’è calvo asconde.
Vermiglio e bianco il vestimento sciolto
con lieve tremolio l’aura confonde.
Lubrico è il lembo, e quasi un aèr vano,
che sempre a chi lo stringe esce di mano.
49. Ne l’ampio grembo ha de la Copia il corno,
e ne la destra una volubil palla.
Fugge ratto sovente, e fa ritorno
per le liquide vie scherzando a galla.
Alato ha il piede, e più leggiera intorno
che foglia al vento, si raggira e balla;
e mentre move al ballo il piè veloce,
in sì fatto cantar scioglie la voce :
50. — Chi cerca in terra divenir beato,
goder tesori, e possedere imperi,
stenda la destra in questo crine aurato,
ma non indugi a cogliere i piaceri ;
ché se si muta poi stagione e stato,
perduto ben di racquistar non speri.
Così cangia tenor l’Orbe rotante,
ne l’incostanza sua sempre costante. -
CANTO PRIMO
69
51. Così cantava, indi arrestando il canto,
con lieto sguardo al bel Garzone arrise,
ed a lo scoglio avicinata intanto
spalmò quel legno, e ’n su '1 timon s’assise.
— Adon, seguimi — disse — e vedrai quanto
cortese stella al nascer tuo promise.
Prendi la treccia d’or, che ’n man ti porgo,
né temer di venirne ov’io ti scòrgo.
52. Ben che vulgare opinione antica
mi stimi un Idol falso, un’ombra vana,
e cieca, e stolta, e di virtù nemica
in’appelli, instabil sempre, e sempre insana;
e Tiranna impotente altri mi dica,
vinta talor da la Prudenza umana:
pur son Fata, e son Diva, e son Reina,
m’ubbidisce Natura, il Ciel m’inchina.
53. Chiunque Amore o Marte a seguir prende,
convien che ’l nome mio celebri e chiami.
Chi solca l’acqua e chi la terra fende,
o s’alcun v’ha ch’onore e gloria brami,
porge preghi al mio Nume, e voti appende,
e io dispenso altrui scettri e reami.
Toglier posso e donar tutto ad un cenno,
e quanto è sotto il Sol reggo a mio senno.
54. Me dunque adora, e ’n su l’eccelsa cima
de la mia rota ascenderai di corto.
Per me nel trono, onde ti trasse in prima
Tempio inganno materno, or sarai scòrto;
sol che poi dove il fato or ti sublima
sappi nel conservarti essere accorto:
ché spesso suol con preveder periglio
romper fortuna rea cauto consiglio. —
yo
LA FORTUNA
55. Tace ciò detto, ed egli vago allora
di costeggiar quel dilettoso loco,
entra nel legno, e de l’angusta prora
i duo remi a trattar prende per gioco.
Ed ecco al sospirar d’agevol óra
s’allontana l’arena a poco a poco,
si che mentr’ei dal mar si volge ad essa,
par che navighi ancor la terra istessa.
56. Scorrendo va piacevolmente il lido,
mentr’è placido e piano il molle argento,
e da principio del suo patrio nido
rade la riva a passo tardo e lento.
Indi a l’instabil fé del flutto infido
se stesso crede, e si commette al vento
lunge di là, dov’a morir va l’onda,
e con roco latrar morde la sponda.
57. Trasparean sì le belle spiagge ondose
che si potean de Tumide spelonche
ne le profonde viscere arenose
ad una ad una annoverar le conche.
Zefiri destri al volo, aure vezzose
Tali scotean, ma tosto lor fur tronche,
il mar cangiossi, il Ciel ruppe la fede.
Oh malcauto colui ch’ai venti crede!
58. Oh stolto quanto industre, oh troppo audace
fabro primier del temerario legno,
ch’osasti la tranquilla antica pace
romper del crudo e procelloso regno!
Più ch'aspro scoglio, e più che mar vorace
rigido avesti il cor, fiero l’ingegno,
quando sprezzando l’impeto marino
gisti a sfidar la morte in fragil pino.
CANTO PRIMO
59. Per far una leggiadra sua vendetta
Amor fu solo autor di sì gran moto.
Amor fu, ch’a pugnar con tanta fretta
trasse turbini e nembi, Africo e Noto.
Ma de la stanca e misera barchetta
fu sempr’egli il Poppiero, egli il Piloto.
Fece vela del vel, vento con l’ali,
e fur l’arco timon, remi gli strali.
60. Da la madre fuggendo iva il figliuolo
quasi bandito e contumace intorno,
perché (com’io dicea) vinto dal duolo
di fanciullesca stizza arse, e di scorno.
Né per che poscia il richiamasse, il volo
fermar volse già mai, né far ritorno;
e ’n tal dispetto, in tant’orgoglio salse,
che di vezzo o pregar nulla gli calse.
61. Per gli spazii sen già de l’aria molle
scioccheggiando con l’aure Amor volante,
e dettava talor rabbioso e folle
tragiche rime a più d’un mesto amante.
Talor lungo un ruscello o sovra un colle
piegava l’ali, e raccogliea le piante,
e dovunque ne giva il superbetto,
rubava un core, o trapassava un petto.
62. — Non è questo lo strai possente e fiero
ch’ai Rettor de le stelle il fianco offese?
per cui più volte dal celeste impero,
l’aureo scettro deposto, in terra scese?
quel ch'ai quinto del Ciel Nume guerriero
spezzò passò Tadamantino arnese ?
quel che punse in Thessaglia il biondo Dio,
superbo sprezzator del valor mio?
7 2
LA FORTUNA
63. Questa la face è pur, cui sola adora
(non che la terra e ’l Ciel) Stige e Cocito;
che strugger fe’, che fe’ languir talora
il Signor de le fiamme incenerito.
Quella, da cui non si difese ancora
di Theti il freddo ed umido marito;
che tra’ gelidi umori infiamma i fonti,
tra l’ombre i boschi, e tra le nevi i monti!
64. Ed or costei, da cui con biasmo eterno
mill’onte gravi io mi soffersi, e tacqui,
perché dee le mie forze aver a scherno,
se ben dal ventre suo concetto io nacqui ?
Dunque andrà da que’ lacci il cor materno
libero, a cui (non ch’altri) anch’io soggiacqui?
Arse per Marte, è ver; ma questo è poco,
lieve piaga fu quella, e debil foco.
65. Altro ardor più penace, altra ferita
vo’ che più forte al cor senta pur anco.
Sì vedrà, ch’ella istessa ha partorita
la Vipera crudel che l’apre il fianco!
Degg’io sempre onorar chi più m’irrita ?
Forse per tema il mio valor vien manco ?
No no, segua che può. — Così dicea
l’implacabil fìgliuol di Citherea.
66. Mentre che quinci e quindi or basso, or alto
vola e rivola il predator fellone,
come prima lontan dal verde smalto
vede in picciol legnetto il vago Adone,
subitamente al disegnato assalto
l’armi apparecchia, e l’animo dispone;
e tutto inteso a tribular la madre,
vassene in Lenno a la magion del padre.
CANTO PRIMO
73
67. Ne la fuliginosa atra fucina,
dove il zoppo Yulcan suo genitore
de’ Numi eterni i vari arnesi affina
tinto di fumo e molle di sudore,
entra per fabricar tempra divina
d’un aureo strale, imperioso Amore;
strai ch’efìicace, e penetrante, e forte
possa un petto immortai ferire a morte.
68. Libero l’uscio al cieco Arciero aperse
la gran ferriera del divino Artista,
parte di già polite opre diverse
parte imperfette ancor, confusa e mista.
Colà fan l’armi lampeggianti e terse
del celeste Guerrier superba vista.
Qui la folgor fiammeggia alata e rossa
del gran fulminator d’Olimpo e d’Ossa.
69. V’è di Pallade ancor lo scudo e l’asta,
il rastello di Cerere e ’l bidente,
l’acuto spiedo di Diana casta,
la grossa mazza d'Hercole possente,
la falce onde Saturno il tutto guasta,
l’arco ond’Apollo uccise il fìer Serpente,
di Nettuno il trafiero, e di Plutone
con due punte d’acciaio havvi il forcone.
70. Le trombe v’ha, con cui volando suona
la Fama, e gli altrui fatti or biasma, or loda.
V’ha i ceppi, tra’ cui ferri Eolo imprigiona
i vènti insani, e le tempeste inchioda.
V’ha le catene, onde talor Bellona
il Furor lega e la Discordia annoda.
E v’ha le chiavi, ond’a dar pace o guerra
Giano il gran tempio suo serra e disserra.
74
LA FORTUNA
71. Presso al focon di mille ordigni onusto
travaglia il nero fabro entro la grotta.
Più d’un callo ha la man forte e robusto,
a le fatiche essercitata e dotta.
Ruginosa la fronte, il volto adusto,
crespa la pelle ed abbronzata e cotta,
sparso il grembial di mill'avanzi e mille
di limature e ceneri e faville.
72. Quand’egli scorge il nudo pargoletto,
la forbice e ’1 martel lascia e sospende,
e curvo e chino entro il lanoso petto
con un riso villan da terra il prende.
Tra le ruvide braccia avinto e stretto
l’ispido labro per baciarlo stende,
e la sudicia barba ed incomposta
al molle viso e dilicato accosta.
73. Ma mentre ch’egli l’accarezza e stringe,
raccolto in braccio con paterno zelo,
Amor, perché baciando il punge, e tinge,
la faccia arretra da l’irsuto pelo,
e con quel sozzo lin, che ’l sen gli cinge,
per non macchiarsi di carbone il velo,
a l’aspra guancia d’una in altra ruga
de l’immondo sudor le stille asciuga.
74. — Padre, da la tua man — poscia gli dice
voglio or or sovrafìna una saetta,
che fìa de’ torti tuoi vendicatrice:
lascia la cura a me de la vendetta.
Il come appalesar né vo’, né lice:
basti sol tanto, spàcciati, c’ho fretta.
Non porta indugio il caso, altro or non puoi
da me saper, l’intenderai ben poi.
CANTO PRIMO
75
75. Il quadrel ch’io ti cheggio, esser conviene
di perfetto artificio, e ben condotto,
ch’esserne fin ne le più interne vene
deve un petto divin forato e rotto.
S’usò mai sforzo ad impiegarsi bene
il tuo braccio, il tuo senno esperto e dotto,
fa’ (prego) in cosa ov'hai tanto interesse,
del gran saper le meraviglie espresse.
76. Starò qui teco a ministrarti intento
sotto la rocca del camin che fuma.
Acciò che ’l foco non rimanga spento,
mantice ti farò de l’aurea piuma.
E s’egli averrà pur che manchi il vento
al fòlle che l’accende e che l’alluma,
prometto accumular tra questi ardori
in un soffio i sospir di mille cori. —
77. Xon pon Vulcano in quell’affar dimora
ma sceglie la miglior fra cento zolle,
e pria che ’n su l’incudine sonora
ei la castighi, al focolar la bolle;
e non la batte, e non la tratta ancora
fin che ben non rosseggia, e non vien molle.
Divenuta poi tenera e vermiglia,
con la morsa tenace ei la ripiglia.
78. Amor presente ed assistente a l’opra
come l’abbia a temprar, come l’aguzzi
gli mostra, acciò che poi quando l’adopra
non si rompa, o si pieghi, o si rintuzzi;
e di sua propria man vi sparge sopra
de l’umor d’un’ampolla alquanti spruzzi,
piena di stille di dogliosi pianti
di sfortunati e desperati amanti.
7 6
LA FORTUNA
79. Mentr’è caldo il metallo, i tre fratelli
ch'un sol occhio hanno in fronte, e son Giganti,
con vicende di tuoni i gran martelli
movono a grandinar botte pesanti ;
e ’l dotto mastro al martellar di quelli,
che fan tremar le volte arse e fumanti,
per dar effetto a quel c’ha nel disegno
pon gli stromenti in opera, e l'ingegno.
80. Tosto che ’l ferro è raffreddato, in prima
sbozza il suo lavorio rozo ed informe,
poi sotto più sottil minuta lima
con industria maggior gli dà le forme.
L’arrota intorno, e lo forbisce in cima,
applicando al pensier studio conforme.
Col foco alfin l'indora, e col mordente,
e fa l’acciaio e l'or terso e lucente.
81. Poi che l’egregio artefice a lo strale
per tutto il liscio e ’l lustro ha dato a pieno,
n’arma il fanciullo un’asticciuola frale
ma che trafìge ogni più duro seno.
Gl’impenna il calce di due picciol’ale,
e ’l tinge di dolcissimo veleno:
e tutto pien d’una superbia stolta
pon la caverna e i lavoranti in volta.
82. Va de la Dea che generaro i flutti
il baldanzoso e temerario figlio
spiando intorno, e i ferramenti tutti
de la scola fabril mette in scompiglio.
Or de’ Ciclopi mostruosi e brutti
la difforme pupilla e ’l vasto ciglio,
or il corto tallon del piè paterno
prende con risi e con disprezzi a scherno.
CANTO PRIMO
77
83. Yeggendo alternamente arsicci e neri
pestar ferro con ferro i tre gran mostri,
-— Troppo son — dice — deboli e leggieri
a librar le percosse i polsi vostri!
Ornai con colpi assai più forti e fieri
questa mano a ferir v’insegni e mostri.
Impari ognun da la mia man che spezza
qualunque di diamante aspra durezza.
84. Vólto a colui c’ha fabricato il telo,
soggiunge poscia: — In questa tua fornace
le fiamme son più gelide che gelo,
altro ardor più cocente ha la mia face! —
Tolto indi in mano il fulmine del Cielo,
e sciolto il freno a l’insolenza audace,
in cotal guisa, mentre il vibra e move,
prende le forze a beffeggiar di Giove:
85. —- Deh quanto, o Tonator, che da le stelle
fai sdegnoso scoppiar le nubi orrende,
più de la tua, ch’a spaventar Babelle
dal Ciel con fiero strepito discende,
atta sola a domar genti rubelle
senza romor la mia saetta offende!
Tu de’ monti, io de’ cori abbiam le palme:
Cuna fulmina i corpi, e l'altra l’alme.
86. Depon l’arme tonante, e ricercando
di qua di là l’affumigato albergo,
trova di Marte il minaccioso brando,
il fin brocchier, l’avantaggiato usbergo.
— Or la prova vedrem — dice scherzando —
s’a difender son buoni il fianco e ’l tergo! —
Lo strale in questa uscir da l’arco lassa:
falsa lo scudo, e la lorica passa.
LA FORTUNA
?»
87. Di sì fatte follie sorridea seco
lo Dio distorto, che ’1 mirava intanto.
— Tu ridi — disse il faretrato cieco —
né sai che l’altrui riso io cangio in pianto!
E più che la fumea di questo speco
farti d’angoscia lagrimar mi vanto. —
Ciò detto al gran Nettun vola leggiero,
che nel mondo de Tacque ha sommo impero.
88. Velocemente a Tenaro sen viene,
e Taria scossa al suo volar fiammeggia.
Abitator de le più basse arene
quivi ha Nettun la cristallina reggia,
che da l’umor, di cui le sponde ha piene,
battuta sempre e flagellata ondeggia.
Rende dagli antri cavi Eco profonda
rauco muggito a lo sferzar de Tonda.
89. A l’arrivo d’Amor da’ cupi fonti
sgorga, e crespo di spuma il mar s’imbianca.
Quinci e quindi gli estremi in duo gran monti
sospende, e in mezo si divide e manca :
e scoverti del fondo asciutti i ponti,
del gran Palagio i cardini spalanca.
Passa ei nel regno ove la madre nacque,
patria de’ pesci, e regio n de Tacque.
90. Passa e sen va tra l’una e l’altra roccia
quasi per stretta e discoscesa valle.
L’onda noi bagna, e ’l mar, non che gli noccia,
ritira indietro il piè, volge le spalle.
Filano acuto gelo a goccia a goccia
ambe le rupi del profondo calle,
e tra questo e quell’argine pendente
a pena ei scorger può Taria lucente.
CANTO PRIMO
79
91. Né già, mentre varcava i calli ondosi,
la faretra o la face in ozio tenne,
ma con acuti stimuli amorosi
faville e piaghe a seminar vi venne;
e là dove de l’acqua augei squamosi
spiegano i pesci l’argentate penne,
tra gl’infiniti esserciti guizzanti
sparse mill’esche di sospiri e pianti.
92. Strana di quella casa è la struttura,
strano il lavoro, e strano è l’ornamento.
Ha di ruvide pomici le mura
e di tenere spugne il pavimento.
Di lubrico zaffiro è la scultura
de la scala maggior, l’uscio è d’argento,
variato di pietre e di cocchiglie
azurre e verdi e candide e vermiglie.
93. Ne l’antro istesso è la magion di Theti,
e gran famiglia di Nereidi ha seco,
che ’n vari uffici ed essercizii lieti
occupate si stan nel cavo speco.
Queste con passi incogniti e secreti
e per sentier caliginoso e cieco
van de l’arida terra irrigatrici
a nutrir piante e fiori, erbe e radici.
94. Intorno e dentro a l’umida spelonca
chi danzando di lor le piante vibra,
chi sceglie o gemma in sabbia o perla in conca,
chi fila l’oro, e chi l’affina e cribra;
qual de’ germi purpurei i rami tronca,
qual degli ostri sanguigni i pesi libra;
e sotto il piè d’Amor v’ha molte Ninfe,
che van di musco ad infiorar le linfe.
So
LA FORTUNA
95. Belle son tutte sì, ma differenti:
altra ceruleo, ed altra ha verde il crine,
altra l’accoglie, altra lo scioglie ai venti,
altra intrecciando il va d’alghe marine;
e di manti diafani e lucenti
velan le membra pure e cristalline.
Simili al viso, ed agili e leggiadre
mostran che figlie son d’un stesso padre.
96. Pasce Protheo Pastor mandra di Foche,
Orche, Pistri, Balene ed altri mostri,
de le cui voci mormoranti e roche
fremon per tutto i cavernosi chiostri ;
e le guarda, e le conta, e non son poche,
e scagliose han le terga e curvi i rostri.
Glauchi ha gli occhi lo Dio, cilestro il volto,
e di teneri giunchi il crine involto.
97. Giunto a la vasta e spaziosa Corte
stupisce Amor da tuttiquanti i lati,
poi che per cento vie, per cento porte
cento vi scorge entrar fiumi onorati,
che quindi poi con piante oblique e torte
tornan per invisibili meati
fuor del gran sen, che gli concepe e serra,
con chiare vene ad innaffiar la terra.
98. Vede l’Eufrate divisor del mondo,
che i bei cristalli suoi rompendo piange.
Vede l’originai fonte profondo
del Nil, che ’l mar con sette bocche frange.
fi vede in letto rilucente e biondo
del più fino metal corcarsi il Gange:
il Gange, onde trae l’or, di cui si suole
vestir quand’esce in su ’l mattino il Sole.
CANTO PRIMO
8l
99. Vede pallido il Tago in su la riva
non men ricchi sputar vomiti d’oro :
e trar groppi di gel ne l’onda viva
il Rheno, e l’Istro, e ’l Rhodano sonoro.
Di salce il Mincio, l’Adige d'oliva,
l’Arno al par del Peneo cinto d’alloro,
di pampini il Meandro, e d’edre l’Hebro,
e d’auree palme incoronato il Tebro.
100. Vede di verdi pioppe ombrar le corna
l'Eridano superbo e trionfale,
ch’ove il Rettor del pelago soggiorna
vien da l’Alpi a votar l’urna reale;
e mercé de’ suoi Duci, il ciglio adorna
di splendor glorioso ed immortale:
onde quel ch’è nel Ciel, di lume agguaglia,
e con fronte di Luna il Sole abbaglia.
101. Poi di grido minor ne vede molti
che con rami divisi in varie parti
per l’Italia felice errano sciolti
del gran padre Appennin concetti e parti.
E quai di canna e quai di mirto avolti
le tempie, e quai di rosa ornati e sparti,
somministran con Tacque in lunga schiera
sempiterno alimento a Primavera.
102. Tra questi umil fìgliuol del bel Tirreno
il mio Sebeto ancor Tacque confonde:
picciolo si, ma di delizie pieno,
quanto ricco d’onor, povero d’onde.
— Giriti intorno il Ciel sempre sereno,
né sfiori aspra stagion le belle sponde,
né mai la luce del tuo vivo argento
turbi con sozzo piè fetido armento.
6
82
LA FORTUNA
103. Giacque in te la Sirena, e per te poi
sorger Virtute e fiorir Gloria io veggio.
Trono di Giove, e di pregiati Eroi
felice albergo e fortunato seggio.
Dolce mio porto, agli abitanti tuoi,
ne’ cui petti ho il mio nido, eterno io deggio.
Padre di Cigni, e lor ricovro eletto,
e de’ fratelli miei fido ricetto. —
104. Con questi encomii affettuosi Amore
del patrio fiume mio le lodi spande,
che ’l riconosce al limpido splendore,
che fra mill’altri è segnalato e grande,
e de’ cedri fioriti al grato odore,
di cui s’intesse al crin verdi ghirlande.
Intanto ne la gelida caverna,
dove siede Nettuno, i passi interna.
103. Seggio di terso orientai cristallo
preme de’ flutti il Regnator canuto,
che da colonne d’oro e di corallo
con basi di diamante è sostenuto.
E chi d’una Testudine a cavallo,
chi d’un Delfin, chi d'un Vitel cornuto,
cento altri Dei minor, Numi vulgari,
cedono a lui la monarchia de’ mari.
106. — Non pensar che per ira — Amor gli disse
Gran Padre de le cose, a te ne vegna;
ché non può Dio di pace amar le risse,
e nel petto d’Amore odio non regna.
Ma perché novamente il Ciel prefisse
impresa a l’arco mio nobile e degna,
per render l’opra agevole e spedita
di cortese favor ti cheggio aita.
CANTO PRIMO
83
107. Tu vedi là, dove di Siria siede
la spiaggia estrema, che col mar confina,
vago fanciul del mio bel regno erede
col remo essercitar l’onda marina.
Questo, che di bellezza ogni altro eccede,
a la mia bella madre il Ciel destina,
onde frutto uscir dee di beltà tanta
che fia simile in tutto a la sua pianta.
108. Se deriva da te l’origin mia,
s’a chi mi generò désti la cuna,
se ’l tuo desir, quando d’Amor languia,
ottenne unqua da me dolcezza alcuna,
acciò ch'io possa per più facil via
condurlo a posseder tanta fortuna,
mercé di quanto feci o a far mi resta
siami nel regno tuo breve tempesta.
iog. Di questa immensa tua liquida slera
turbar la bella e placida quiete
piacciati tanto sol, ch’innanzi sera
venga Adone a cader ne la mia rete.
E fia tutto a suo prò, perché non pera
sì ricca merce in malsecuro abete,
il cui navigio con incerta legge
più ’l timor che ’l timon governa e regge.
no. Sai che quando Ciprigna in novi amori
occupata non è, com’ha per uso,
usurpando a Minerva i suoi lavori
non sa se non trattar la spola o ’l fuso:
onde inutil letargo opprime i cori,
torpe spento il mio foco, il dardo ottuso,
manca il seme a la vita, ed infecondo
a rischio va di spopolarsi il mondo.
s 4
LA FORTUNA
in. Oltre queste cagion, per cui devrei
impetrar qualch’effetto a le mie voci,
dee l’util proprio almeno a’ preghi miei
far più le voglie tue pronte e veloci.
Ha questi felicissimi imenei
corteggiata da mille e mille Proci
l’eroe uscirà, che più d’ogni altra bella
fia de le Grazie l’ultima sorella.
112. Costei, sì come mi mostraro in Cielo
l'adamantine tavole immortali,
dove nel cerchio del Signor di Deio
Giove scolpì gli oracoli fatali,
concede al Re del liquefatto gelo
l'alto tenor di quegli eterni annali,
perché venga a scaldar col dolce lume
del freddo letto tuo Tumide piume.
113. Ma quando ancor da quel ch’ivi scolpio
chi move il tutto, il fato altro volgesse,
se ben di Thebe il giovinetto Dio
ha tuo rivai ne le bellezze istesse,
a dispetto del Ciel tei promett’io,
scritte in diamante sien le mie promesse.
Io, che Giove o destin punto non curo,
per Tacque sacre, e per me stesso il giuro. —
114. Così parlava, e ’l Re de Tonde intanto
a lui si vòlse con tranquilla faccia.
— O domatore indomito di quanto
il Ciel circonda e l’Oceano abbraccia,
a chi può dar altrui letizia e pianto
ragion è ben, ch’a pieno or si compiaccia.
Spendi comunque vuoi quanto poss’io,
pende dal cenno tuo l’arbitrio mio.
CANTO PRIMO
«5
115. E qual onda fia mai, ch’a tuo talento
qui non si renda o torbida o tranquilla,
s’ardon nel molle e mobile elemento
per Cimothoe Triton, Glauco per Scilla?
Come fia tardo ad ubbidirti il vento,
se ’l Re de’ venti ancor per te sfavilla ?
e ricettan l’ardor ne’ freddi cori
Borea d’Orithia, e Zefiro di Clori ?
116. Tu virtù somma de’ superni giri,
dispensier de le gioie e de’ piaceri,
imperador de’ nobili desiri,
illustrator de’ torbidi pensieri,
dolce requie de’ pianti e de’ sospiri,
dolce union de’ cori e de’ voleri,
da cui Natura trae gli ordini suoi,
Dio de le meraviglie, e che non puoi ?
117. Sì come tanti qui fiumi che vedi
del mio reame tributarii sono,
così. Signor, che Vanirne possiedi,
tributario son io del tuo gran trono.
Ond’a quant’oggi brami, e quanto chiedi
ila questo scettro a te devoto in dono,
o gioia, o vita universal del mondo,
altro che l’esseguir più non rispondo. —
118. Così dice Nettuno, e così detto
crolla l’asta trisulca, e ’l mar scoscende.
D’Alpi spumose oltre il ceruleo letto
cumulo vasto invèr le stelle ascende.
Urtansi i venti in minaccioso aspetto,
de le concave nubi anime orrende;
e par che rotto, o distemprato in gelo
voglia nel mar precipitare il cielo.
86
LA FORTUNA
119. Borea d’aspra tenzon tromba guerriera
sfida il turbo a battaglia, e la procella.
Curva l’arco dipinto Iride arciera,
e scocca lampi in vece di quadrella.
Vibra la spada sanguinosa e fiera
il superbo Orion, torbida stella,
e ’l Ciel minaccia, ed a le nubi piene
d’acqua insieme, e di foco, apre le vene.
120. Fuor del confin prescritto in alto poggia
tumido il mar di gran superbia, e cresce.
Riiinosa nel mar scende la pioggia,
il mar col cielo, il ciel col mar si mesce.
In novo stile, in disusata foggia
l’augello il nuoto impara, il volo il pesce.
Oppongosi elementi ad elementi,
nubi a nubi, acque ad acque, e venti a venti.
121. Potè, tant’alto quasi il flutto sorse,
la sua sete ammorzar la Cagna estiva;
e di nova tempesta a rischio corse,
non ben secura in Ciel, la nave Argiva.
E voi fuor d’ogni legge, o gelid’Orse,
malgrado ancor de la gelosa Diva,
nel mar vietato i luminosi velli
lavaste pur de le stellate pelli.
122. Deh che farai dal patrio suol lontano
misero Adone, a navigar mal atto?
Vaghezza piieril tanto pian piano
il malguidato palischelmo ha tratto,
che la terra natia sospiri invano
dal gran rischio confuso e sovrafatto.
Tardi ti penti, e sbigottito e smorto
ornai cominci a desperar del porto.
CANTO PRIMO
8?
123. Già già convien che ’1 timido Nocchiero
a l’arbitrio del caso s’abbandoni.
Fremono per lo ciel torbido e nero
fra baleni ondeggianti i rauchi tuoni.
E tuona anch’egli il Re de Tacque altero,
ch’a suon d’Austri soffianti e d’Aquiloni
col fulmine dentato (emulo a Giove)
tormentando la terra, il mar commove.
124. Corre la navicella, e ratta e lieve
la corrente del mar seco la porta.
Piega Torlo talvolta, e Tonda beve,
assai vicina a rimanerne absorta.
Più pallido e più gelido che neve
volgesi Adon, né scorge più la scorta:
e di morte sì vasta il fiero aspetto
confonde gli occhi suoi, spaventa il petto.
125. Ma mentre privo di terreno aiuto
l'agitato battei vacilla ed erra,
ambo i fianchi sdruscito, e combattuto
da quell’ondosa e tempestosa guerra,
quando il fanciul più si tenea perduto,
ecco rapidamente approda in terra,
e tra giunchi palustri in su l’arena
vomitato da Tacque, il corso affrena.
126. Oltre l’Egeo, là donde spunta in prima
il pianeta maggior, che ’l dì rimena,
sotto benigno e temperato clima
stende le falde un’Isoletta amena.
Quindi il superbo Tauro erge la cima,
quinci il famoso Nil fende l’arena.
Ha Rhodo incontro, e di Soria vicini
e di Cilicia i fertili confini.
88
LA FORTUNA
127. Questa è la terra ch’a la Dea che nacque
da Tonde con miracolo novello,
tanto fu cara un tempo, e tanto piacque,
che disprezzato il suo divino ostello,
qui sovente godea fra l’ombre e Tacque
con invidia de l’altro un Ciel più bello;
e v’ebbe eretto a l’immortale essempio
fle la sua diva imago altare e tempio.
128. Scende quivi il Garzon salvo a l’asciutto,
ma pur dubbioso, e di suo stato incerto,
ch’ancor gli par de l’orgoglioso flutto
veder l’Abisso orribilmente aperto.
Yolgesi intorno, e scorge esser per tutto
circondato dal mar bosco e deserto.
Ma quella solitudine che vede,
gioconda è si, ch’altro piacer non chiede.
129. Quivi si spiega in un sereno eterno
l’aria in ogni stagion tepida e pura,
cui nel più fosco e più cruccioso verno
pioggia non turba mai, né turbo oscura;
ma prendendo di par l’ingiurie a scherno
del gelo estremo, e de l’estrema arsura,
lieto vi ride, né mai varia stile,
un sempreverde e giovinetto Aprile.
130. I discordi animali in pace accoppia
Amor, né l’un da l’altro offeso geme.
Va con l’Aquila il Cigno in una coppia,
va col Falcon la Tortorella insieme.
Né de la Volpe insidiosa e doppia
il semplicetto Pollo inganno teme.
Fede a l’amica Agnella il lupo osserva,
e secura col Veltro erra la Cerva.
CANTO PRIMO
89
131. Da’ molli campi, i cui bennati fiori
nutre di puro umor vena vivace,
dolce confus'ion di mille odori
sparge e ’nvola volando aura predace:
aura, che non pur là con lievi errori
suol tra’ rami scherzar, spirto fugace,
ma per gran tratto d’acque anco da Junge
peregrinando i naviganti aggiunge.
132. Va oltre Adone, e Filomena e Progne
garrir ode per tutto, ovunque vanne,
c di stridule pive e rauche brogne
sonar foreste e risonar cappanne,
di villane sordine e di sampogne,
di boscherecci zuffoli e di canne,
e con alterno suon da tutti i lati
doppiar muggiti, e replicar baiati.
133. Solitario garzon posarsi stanco
vede a l’ombra d’un lauro in roza pietra.
Ha l’arco a piedi, e gli attraversa il fianco
d’un bel cuoio linceo strania faretra.
Veste pur di Cerviero a negro e bianco
macchiata spoglia, e tiene in man la cetra.
Dolce con questa al mugolar de’ tori
accorda il suon de’ suoi selvaggi amori.
134. Di dorato coturno ha il piè vestito,
eburneo corno a verde fascia appende.
Ride il labro vivace e colorito,
sereno lampo il placid’occhio accende.
Ha fiorita la guancia, il crin fiorito,
e fiorita è l’età che bello il rende.
Tutto insomma di fiori è sparso e pieno,
fior la man, fior la chioma, e fiori il seno.
go
LA FORTUNA
135. Formidabil mastin dal destro lato
in un groppo giacer presso gli scorse,
che con rabbioso ed orrido latrato
quando il vide apparir, contro gli corse.
Ma posto il plettro in su l'erboso prato
il cortese Yillan sùbito sorse,
e Tindomito can, perché ristesse,
fugò col grido, e col baston corresse.
136. Ubbidisce il superbo, a piè gli piega
l’irsuta testa, e l’irta coda abbassa.
Quegli a la gola intorno allor gli lega
con tenace cordon serica lassa.
Poscia il reai Donzello invita e prega
ch’oltre vada securo, ed egli passa.
Passa colà, dove raccoglie umile
famiglia pastoral rustico ovile.
137. Stassene alcun su le fiorite rive
d’una sorgente cristallina e fresca.
Altri per l’elci folte a l’ombre estive
i vaghi augelli insidioso invesca.
Altri ne’ verdi faggi intaglia e scrive
d’Amor tutto soletto il foco e l’ésca.
Altri rintraccia di sua Ninfa Torme,
altri salta, altri siede, ed altri dorme.
13S. Quei con versi d’Amor l’aure addolcisce
al sussurrar de’ lubrici cristalli.
Questi al Tauro, al Monton, che gli ubbidisce,
insegna al suon de la siringa i balli.
Qual fiscelle d’ibisco, e qual ordisce
serti di fiori o purpurini o gialli.
Chi torce a l’agne le feconde poppe,
chi di latte empie i giunchi, e chi le coppe.
CANTO PRIMO
91
139. Col bel lanciullo, ove grand’ombra stende
pergolato di mirti, il Pastor siede.
Quivi Adon sue fortune a narrar prende,
de la contrada e di lui stesso chiede.
L’un gli risponde, e l’altro intanto pende
dal parlar, che d’amore il cor gli fiede.
— Strani — gli dice — oltr’ogni creder quasi,
Peregrino gentil, sono i tuoi casi.
140. Ma cangiar patria ornai deh non ti spiaccia
con sì bel loco, e rasserena il ciglio:
ché se pur (come mostri) ami la caccia,
qui fere avrai senz’ira, e senza artiglio.
Xé creder vo’, che ’ndarno il Ciel ti faccia
campar da tanto e sì mortai periglio,
o senz’alta cagion per via sì lunga
perduto legno a queste rive giunga.
141. Così compia i tuoi voti amico Cielo,
e secondi i desir destra Fortuna,
come, fra quanti col suo piè di gelo
paesi inferior scorre la Luna,
non potea più conforme a sì bel velo
terra trovarsi, o regione alcuna.
Certo con lei, che con Amor qui regna,
sol di regnar tanta bellezza è degna.
142. L’Isola, dove sei, Cipro s’appella,
che del mar di Panfilia in mezo è posta.
La gran reggia d’Amor (vedila) è quella,
ch’io là t’addito invèr la destra costa.
Xé (se non quanto il vuol la Dea più bella)
colà già mai profano piè s'accosta.
Scender di Ciel qui spesso ella ha per uso,
in altro tempo il ricco albergo è chiuso.
9 2
LA FORTUNA
143. Y’ha poi templi ed altari, havvi Amor seco
simulacri, olocausti, e sacerdoti,
dove in segno d’onor, del popol greco
pendono affissi in lunga serie i voti.
Offrono al Nume faretrato e cieco
vittime elette i supplici devoti,
e gli spargono ognor tra roghi e lumi
di ghirlande e d’incensi odori e fumi.
144. Qui per elezzlon, non per ventura
già di Liguria ad abitar venn’io.
Pasco per l’odorifera verdura
i bianchi armenti, e Clizio è il nome mio.
Del suo bel Parco la custodia in cura
diemmi la madre de l’alato Dio,
dov’entrar, fuor ch’a Venere, non lice,
ed a la Dea selvaggia e cacciatrice.
143. Trovato ho in queste selve ai flutti amari
d’ogni umano travaglio il vero porto.
Qui da le guerre de’ civili affari
quasi in securo Asilo, il Ciel m’ha scòrto.
Serici drappi non mi fur sì cari
come l’arnese ruvido ch’io porto;
ed amo meglio le spelonche e i prati,
che le logge marmoree, e i palchi aurati.
146. Oh quanto qui più volentieri ascolto
i sussurri de Tacque, e de le fronde,
che quei del foro strepitoso e stolto,
che ’l fremito vulgar rauco confonde!
Un’erba, un pomo, e di Fortuna un volto
quanto più di quiete in sé nasconde
di quel ch'avaro Principe dispensa
sudato pane in malcondita mensa !
CANTO PRIMO
93
147. Questa felice e semplicetta gente,
che qui meco si spazia e si trastulla,
gode quel ben, che tenero e nascente
ebbe a goder sì poco il mondo in culla:
lecita libertà, vita innocente,
appo ’l cui basso stato il regio è nulla,
ché sprezzare i tesor, né curar l’oro,
questo è secolo d’or, questo è tesoro.
148. A'on cibo o pasto prezioso e lauto
il mio povero desco orna e compone.
Or Damma errante, or Cavriuolo incauto
l’empie, or frutto maturo in sua stagione.
Detto talora a suon d’avena o flauto
ai discepoli boschi umil canzone.
Serva no, ma compagna amo la greggia ;
questa mandra malculta è la mia reggia.
149. Lunge da’ tasti ambiziosi e vani
m’è scettro il mio baston, porpora il vello,
ambrosia il latte, a cui le proprie mani
scusano coppa, e nèttare il ruscello.
Son ministri i bifolci, amici i Cani,
sergente il Toro e cortigian l’Agnello,
musici gli augelletti e l’aure e Tonde,
piume l’erbette, e padiglion le fronde.
150. Cede a quest’ombre ogni più chiara luce,
ai lor silenzii i più canori accenti.
Ostro qui non fiammeggia, òr non riluce,
di cui sangue e pallor son gli ornamenti.
Se non bastano i fior, che ’l suol produce,
di più bell’ostro e più bell’or lucenti,
con sereno splendor spiegar vi suole
pompe d’ostro l’Aurora, e d’oro il Sole.
LA FORTUNA
151. Altro mormorator non è che s’oda
qui mormorar, che ’l mormorio del rivo.
Adulator non mi lusinga o loda,
fuor che lo specchio suo limpido e vivo.
Livida Invidia, ch’altrui strugga e roda,
loco non v’ha, poi ch’ogni cor n’è schivo,
se non sol quanto in questi rami e ’n quelli
gareggiano tra lor gli emuli augelli.
152. Hanno colà tra mille insidie in Corte
Tradimento e Calunnia albergo e sede,
dal cui morso crudel trafitta a morte
è l’innocenza, e lacera la fede.
Qui non regna perfidia, e se per sorte
picciol’ape talor ti punge e fiede,
fiede senza veleno, e le ferite
con usure di mèl son risarcite.
153. Non sugge qui crudo Tiranno il sangue,
ma discreto Bifolco il latte coglie.
Non mano avara al poverello essangue
la pelle scarna, o le sostanze toglie.
Solo a l’agnel, che non però ne langue,
liavvi chi tonde le lanose spoglie.
Punge stimulo acuto il fianco a’ buoi,
non desire immodesto il petto a noi.
154. Non si tratta fra noi del fiero Marte
sanguinoso e mortai ferro pungente,
ma di Cerere sì, la cui bell’arte
sostien la vita, il vomere e ’l bidente.
Né mai di guerra in questa o in quella parte
furore insano o strepito si sente,
salvo di quella, che talor fra loro
fan con cozzi amorosi il Capro e ’l Toro.
CANTO PRIMO
95
155. Con lancia o brando mai non si contrasta
in queste beatissime contrade.
Sol di Bacco talor si vibra l’asta,
onde vino, e non sangue in terra cade.
Sol quel presidio ai nostri campi basta
di tenerelle e verdeggianti spade,
che nate là su le vicine sponde
stansi tremando a guerreggiar con Tonde.
156. Borea con soffi orribili ben potè
crollar la selva e batter la foresta.
Pacifici pensier non turba o scote
di cure vigilanti aspra tempesta.
E se Giove talor fiacca e percote
de balte querce la superba testa,
in noi non avien mai che scocchi o mandi
fulmini di furor Tira de' Grandi.
157. Così tra verdi e solitari boschi
consolati ne meno i giorni e gli anni.
Quel Sol, che scaccia i tristi orrori e foschi,
serena anco i pensier, sgombra gli affanni.
Non temo o d’Orso o d'Angue artigli o toschi,
non di rapace Lupo insidie o danni;
ché non nutre il terren fere o serpenti,
o se ne nutre pur, sono innocenti.
158. Se cosa è che talor turbi ed annoi
i miei riposi placidi e tranquilli,
altri non è ch’Amor. Lasso, dapoi
che mi giunse a veder la bella Filli,
per lei languisco, e sol per gli occhi suoi
convien che quant’io viva, arda e sfavilli;
e vo’ che chiuda una medesma fossa
del foco insieme il cenere, e de Tossa.
LA FORTUNA
Q6
159. Ma così son d’Amor dolci gli strali,
sì la sua fiamma e la catena è lieve,
che mille strazii rigidi e mortali
non vagliono un piacer che si riceve.
Anzi pur vaga de’ suoi propri mali
conosciuto velen l’anima beve;
e 'n quegli occhi, ov’alberga il suo dolore,
volontaria prigion procaccia il core.
160. Curi dunque chi vuol delizie ed agi.
10 sol piacer di villa apprezzo ed amo.
Co’ tuguri cangiar voglio i palagi,
altro tesor che povertà non bramo.
Sazio de’ vezzi perfidi e malvagi,
c’han sotto l’ésca dolce amaro l’amo,
qui sol quella ottener gioia mi giova
che ciascun va cercando, e nessun trova.
161. Non ti meravigliar, che la selvaggia
vita tanto da me pregiata sia:
ch’ancor di Giano in su la patria spiaggia
ne cantai già con rustica armonia;
onde vanto immortai d’arguta e saggia
concesse Apollo a la sampogna mia.
de’ cui versi lodati in Helicona
11 Ligustico mar tutto risona. —
162. Del maestro d’Amor gli amori ascolta
stupido Adone, ed a’ bei detti intento.
Colui, poi ch’affrenò la lingua sciolta,
fé’ da’ rozi Valletti in un momento
recar copia di cibi, a cui la molta
fame accrebbe sapore e condimento.
Mèi di diletto, e nettare d’Amore,
soave al gusto, e velenoso al core.
CANTO PRIMO
97
163. Né mai di Loto abominabil frutto
di secreta possanza ebbe cotanto,
né fu già mai con tal virtù costrutto
di bevanda Circea magico incanto,
che non perdesse e non cedesse in tutto
al pasto del Pastor la forza e ’l vanto.
Licore insidioso, ésca fallace,
dolce velen, ch’uccide, e non dispiace.
164. Nel Giardin del Piacer le poma colse
Clizio amoroso, e quindi il vano espresse,
ond’ebro in seno il Giovinetto accolse
fiamme sottili, indi s’accese in esse.
Non però le conobbe, e non si dolse,
ché fin ch’uopo non fu, giacquer suppresse,
qual serpe ascosa in agghiacciata falda,
che non prende vigor, se non si scalda.
165. Sente un novo desir ch’ai cor gli scende,
e serpendo gli va per entro il petto.
Ama, né sa d’amar, né ben intende
quel suo dolce d’Amor non noto affetto.
Ben crede e vuole amar, ma non comprende
qual esser deggia poi l’amato oggetto;
e pria si sente incenerito il core,
che s’accorga il suo male essere Amore.
166. Amor, ch’alzò la vela e mosse i remi
quando pria tragittollo al bel paese,
va sotto l’ali fomentando i semi
de la fiamma, ch’ancor non è palese.
Fa su la mensa intanto addur gli estremi
de la vivanda il Contadin cortese.
Adon solve il digiuno, e i vasi liba,
e quei segue il parlar, mentr’ei si ciba.
7
98
LA FORTUNA
167. — Signor, tu vedi il Sol, ch’aventa i rai
di mezo l’arco onde saetta il giorno:
però qui riposar meco potrai
tanto che ’l novo di faccia ritorno.
Ben da sincero cor (prometto) avrai
in albergo villan lieto soggiorno;
avrai con parca mensa e rozo letto
accoglienze cortesi, e puro affetto.
168. Tosto che sussurrar tra ’l mirto e ’l faggio
io sentirò l’auretta mattutina,
teco risorgerò, per far passaggio
a la casa d’Amor, ch’è qui vicina.
Tu poi quindi prendendo altro viaggio,
potrai forse saldar l’alta ruina,
conosciuto che sii l’unico e vero
successor de la reggia, e de l’impero. —
169. Ben che non tema il folgorar del Sole
tra fatiche e disagi Adon nutrito,
di quell’Oste gentil non però vole
sprezzar l’offerta, o ricusar l’invito.
Risposto al grato dir grate parole,
quivi di dimorar prende partito;
e ringrazia il destin, che lasso e rotto
a sì cara magion l’abbia condotto.
170. Sceso intanto nel mar Febo a corcarsi
lasciò le piagge scolorite e meste,
e pascendo i destrier fumanti ed arsi
nel presepe del Ciel biada celeste,
di sudore e di foco umidi e sparsi
nel vicino Ocean lavàr le teste:
e l’un e l’altro Sol stanco si giacque,
Adon tra’ fiori, Apollo in grembo a Tacque.
I L
PALAGIO D’AMORE
CANTO SECONDO
ALLEGORIA
Le ricchezze della Casa d’Amore, e le sculture della Porta di
essa, contenenti l’azzioni di Cerere e di Bacco, ci dànno a cono¬
scere le delizie della Sensualità, e quanto l’uno e l’altra concorrano
al nutrimento della lascivia. Le cinque torri comprese nel detto
Palazzo son poste per essempio de’ cinque sentimenti umani,
che son ministri delle dolcezze amorose; e la torre principale,
ch’è più elevata dell’altre quattro, dinota in particolare il senso
del tatto, in cui consiste l’estremo e l’eccesso di simili dilettazioni.
La soavità del pomo gustato da Adone ci insegna che per lo più
sogliono sempre i frutti d’Amore essere nel principio dolci e pia¬
cevoli. Il Giudicio di Paride è simbolo della vita dell’uomo, a cui
si rappresentano innanzi tre Dee, cioè l’attiva, la contempla¬
tiva, e la voluttaria; la prima sotto nome di Giunone, la seconda
di Minerva, e la terza di Venere. Questo giudicio si commette
all’uomo, a cui è dato libero l’arbitrio della elezzione, perché
determini qual di esse più gli piaccia di seguitare. Ed egli per
ordinario più volentieri si piega alla libidine ed al piacere, che al
guadagno o alla virtù.
AR G OMENTO
Al Palagio ov’ Amor chiude ogni gioia
ne van Clizio ed Adone in compagnia.
Clizio gli prende a raccontar per via
il gran Giudicio del Pastor di Troia.
Giunto a quel passo il giovinetto Alcide
che fa capo al camin di nostra vita,
trovò dubbio e sospeso in fra due guide
una via, che ’n due strade era partita.
Facile e piana la sinistra ei vide,
di delizie e piacer tutta fiorita;
l’altra vestia l’ispide balze alpine
di duri sassi, e di pungenti spine.
Stette lung’ora irrisoluto in forse
tra’ duo sentieri il Giovane inesperto:
alfine il piè ben consigliato ei torse
lunge dal calle morbido ed aperto;
e dietro a lei, ch’a vero onor lo scòrse,
scelse da destra il faticoso ed erto,
onde per gravi rischi e strane imprese
di somma gloria in su la cima ascese.
CANTO SECONDO
IO.S
3. E così va chi con giudicio sano
di Virtù segue l’onorata traccia.
Ma chiunque credendo al Vizio vano
cerca il mal, c’ha di ben sembianza e faccia,
giunge per molle e spazioso piano
dove in mille catene il piede allaccia.
Quante il perfido ahi quante, e ’n quanti modi
n'ordisce astute insidie, occulte frodi!
4. Per l’arringo mortai, nova Atalanta,
l’anima peregrina e semplicetta
corre veloce, e con spedita pianta
del gran viaggio al termine s’affretta.
Ma spesso il corso suo stornar si vanta
il Senso adulator, ch’a sé l’alletta
con l’oggetto piacevole e giocondo
di questo pomo d’or, che nome ha mondo.
5. Curi lo scampo suo, fugga e disprezzi
le dolci offerte, i dilettosi inganni,
né per che la lusinghi e l’accarezzi
disperda in fiore il verdeggiar degli anni.
Mille ognor le propon con finti vezzi
per desviarla da’ lodati affanni
gioie amorose, amabili diporti,
che poi fruttano altrui ruine e morti.
6. Da sì fatte dolcezze ella invaghita
di farsi ésca al focile, e segno a l’arco,
ne la cruda magion passa tradita
di mille pene a sostener l’incarco:
gabbia senz’uscio e career senza uscita,
mar senza riva, e selva senza varco,
labirinto ingannevole d’errore,
tal è il Palagio, ov’ha ricetto Amore.
IL PALAGIO D’AMORE
IO4
7. Già l’augel mattutin battendo intorno
l’ali, a bandir la luce ecco s’appresta,
e ’l capo e '1 piè superbamente adorno
d’aurato sprone, e di purpurea cresta,
de la villa oriuol, tromba del giorno,
con garriti iterati il mondo desta,
e sollecito assai più che non suole,
già licenzia le stelle, e chiama il Sole:
8. quando di là, dove posò pur dianzi,
dal suo sonno riscosso, Adon risorge,
ché veder vuol pria che ’l calor s’avanzi
se ’l Ciel di caccia occasion gli porge.
Clizio pastor con la sua greggia innanzi
al vicin bosco l’accompagna e scòrge,
là dove a suon di rustica sambuca
convien su ’l mezo dì ch’ei la riduca.
9. Disegna Adon, se pur tra via s’abbatte
in Damma, in Daino, o in altra fera alcuna,
errando ancor per quell’ombrose fratte
torcer de l’arco la cornuta Luna.
Quest’armi avea (come non so) ritratte
in salvo dal furor de la fortuna;
né so qual tolto avria fra le tempeste
più tosto abbandonar, la vita o queste.
io. Così, mentre vagante e peregrino
scorre l’antico suo paterno regno,
del crudo Arcier, del perfido destino
affretta l’opra, agevola il disegno.
Ma stimando fatale il suo camino,
poi che campò gran rischio in picciol legno,
spera, quando alcun dì quivi soggiorni,
che lo scettro perduto in man gli torni.
CANTO SECONDO
IO5
11. Veggendo come per sì strania via
da la terra odorifera Sabea
mirabilmente a l’isola natia
pietà d’amico Ciel scòrto l’avea,
e che del loco, ond’ebbe origin pria,
il leggittimo stato in lui cadea,
nel favor di Fortuna ancor confida,
che de’ suoi casi a’ bei progressi arrida.
12. A punto il Sol su la cornice allora
de la finestra d’òr levava il ciglio,
forse per risguardar s’avesse ancora
nulla esseguito Amor del suo consiglio,
quando di lei che ’l terzo giro onora,
dolente pur del fuggitivo figlio,
vie più da lui, che dal Pastor guidato,
giunse presso a l’ostello aventurato.
13. Ancor che chiusa sia, com’ognor suole,
l'entrata principal de la magione,
tanta è però di sì superba mole
la luce esterior, ch’abbaglia Adone.
La reggia famosissima del Sole
de’ suoi chiari splendori al paragone
fora vile ed oscura: e ’l Giovinetto
d’infinito stupor ne colma il petto.
14. Sorge il Palagio, ov'ha la Dea soggiorno,
tutto d’un muro adamantino e forte.
I gran chiostri, i gran palchi invidia e scorno
fanno a le logge de l’Empirea Corte.
Ha quattro fronti e quattro fianchi intorno,
quattro torri custodi, e quattro porte;
e piantata ha nel mezo un'altra torre,
che vien di cinque il numero a comporre.
IL PALAGIO D'AMORE
IOÓ
15. Xe’ quattro angoli suoi quasi a compasso
poste le torri son tutte egualmente.
Quella di mezo è del medesmo sasso,
ma de l’altre maggiore, e più eminente.
L’una a l’altra risponde e s’apre il passo
per più d’un ponte eccelso e risplendente,
e con arte assai bella e ben distinta
ciascuna de le quattro esce a la quinta.
16. Sì alto e sì sottile è ciascun arco
che sotto ciascun ponte si distende,
che ben si par che quel sublime incarco
per miraeoi divino in aria pende.
L’incurvatura, ond’ogni ponte ha varco,
di tante gemme variata splende,
ch’ogni arco ai lumi ed ai color che veste
somiglia in terra un’Iride celeste.
17. Le quattro torri in su i canton costrutte
son fatte in quadro, e son d’egual misura,
tranne la principal fra l’altre tutte,
ch’è fabricata in sferica figura.
Son distanti del pari, e son condutte
le linee a fil con vaga architettura:
e salvo la maggior, che ’n grembo il tiene,
per ogni torre in un giardin si viene.
iS. Xon di porfidi ornaro o serpentini
quello strano edificio i dotti mastri,
ma fér di sassi orientali e fini
comignoli e cornici, archi e pilastri.
Preziosi crisoliti e rubini
segàr di marmi in vece e d’alabastri,
e tutte qui de l’Indiche spelonche
e de' lidi Eritrei votàr le conche.
CANTO SECONDO
19. Da le vene del Gange il fabro scelse
il più pregiato e lucido metallo,
e da le rupi de l’Arabia svelse
il diamante purissimo e ’l cristallo,
onde compose le colonne eccelse
con ben dritta misura ed intervallo,
che su diaspro rilucente e saldo
ferman le basi, e i capi han di smeraldo.
20. Tra colonna e colonna al peso altero
sommessi i busti smisurati e grossi,
servon d’appoggio al grave magistero
in forma di Giganti alti colossi.
Son fabricati d'un berillo intero,
e d’ardente piropo han gli occhi rossi.
Ciascun regge un feston distinto e misto
di zaffir, di topazio, e d’ametisto.
21. Splende intagliata di fabril lavoro
la maggior porta del mirabil tetto.
Sovra gangheri d’or spigoli d’oro
volge, e serragli ha d’or limpido e schietto.
È sostegno, e non fregio al gran tesoro
del ricco ingresso il calcidonio eletto.
Soggiace al piè, quasi sprezzato sasso,
ne la lubrica soglia il fin balasso.
22. Quel di mezo è d’argento, e mille in esso
illustri forme industre mano incise,
e di lor col rilievo e col commesso
gli atti e i volti distinse in varie guise.
Vero il finto dirà, vero ed espresso
uom che v’abbia le luci intente e fise.
L’opra, ch’opra è de l’Arte, e quasi spira,
com’opra di sua man Natura ammira.
io8
IL PALAGIO d’amore
23. In una parte del superbo e bello
uscio, ch’ai vivo ogni figura esprime,
scolpì Yulcan col suo divin scarpello
l’alma inventrice de le biade prime.
Fumar Etna si vede, e Mongibello
fiamme eruttar da le nevose cime.
Ben sepp’egli imitar del patrio loco
con rubini e carbonchi il fumo e ’l foco!
24. Vedesi là per la campagna aprica,
tutta vestita di novella messe,
biondeggiar d’oro ed ondeggiar la spica,
sparsa pur or da le sue mani istesse.
« Scoglio gentil » par che tacendo dica
si ben le voci ha nel silenzio espresse
■ siami fido custode il tuo terreno
del caro pegno ch’io ti lascio in seno
25. Ecco ne vien con le compagne elette
la Vergin fuor de la materna soglia,
e per ordir monili e ghirlandette
de’ suoi fregi più vaghi il prato spoglia.
Già par che i fior tra le ridenti erbette
apra con gli occhi, e con le man raccoglia.
Ritrar non sapria meglio Apelle o Zeusi
la bella figlia de la Dea d’Eleusi.
26. Ed ecco aperte le sulfuree grotte,
mentre ch'ella compon gigli e viole,
dal fondo fuor de la Tartarea notte
il Rettor de le Furie uscire al Sole.
Fuggon le Ninfe, e con querele rotte
la rapita Proserpina si dole.
Spuman tepido sangue, e sbuffali neri
aliti di caligine i destrieri.
CANTO SECONDO
IOQ
27. Ecco Cerere in Fiegra afflitta riede,
ecco gemino pin succide e svelle,
e per cercarla, fattone due tede,
le leva in alto ad uso di facelle.
Simile al vero il gran carro si vede
ricco di gemme sfavillanti e belle.
Van con lucido tratto il ciel fendenti
l’ali verdi battendo i duo Serpenti.
28. Da l’altro lato mirasi scolpito
il giovinetto Dio che ’l Gange adora,
come immaturo ancor, non partorito
Giove dal sen materno il tragge fora:
come gli è madre il padre; indi nutrito
da le Ninfe di Nisa, i boschi onora.
Stranio parto e mirabile, che fue
una volta concetto, e nacque due.
29. In un carro di palmiti sedere
vedilo altrove, e gir sublime e lieve.
Tirano il carro rapide e leggiere
quattro d’Hircania generose allieve.
I.eccano intinto il fren Torride fere
del buon licor che fa gioir chi ’1 beve.
Egli tra i plausi de la vaga plebe
passa fastoso e trionfante a Thebe.
30. 11 non mai sobrio e vecchiarei Sileno
sovra pigro asinel vien sonnacchioso,
tinto tutto di mosto il viso e ’l seno,
verdeggiante le chiome e pampinoso.
Già già vacilla! e per cader vien meno:
reggon Satiri e Fauni il corpo annoso.
Gravi porta le ciglia e le palpebre
di vino e di stupor tumide ed ebre.
1 IO
IL PALAGIO D’AMORE
31. Vulgo dal destro lato e dal sinistro
di fanciulli e di ninfe si confonde,
e par ch’a suon di crotalo e di sistro
vibrin tirsi e corimbi e frasche e fronde.
Inghirlandan di Bacco ogni ministro
verdi viticci, uve vermiglie e bionde:
e son le viti di smeraldo fino,
l’uve son di giacinto e di rubino.
32. Quinci e quindi dintorno ondeggia e bolle
la turba de le Vergini Baccanti,
e corre e salta infuriato e folle
lo strepitoso stuol de’ Coribanti.
Par già tutto tremar facciano il colle
buccine, e corni, e cembali sonanti.
Pien di tant’arte è quel lavor sublime,
che nel muto metallo il suono esprime.
33. Quanto Adon più da presso al loco lassi,
più la mente gl’ingombra alto stupore.
“ Questo è il Ciel de la terra, e quinci vassi
a le beatitudini d'Amore ”.
Così colà volgendo i guardi e i passi,
in fronte gli mirò scritto di fore.
Tutto d’incise gemme era lo scritto,
tarsiato a caratteri d’Egitto.
34. — Ecco il Palagio ove Ciprigna alberga -
disse allor Clizio — e dov’Amor dimora.
Io quando avien che ’l Sol più alto s’erga,
menar qui la mia greggia uso talora;
né fin che poi ne l’Ocean s’immerga,
la richiama a l’ovil canna sonora.
Ma poi che Sirio latra, io vo’ ben oggi
miglior ombra cercar tra que’ duo poggi.
CANTO SECONDO
I I I
35. Tra que’ duo poggi, che non lunge vedi,
teco verrò per solitarie vie.
Poi da te presi i debiti congedi,
t’attenderò su ’l tramontar del die;
e recherommi a gran mercé, se riedi
a ricovrar ne le cappanne mie.
Forse intanto il tuo legno esposto a l’onda
fia che guidi a buon porto aura seconda. —
36. Adon disposto di seguir sua sorte,
cortesemente al contadin rispose.
In questo mentre innanzi a le gran porte
estranie vide e disusate cose:
in mezo un largo pian, che vi fa corte,
stende tronco gentil braccia ramose,
di cui non verdeggiò mai sotto il cielo
più raro germe, o più leggiadro stelo.
37. Cedan le ricche e fortunate piante
che dispiegaro la pomposa chioma
nel bel giardin del Libico Gigante,
che ’l tergo incurva a la stellata soma.
Non so se là ne le contrade sante,
carica i rami di vietate poma,
arbor nutrì si preziosa e bella
quel che suo Paradiso il mondo appella.
38. Ha di diamante la radice e ’l fusto,
di smeraldo le fronde, i fior d’argento.
Son d’oro i frutti, ond’è mai sempre onusto,
e la porpora a l’or cresce ornamento.
Di contentar dopo la vista il gusto
al curioso Adon venne talento,
ond’un ne colse, e com’a punto grave
fusse d’ambrosia, il ritrovò soave.
I 12
IL PALAGIO D’AMORE
39. E tutto colmo d’un piacer novello
al Pastor dimandò : — Che frutto è questo ? —
— 11 frutto di quel nobile arboscello
non è — rispose — di terreno innesto;
e s’è dolce a la bocca, agli occhi bello,
ben di gran lunga è più perfetto il resto:
per la virtù ch’asconde il suo sapore,
s'accresce grazia, e si raddoppia amore.
40. Edito hai ragionar del pomo Ideo,
che ’n premio di beltà Venere ottenne,
per cui con tanto sangue il ferro Acheo
fe’ il ratto de l’Adultera sollenne.
Questo poi che di lei restò trofeo,
la Dea qui di sua mano a piantar venne:
e piantato che fu, volse dotarlo
de la proprietà di cui ti parlo. —
41. — Deh — gli soggiunse Adon — se non ti pesa,
narra l’origin prima, e ’n qual maniera
nacque fra le tre Dee l’alta contesa,
com’ella andò di sì bel pomo altera.
I >a le ninfe Sabee n’ho parte intesa,
ma bramo udir di ciò l'istoria intera.
Così men malagevole ne ha
l’aspro rigor de la malvagia via. —
42. — Poi ch’ebbe Amor con tanti lacci c tanti —
il Pastor cominciò — tese le reti,
ch’alfin pur strinse dopo lunghi pianti
in nodo maritai Peleo con Theti;
le nozze illustri di sì degni amanti
vennero ad onorar festosi e lieti
quanti son Numi in Ciel, quanti ne serra
il gran cerchio del mare, e de la terra.
CANTO SECONDO
113
43. Fu di Thessaglia aventuroso il monte,
dove si celebrar questi imenei.
Di mirti e lauri gli fiorì la fronte,
del trionfo d’Amor fregi e trofei;
e le stelle gli fur propizie e pronte,
e le genti mortali, e gli alti Dei,
se non spargea dissension crudele
tra le dolci vivande amaro fiele.
44. Senza invidia non è gioia sincera
né molto dura alcun felice stato.
Quel gran piacer da la Discordia fiera,
madre d’ire e di liti, ecco è turbato;
ch’esclusa fuor de la divina schiera,
e dal convito splendido e beato,
gli alti diletti e l’allegrezze immense
venne a contaminar di quelle mense.
45. A Farti sue ricorre, e col consiglio
di quella rabbia che la punge e rode,
corre al Giardin d’Hesperia, e dà di piglio
a le piante che ’l Drago ebber custode.
Quindi un pomo rapisce aureo e vermiglio,
de’ cui rai senz’offesa il guardo gode.
Di minio e d’oro un fulgido baleno
vibra, e gemme per semi accoglie in seno.
46. Ne la scorza lucente e colorita,
il cui folgore lieto i lumi abbaglia,
la Diva di disdegno inviperita,
cui nulla Furia in fellonia s’agguaglia,
di propria man (come il furor l’irrita)
parole poi sediziose intaglia.
Dice il motto da lei scolpito in quella:
“ Diasi questo bel dono a la più bella ”.
8
IL PALAGIO D’AMORE
114
47. Torna, ove la richiama a la vendetta
de l’alta ingiuria la memoria dura,
e d’astio accesa, e di veleno infetta,
nel velo ascosa d'una nube oscura,
con la sinistra man su ’l desco getta
de l’ésca d’or la perfida scrittura.
Questo magico don tra tante feste
gettò nel mezo a l’assemblea celeste.
48. Lasciaro i cibi, e da’ fumanti vasi
le destre sollevar tutti coloro:
e di stupore attoniti rimasi,
presero a contemplar quel sì bell’oro.
Donde si vegna non san dir, ma quasi
un presente del Fato ei sembra loro;
e sì di sé gli alletta al bel possesso,
che par eh’Amor si sia nascosto in esso.
49. Ma sovra quanti il videro e ’l bramaro
le tre cupide Dee n’ebber diletto,
e stimulate da desire avaro,
che di quel sesso è naturai difetto,
la sollecita man steser di paro
a la rapina del leggiadro oggetto,
e con gara tra lor non ben concorde
se ne mostraro a meraviglia ingorde.
50. Quando lo Dio che del Signor d’Anfriso
guardò gli armenti, e che conduce il giorno,
meglio in esso drizzando il guardo fiso,
vide le lettre ch’avea scritte intorno;
e lampeggiando in un gentil sorriso,
di purpuree scintille il volto adorno,
fe’ de le note peregrine e nove
sculte su la corteccia, accorger Giove.
CANTO SECONDO
115
51. Letta rinscrizzìon di quella scorza,
le troppo avide Dee cessare alquanto,
e cangiar volto, e ’n su la mensa a forza
il deposito d’or lasciare intanto.
Cede il merto al desio, ma non s’ammorza
l’ambizion, ch’aspira al primo vanto.
San, ch’averlo non può se non sol una:
il voglion tutte, e noi possiede alcuna.
52. Degli assistenti l’immortai corona
nova confusimi turba e scompiglia.
Con vario disparer ciascun ragiona,
chi di qua, chi di là freme e bisbiglia.
Sovra ciò si contende e si tenzona,
ornai tutta sossovra è la famiglia.
Tutta ripiena è già d’alto contrasto
la gran sollennità del nobil pasto.
53. Giunon superba è sì di sua grandezza
che più de l’altre due degna s’appella.
Né sé cotanto Pallade disprezza
che non pretenda la vittoria anch’ella.
Vener, ch’è madre e Dea de la bellezza,
e sa ch’è destinato a la più bella,
ridendosi fra sé di tutte loro,
spera senz’altro al mirto unir l'alloro.
54. Tutti gli Dei nel caso hanno interesse,
e son divisi a favorir le Dee.
Marte vuol sostener con l’armi istesse
che ’l ricco pomo a Citherea si dee.
Apollo di Minerva in campo ha messe
le lodi, e chiama l’altre invide e ree.
Giove, poi ch’ascoltato ha ben ciascuno,
parzial de la moglie, applaude a Giuno.
IL PALAGIO D’AMORE
I 16
55. Alfin, perch’alcun mal pur non seguisse
in quel drappel ch’ai paragon concorre,
bramoso di placar tumulti e risse,
e querele e litigi in un comporre,
« Le cose belle » a lor rivolto disse
ti son sempre amate, ognun v’anela e corre:
ma quanto altrui più piace il bello e ’l bene,
con vie maggior difficoltà s’ottiene.
56. Ubbidir fìa gran senno, ed è ben dritto
eh'a la ragion la passi'on soggiaccia,
e ch’a quanto si vole ed è prescritto
da la Necessità si sodisfaccia;
ché se ben di chi regna alcuno editto
talor, troppo severo, avien che spiaccia,
non ostante il rigor con cui si regge,
giusto non è di violar la legge.
57. Parlo a voi belle mie, tutte rivolte
a la pretension d’un pregio istesso.
Pur non può questo pomo esser di molte,
sapete ad una sola esser promesso.
( )r se bellezze eguali in voi raccolte
ponno egualmente aver ragione in esso,
né voglion l’altre due dirsi più brutte,
come possibil fìa contentar tutte ?
58. Giudice delegar dunque conviensi,
saggio conoscitor del vostro merto,
a cui conforme il guiderdon dispensi
con occhio sano, e con giudicio certo.
A lui quanto di bello ascoso tiensi
vuoisi senz’alcun vel mostrar aperto,
perché le differenze onde garrite
distinguer sappia, e terminar la lite.
CANTO SECONDO
117
59. Io renunzio a l’arbitrio; esser tra voi
arbitro idoneo in quanto a me non posso,
ché s’ad una aderisco, io non vo’ poi
l’odio de l’altre due tirarmi addosso.
Amo di par ciascuna, i casi suoi
pari zelo a curar sempre m’ha mosso.
Potess’io trionfanti e vincitrici
veder così di par tutte felici.
60. Pastor vive tra’ boschi in Frigia nato,
ma sol nel nome e ne l’ufficio è tale,
ché s’ancor non tenesse invido fato
chiuso tra roze spoglie il gran natale,
al mondo tutto il suo sublime stato
conto fora, e ’l legnaggio alto e reale.
Di Priamo è figlio, Imperador Troiano,
di Ganimede mio maggior germano.
61. Paride ha nome, e non è forse indegno
ch’egli tra voi la question decida,
poi c’ha l’integrità pari a l’ingegno
da poter acquetar tanta disfida.
Sconosciuto si sta nel patrio regno
dove il Gargaro altier s’estolle in Ida.
Itene dunque là; colui che porta
l'ambasciate del Ciel, vi sarà scorta ».
62. Così diss’egli, e con applauso i detti
raccolti fur del gran Rettor superno,
e scritti per man d’Atropo fur letti
nel bel diamante del destino eterno;
e le Dive a quel dir sedàr gli affetti,
pur di vento pascendo il fasto interno.
Già s’apprestano a prova al gran viaggio,
e ciascuna s’adorna a suo vantaggio.
118
IL PALAGIO d’amore
63. L’altera Dea che del gran Rege è moglie
de l’usato s’ammanta abito regio.
Di doppie fila d’or son quelle spoglie
tramate tutte, e d’oro han doppio fregio;
sparse di Soli, e folgorando toglie
ogni Sole al Sol vero il lume e ’l pregio.
Di stellante diadema il capo cinge,
e lo scettro gemmato in man si stringe.
64. Quella ch’Atene adora ha di bei stami
di schietto argento e semplice la vesta,
riccamata di tronchi e di fogliami
di verde olivo, e di sua man contesta.
Tien d’una treccia degl’istessi rami
il limpid’elmo incoronato in testa.
Sostien l’asta la destra, e ’l braccio manco
di scudo adamantin ricopre il fianco.
65. L’altra, c’ha ne’ begli occhi il foco e ’l telo,
d’artificio fabril pompa non volse,
ma d’un serico a pena azurro velo
la nudità de’ bianchi membri involse:
color del mare, anzi color del cielo
(quello la generò, questo l’accolse) ;
leggier leggiero, e chiaramente oscuro,
che facea trasparer l’avorio puro.
66. Prende Mercurio il pomo, agili e presti
ponsi a le tempie i vanni ed a’ talloni,
e la verga fatai, battendo questi,
si reca in man, ch’attorti ha duo Dragoni.
Per ben seguirlo l’emule celesti
lascian Colombe, e Nottule, e Pavoni:
ed è lor carro un nuvoletta aurato
lievemente da Zefiro portato.
CANTO SECONDO
I 19
67. Dipinge un bel seren l'aria ridente
di vermiglie fiammelle e d’aurei lampi,
e qual Sol che calando in Occidente
di rosati splendori intorno avampi,
segnando il tratto del sentier lucente
indora e inostra i suoi cerulei campi,
mentre condotta da la saggia guida
la superbia del Ciel discende in Ida.
68. Stassene in Ida a le fresch’ombre estive
Paride assiso a pasturar le gregge,
là dove intorno in mille scorze vive
il bel nome d’Enon scritto si legge.
Misera Enon, se de le belle Dive
giudice eletto, ei la più bella elegge,
di te che fia, c’hai da restar senz’alma?
Ahi che perdita tua fia l’altrui palma!
6 q. Voglion costor la tua delizia cara,
lassa, rapirti, e ’l tuo tesor di braccio.
Vanne dunque infelice, e pria ch’avara
Fortuna un tanto ardor converta in ghiaccio,
quanto gioir sapesti, or tanto impara
a dolerti di lui, che scioglie il laccio:
e mentre puoi, dentro il suo grembo accolta,
bacia Paride tuo l’ultima volta.
70. A piè d’un antro nel più denso e chiuso
siede il Pastor, de la solinga valle.
La mitra ha in fronte, e (qual de’ Frigi è l'uso)
barbaro drappo annoda in su le spalle.
Lungo il chiaro Scamandro erra diffuso
l’armento fuor de le sbarrate stalle;
e ’l verde prato gli nutrisce e serba
di rugiada conditi i fiori e l’erba.
I 20
IL PALAGIO D’AMORE
71. Egli gonfiando la cerata canna,
v’accorda al dolce suon canto conforme.
Per gran dolcezza le palpebre appanna
il fido cane, e non lontan gli dorme.
Tacciono intente a piè de la cappanna
ad ascoltarlo le lanose torme.
Cinti le coma di fiorite bacche
obliano il pascolar giovenchi e vacche.
72. Quand’ecco declinar la nube ei vede,
che ’l fior d’ogni bellezza in grembo serra,
e rotando colà, dov’egli siede,
di giro in giro avicinarsi a terra.
Ecco a la volta sua drizzano il piede
accinte a nova e dilettosa guerra
le tre belle nemiche, a’ cui splendori
rischiara il bosco i suoi selvaggi orrori.
73. In rimirando sì mirabil cosa
stringe la labra allor, curva le ciglia,
e su la fronte crespa e spaventosa
scolpisce col terror la meraviglia.
Sovra il tronco vicin la testa posa,
ed al tronco vicin si rassomiglia.
La canzon rompe, e lascia intanto muta
cadérsi a piè la garrula cicuta.
74. « Fortunato Pastor, Giovane illustre »
il messaggio divin dissegli allora,
« il cui gran lume ascoso in vel palustre
lo stesso Ciel, non che la terra onora;
degno ti fa la tua prudenza industre
di venture a mortai non date ancora.
A te con queste Dee Giove mi manda,
e che tu sia lor Giudice comanda.
CANTO SECONDO
I 2 I
75. Vedi questo bel pomo? a la contesa
questo, che fu suggetto, or premio fìa.
Colei l’avrà, che ’n così bella impresa
di bellezza maggior dotata sia.
Donalo pur senza temere offesa
a chi '1 merita più ch’a chi ’l desia.
Ben sopir saprai tu discordie tante
come bel, com’esperto, e com’amante ».
76. Tanto dic’egli, e l’aureo pomo sporto
consegna a l’altro, il qual fra gioia e tema
in udir quel parlar facondo e scòrto,
e ’n risguardar quella beltà suprema,
il prende, e tace: e sbigottito e smorto
fuor di se stesso impallidisce e trema.
Pur fra tanto stupor, che lo confonde,
moderando i suoi moti, alfin risponde:
77. « La conoscenza c’ho de Tesser mio,
o de le stelle Ambasciador felice,
questa gran novità, che qui vegg’io,
al mio basso pensier creder disdice:
gloria, di cui godere ad alcun Dio
maggior forse lassù gloria non lice;
che dal Ciel venga a povero Pastore
tanto bene insperato, e tanto onore.
78. Ma ch’abbia a proferir lingua mortale
decreto in quel ch’ogni intelletto eccede,
quanto a lo stato mio sì diseguale
più mi rivolgo, ei tanto meno il crede.
Nulla degnar mi può di grado tale,
se non l’alto favor che mel concede.
Pur se ragion di merito mi manca,
grazia celeste ogni viltà rinfranca.
122
IL PALAGIO D’AMORE
79. Può ben d’umane cose ingegno umano
talor deliberar senza periglio.
Trattar cause divine ardisce invano
senz’aiuto divin saggio consiglio.
Come dunque poss'io rozo e villano
non che le labra aprir, volgere il ciglio,
dove I’istessa ancor somma scienza
non seppe in Ciel pronunziar sentenza ?
80. Com’esser può, che l’esquisita e piena
perfezzion de la beltà conosca
noni, ch’oltre la caligine terrena,
tra queste verdi tenebre s’imbosca,
dov’altro mai di sua luce serena
non n’è dato mirar ch’un’ombra fosca?
Certo inabil mi sento, e mi confesso,
di tali estremi a misurar l’eccesso.
81. S’avessi a giudicar fra Toro e Toro,
o decretar fra l’una e l’altra Agnella,
discerner saprei ben forse di loro
qual si fusse il migliore, e la più bella.
Ma così belle son tutte costoro,
che distinguer non so questa da quella.
Tutte egualmente ammiro, e tutte sono
degne di laude eguale, e d’egual dono.
82. Dogliomi, che tre pomi aver vorrei,
qual è quest’un ch’a litigar l’ha mosse,
ch’allor giusto il giudicio io crederei
quando commun la lor vittoria fosse.
Aggiungo poi, che degli eterni Dei
paventar deggio pur l’ire e le posse,
poi che di questa schiera aventurosa
due son figlie di Giove, e l’altra è sposa.
CANTO SECONDO
123
83. Ma da che tali son gli ordini suoi,
forza immortale il mio difetto scusi :
pur che de le due vinte alcuna poi
non sia, ch’irata il troppo ardire accusi
Intanto, o belle Dee, se pur a voi
piace che ’l peso imposto io non ricusi,
quel chiaro Sol, che tanta gloria adduce,
ritenga il morso a la sfrenata luce ».
S4. Qui Cillenio s’apparta, ed ei restando
chiama tutti a consiglio i suoi pensieri,
e gli spirti al gran caso assottigliando
comincia ad aguzzar gli occhi severi.
Già s’apparecchia a la bell’opra, quando
con atti gravi e portamenti alteri
di reai maestà, gli s’avicina
e gli prende a parlar la Dea Lucina.
85. « Poi ch’ai giudicio uman si sottomette
da la giustizia tua fatta secura
la ragion, che le prime e più perfette
meraviglie del Ciel vince ed oscura:
de la beltà, ch’eletta è fra Telette,
dèi conoscer, Pastor, la dismisura ;
ma conosciuta poi, riconosciuta
convien che sia con la mercé devuta.
86. E s’egli è ver, che l’eccellenza prima
possa sol limitar la tua speranza
di mai meglio veder, vista la cima,
e ’l colmo di quel bel ch’ogni altro avanza;
acciò che l’occhio tuo, ch’or si sublima
sovra l’umana e naturale usanza,
non curi Citherea più, né Minerva,
in me rimira, e mie fattezze osserva.
124
IL PALAGIO D’AMORE
87. Tu discerni colei, se me discerni,
cui cede ogni altro Nume i primi onori,
Imperadrice degli Eroi superni,
consorte al gran Motor Re de’ Motori.
Vedi il più degno in fra i suggetti eterni
che ’l Cielo ammiri, o che la terra adori ;
innanzi ai raggi de la cui beltade
lo Stupor di stupor stupido cade.
88. L’istesso Sol d'idolatrarmi apprese
di scorno spesso e di vergogna tinto;
e ’l mio più volte il suo splendore accese,
l’estinse pria, poi ravivollo estinto.
Negar dunque non puoi di far palese
quel lume altrui, che ’l maggior lume ha vinto,
senza accusar di cecità la luce
di colui che per tutto il dì conduce ».
89. Rompe allora il silenzio ed apre il varco
a la voce il Pastor con questo dire:
« Poi ch’a’ suoi cenni col commesso incarco
legge di Ciel mi sforza ad ubbidire,
non fìa ritroso ad onorarvi, o parco,
gloriosa Reina, il mio desire,
del cui pronto voler vi farà noto
un schietto favellar libero il voto.
90. Io vi giudico già tanto perfetta
che più nulla mirar spero di raro,
tal che '1 merto di quel, ch’a voi s’aspetta,
contentar ben vi può, ch’a tutti è chiaro,
senza bisogno alcun ch’io vi prometta
ciò che tòr non vi dee Giudice avaro,
onde cosa la speme abbia a donarvi
che ’n effetto il dever non può negarvi.
CANTO SECONDO
125
91. Ben volentier (se senza ingiuria altrui
così determinar fusse in mia mano)
concederei questo bel pomo a vui,
né dal dritto giudicio andrei lontano.
Ma mi convien (com’ammonito fui
dal facondo corrier del Re sovrano)
darlo a colei ch’a l’altre il pregio invola:
e voi scesa dal Ciel non siete sola ».
92. L'orgogliosa moglier del gran Tonante
sì fatte lodi udir non si scompiacque,
e senza trionfar già trionfante
attese il fin di quel certame, e tacque
Ed ecco allor colei trattasi avante
che senza madre del gran Giove nacque,
d'onestà virginal sparsa le gote
chiede il pomo al Pastor con queste note:
93. << Tutti i mortali e gl'immortali in questo
sospetti a mio favor sarebbon forse.
Paride sol, ch’amico è de l’onesto,
e dal giusto e dal ver già mai non torse,
degno è d’ufficio tale, ed io ben resto
paga d’un tant’onor, che ’l Ciel gli porse,
poi che non so da cui più certo or io
mi potessi ottener quanto desio.
94. Tu, che lume cotanto hai ne la mente,
ed appregi valore e cortesia,
rivolgerai ne l’animo prudente
tutto ciò ch’io mi vaglia, e ciò ch’io sia:
ond'oggi crederò che facilmente
\ incitrice farai la beltà mia,
quell’ossequio e quel dritto a me porgendo
che merito, che bramo, e che pretendo.
1 2 6
IL PALAGIO D’AMORE
95. Non son, non son qual credi: in me vedere
di Vener forse, o di Giunon pensasti
lusinghe false ed apparenze altere,
1 risi e i vezzi, e le superbie e i fasti?
Cose tu vedi essenziali e vere,
vedi Minerva, e tanto sol ti basti :
senza cui nulla vai regno o ricchezza,
fuor del cui bel difforme è la bellezza.
96. Virtù son io, di cui non altro mai
vide uom mortai ch’una figura, un’orma.
A te però con disvelati rai
ne rappresento la corporea forma;
da cui (se saggio sei) prender potrai
de la vera beltà la vera norma,
e conoscer quaggiù fuor d’ogni nebbia
quel che seguir, quel ch’adorar si debbia.
97. Forse, mentre tu miri, ed io ragiono,
per troppo meritar mi stimi indegna,
e la vergogna di sì picciol dono
ti fa parer che poco a me convegna.
Ma io mi scorderò di quel che sono,
sol che la palma di tua mano ottegna.
Pur ch’ella oggi da te mi sia concessa,
per amor tuo sconoscerò ine stessa ».
qS Da la virtù di quel parlar ferito
Paride parer cangia, e pensier muta:
e dal presente oggetto instupidito
la memoria de l'altro ha già perduta.
« Diva » risponde, « il merito infinito
di cotanta beltà non più veduta
dona al mio cieco ingegno occhi a bastanza
da poter ammirar vostra sembianza.
CANTO SECONDO
I
99. Io ben conosco, che quel ch’oggi appare
in quest’ombroso e solitario chiostro
è puro specchio e lucido essemplare
de la divinità, ch’a me s’è mostro.
Ma se vittime e voti, incensi ed are
consacra il mondo al simulacro vostro,
qual sacrificio or v’offerisco e porgo
io, che vivo e non finto il ver ne scorgo?
100. Il presentarvi ciò che vi conviene
è dever necessario, e giusta cosa;
e l’istessa ragion, che v’appartiene,
vi fa senza il mio dir vittoriosa.
La speranza del ben potete bene
concepire ornai lieta e baldanzosa.
Intanto in aspettandone l’effetto
purghi la grazia vostra il mio difetto ».
101. Queste offerte cortesi assai possenti
furo nel cor de la più saggia Dea.
E qual più certo ornai di tali accenti
pegno i suoi dubbi assecurar potea ?
Da parole sì dolci e sì eloquenti,
con cui quasi il trofeo le promettea,
presa rimase, e fu delusa anch’essa
la Sapienza, e l’Eloquenza istessa.
102. Ma la madre d’Amor, nel cui bel viso
ogni delizia lor le Grazie han posta,
quel ciglio, ch’apre in terra il Paradiso,
verso il Garzon volgendo, a lui s’accosta;
e la serenità del dolce riso
d’una gioconda affabiltà composta,
la favella de’ cori incantatrice
lusinghevole scioglie, e così dice:
128
IL PALAGIO D'AMORE
103. « Paride, io mi son tal, che ne l’acquisto
del desiato e combattuto pomo
senza temer d’alcun successo tristo
rifiutar non saprei giudice Momo,
Te quanto meno, in cui sovente ho visto
accortezza e bontà più che ’n altr’uomo?
Quanto più volentier senza spavento
al foro tuo di soggiacer consento?
104. In terra o in Ciel tra’ più tenaci affetti
qual cosa più sensibile d’Amore?
Qual possanza o virtù, ch’abbia ne’ petti
più de le forze sue forza e valore?
Or che pensi? che fai? che dunque aspetti?
Dove dove è il tuo ardir? dove il tuo core?
Dimmi come avrai core, e come ardire
da poterti difendere, o fuggire ?
103. Se ’l pomo, per cui noi stiam qui pugnando,
come senso non ha, potesse averlo,
tu lo vedresti a me correr volando,
né fora in tua balìa di ritenerlo.
Poi ch’e’ venir non potè, io tei dimando,
sì come degna sol di possederlo.
Qualunque don la mia beltà riceve
è tributo d’onor, che le si deve.
106. La vista (il veggio ben) del mio bel volto
t’ha dolcemente l’anima rapita.
Or riprendi gli spirti, e ’n te raccolto
il cor rinfranca, e la virtù smarrita.
Quel che mirabil è, mirato hai molto:
comprender non si può luce infinita.
Gli occhi tuoi, che veduto oggi tropp’hanno,
ad ogni altro splendor ciechi saranno.
CANTO SECONDO
129
107. Faccian prima però di quanto han scorto,
testimoni del ver, fede a la bocca,
acciò che poi sentenziando il torto
non s’abbia a dimostrar maligna o sciocca.
E s’è dever di giudicante accorto
a ciascun compartir ciò che gli tocca,
bella colei dichiara in fra le belle,
che di beltà sovrasta a l’altre stelle.
108. Poi che l’istesso dono a sé mi chiama,
il dritto il chiede, e la ragione il vole;
poi che del senno tuo la chiara fama
t’obliga ad esseguir quel ch’egli suole;
s’a quant’oggi da me si spera e brama
non corrisponderan le tue parole,
la giustizia dirò ch’ingiusta sia,
e che la verità dica bugia ».
109. Vinto il Pastor da parolette tali,
e da tanta beltà legato e preso,
a que’ novi miracoli immortali
senza spirito o polso è tutto inteso.
Amor gli ha punto il cor di dolci strali,
e di dolci faville il petto acceso:
onde con sospirar profondo e rotto
geme, langue, stupisce, e non fa motto.
no. Paride, a che sospiri? o perché taci?
Dove bisogna men, più ti confondi.
Tu désti a l’altre due pegni efficaci
di tua promessa; a questa or che rispondi?
Sono i silenzii tuoi nunzii loquaci
d’effetti favorevoli e secondi:
dunque del tuo tacer s'appaghi e goda,
se di ciò la cagion le torna in loda.
9
IL PALAGIO D’AMORE
13°
in. Pensa, né sa di quella schiera eterna
qual beltà con più forza il cor gli mova,
ché mentre gli occhi trasportando alterna
or a questa, or a quella, egual la trova.
Là dove pria s’affisa, e ’l guardo interna,
ivi si ferma, e quel c’ha innanzi approva.
Volgesi a l’una, e bella a pien la stima,
poscia a l’altra passando, oblia la prima.
112. Bella è Giunone, e ’l suo candore intatto
di perla orientai luce somiglia.
Ha leggiadro ogni moto, accorto ogni atto
del maggior Dio la bellicosa figlia.
Ma tien de la bellezza il ver ritratto
la Dea d’Amor nel volto e ne le ciglia;
e tutta, ovunque a risguardarla prenda,
da le chiome a le piante è senza emenda.
113. Un rossor dal candor non ben distinto
varia la guancia, e la confonde e mesce.
Il ligustro di porpora è dipinto,
là dove manca l’un, l’altra s’accresce.
Or vinto il giglio è da la rosa, or vinto
l’ostro appar da l’avorio, or fugge, or esce.
A la neve colà la fiamma cede,
qui la grana col latte in un si vede.
114. D’un nobil quadro di diamante altera
la fronte, e chiara al par del Ciel lampeggia.
Quivi Amor si trastulla, e quindi impera
quasi in sublime e spaziosa reggia.
Gli albori l'Alba, i raggi ogni altra sfera
da lei sol prende, e ’n lei sol si vagheggia,
il cui cristallo limpido riluce
d’una serena e temperata luce.
CANTO SECONDO
131
115. Le luci vaghe a meraviglia e belle
senz’alcun paragone uniche e sole
scorno insieme e splendor fanno a le stelle,
in lor si specchia, anzi s’abbaglia il Sole.
Da l’interne radici i cori svelle
qualor volger tranquillo il ciglio suole.
Nel tremulo seren, che ’n lor scintilla,
umido di lascivia il guardo brilla.
116. Per dritta riga da’ begli occhi scende
il filo d’un canal fatto a misura,
da cui fior che s’appressi, invola e prende
più che non porge, aura odorata e pura.
Sotto, ove l’uscio si disserra e fende
de l’erario d’Amore e di Natura,
apre un corallo in due parti diviso
angusto varco a le parole, al riso.
117. Né di sì fresche rose in ciel sereno
ambiziosa Aurora il crin s’asperse,
né di sì fini smalti il grembo pieno
Iride procellosa al Sole offerse,
né di sì vive perle ornato il seno
rugiadosa cocchiglia a l’Alba aperse,
che la bocca pareggi, ov’ha ridente
di ricchezze e d’odori un Oriente.
118. Seminate in più sferze, e sparse in fiocchi
sen van le fila innanellate e bionde
de’ capei d’or, ch’a bello studio sciocchi
lasciva trascuragine confonde.
Or su gli omeri vaghi, or fra’ begli occhi
divisati e dispersi errano in onde;
e crescon grazia a le bellezze illustri
arti neglette, e sprezzature industri.
132
IL PALAGIO D’AMORE
119. De le Ninfe del Ciel gli occhi e le guance
considerate, e le proposte udite,
mentr’ancor vacillante in dubbia lance
del concorso divin pende la lite,
più non vuole il Pastor favole o ciance,
più non cura mirar membra vestite:
ma più dentro a spiar di lor beltade
la curiosità gli persuade.
120. n Poi che del pari in quest’agon si giostra,
più oltre » dice « essaminar bisogna,
né diffinir la controversia vostra
si può, se ’l vel non s’apre a la vergogna ;
perché tal nel difuor bella si mostra,
che senza favellar dice menzogna.
Pompa di spoglie altrui sovente inganna,
e d’un bel corpo i mancamenti appanna.
121. Ciascuna dunque si discinga, e spogli
de’ ricchi drappi ogni ornamento, ogni arte,
perché la vanità di tali invogli
ne le bellezze sue non abbia parte. »
Giunon s’oppone, e con superbi orgogli
ciò far ricusa, e traggesi in disparte.
Minerva ad atto tal non ben si piega,
tien gli occhi bassi, e per modestia il nega.
122. Ma la prole del mar, che ne’ cortesi
gesti ha grazia ed ardir quant’aver potè:
« Esser vogl io la prima a scior gli arnesi »
prorompe « ed a scoprir le parti ignote !
Onde chiaro si veggia, e si palesi,
che non solo ho begli occhi, e belle gote,
ma ch’è conforme ancora, e corrisponde
al bello esterior quel che s’asconde ».
CANTO SECONDO
133
123. «Orsù» Palla soggiunse «ecco mi svesto,
ma pria che scinte abbiam le gonne e i manti,
fa’ tu, Pastor, ch’ella deponga il cesto,
se non vuoi pur che per magia t’incanti. »
Replicò l’altra: « Io non ripugno a questo,
ma tu, che di beltà vincer ti vanti,
perché non lasci il tuo guerriero elmetto?
e lo spaventi con feroce aspetto?
124. Forse che ’n te si noti e si riprenda
degli occhi glauchi il torvo lume hai scorno? •>
Impon Paride allor, che si contenda
senza celata, e senza cinto intorno.
Restò l’aspetto lor, tolta ogni benda,
senz’alcuna ornatura assai più adorno.
Sì di se stesse, e non d’altr’armi altere
nel grand'arringo entrar le tre Guerrere.
1 25 ■ Quando le vesti alfin que’ tre modelli
de la perfezzione ebber deposte,
e de’ lor corpi immortalmente belli
fur le parti più chiuse al guardo esposte,
vider tra l’ombre lor lumi novelli
le caverne più chiuse, e più riposte;
né presente vi fu creata cosa
che non sentisse in sé forza amorosa.
126. Il Sol ritenne il corso al gran viaggio,
inutil fatto ad illustrare il mondo,
perché vide offuscato ogni suo raggio
da splendor più sereno, e più giocondo.
Volea scendere in terra a fargli omaggio,
ambizioso pur d’esser secondo:
poi tra sé si pentì de l’ardimento,
e d’ammirarlo sol restò contento.
134
IL PALAGIO D’AMORE
127. Onorata la terra, e fatta degna
d’abitatrici sì beate e sante,
con bella gratitudine s’ingegna
di rispondere in parte a grazie tante.
Di bei semi d’Amor gravida impregna,
e partorisce a que’ begli occhi avante.
Ringiovenì Natura, e Primavera
germogliò d’ognintorno, ove non era.
128. Contro i lor naturali aspri costumi
generar dolci poma i pini irsuti.
Xacquer viole da’ pungenti dumi,
fiorir narcisi in su i ginebri acuti.
Scaturir mèle e corser latte i fiumi,
e ’l mar n'ebbe più ricchi i suoi tributi.
Sparser zaffiro i rivi, argento i fonti,
tur d’ostro i prati, e di smeraldo i monti.
129. Lascia il canto ogni augel de la foresta
per pascer gli occhi di sì lieto oggetto.
L’acque loquaci in quella rupe e ’n questa
fermaro il mormorio per gran diletto.
L’aere confuso di dolcezza, arresta
i sussurri de Tacque al lor cospetto,
frema al dolce spettacolo ogni belva,
e con attenzion tace la selva.
130. Tacea, se non che gli arbori felici
allievi de la prossima palude,
mossi talor da venticelli amici
bisbigliavano sol, ch’erano ignude.
E voi di tanta gloria spettatrici
sentiste altro velen, Vipere crude,
onde tornando ai vostri dolci amori,
vi saettaste con le lingue i cori.
CANTO SECONDO
135
131. Le Naiadi lascive, i Fauni osceni
abbandonano gli antri, escon de Tonde.
Ciascun per far con gli occhi ai bianchi seni
qualche furto gentil, presso s’asconde.
Vegeta Amor ne’ rozi sterpi, e pieni
d’Amor ridono i fior, l’erbe e le fronde.
Ai sassi, esclusi dal piacere immenso,
spiace sol non avere anima e senso.
132. Paride istesso in quelle gioie estreme
non vive no, se non per gli occhi soli.
Tanto eccesso di luce, il miser teme
non la vista, e la vita in un gl’involi.
Sguardo non ha per tanti raggi insieme,
né cor bastante a sostener tre Soli.
Triplicato balen gli occhi gli serra,
un Sole in Cielo, e tre ne vede in terra!
133. <( O Dei » dicea « che meraviglie veggio?
Chi de l’ottimo a trar m’insegna il meglio?
Son prodigi del Ciel ? sogno, o vaneggio?
Qual di lor lascio? o qual fra l’altre sceglio?
Deh poi che ’nvan, per far ciò che far deggio,
i sensi affino, e l’intelletto sveglio,
in tanto dubbio alcun de’ raggi vostri,
o bellezze divine, il ver mi mostri.
134. Perché non son colui che d’occhi pieno
la Giovenca di Giove in guardia tenne?
Avessi in fronte, avessi intorno almeno
quante luci la Fama ha ne le penne.
Fossi la Notte, o fossi il Ciel sereno,
poi che dal Ciel tanta bellezza venne,
per poter rimirar cose si belle
con tante viste quante son le stelle.
IL PALAGIO D’AMORE
136
135. Qual di santa onestà pudico lume
in quella nobil Vergine sfavilla ?
quanto di venerando ha l’altro Nume?
qual d’augusto decoro aria tranquilla?
Ma qual vago fanciul batte le piume
intorno a questa ? e che dolcezza stilla ?
Par che ritenga in sé dolce attrattivo
non so che di ridente, e di festivo.
136. Ciò però non mi basta, ancor sospeso
un ambiguo pensier m’aggira e move.
Mentr’or a questa, or son a quella inteso,
bramo il sommo trovar, né so ben dove.
S’io non vo’ di sciocchezza esser ripreso,
convienimene veder più chiare prove.
Fia d’uopo investigar meglio ciascuna,
e mirarle in disparte ad una ad una. »
137. Fa, così detto, allontanar le due
e soletta ritien seco Giunone,
la qual promette lui che, se le sue
bellezze a le bell’emule antepone,
principe alcun già mai non fia, né fue
più di scettri possente, e di corone;
e ch’ogni gente al giogo suo ridutta,
il farà possessor de l’Asia tutta.
138. Spedito di costei, Pallade appella,
che ’n aspetto ne vien bravo e virile,
e patteggiando gli promette anch’ella
gloria, cui non fia mai gloria simile;
e che se lei dichiarerà più bella,
farallo invitto in ogni assalto ostile,
chiaro ne l’armi, e sovra ogni guerriero
inclito di trofei, di palme altero.
CANTO SECONDO
*37
139. «No no, cosa in me mai forza non ebbe
da poter la ragion metter di sotto.
Tribunal mercenario il mio sarebbe,
s’oggi a venderla qui fossi condotto.
Giudice giusto parteggiar non debbe,
né per prezzo o per premio esser corrotto.
Pèrdon di vero dono il nome entrambi,
s’avien che con l’un don l’altro si cambi. »
140. Così risponde, e nel medesmo loco
accenna a Citherea che venga in campo.
Ella comparve, e di soave foco
nel teatro frondoso aperse un lampo.
Da quell’oggetto, incontr’a cui vai poco
a qual più freddo cor difesa o scampo,
non sa con pena di diletto mista
l’ingordo spettator sveller la vista.
141. La qualità di quelle membra intatte
quai descriver saprian Pittori industri ?
Rendono oscuro e l’alabastro e '1 latte,
vincono i gigli, eccedono i ligustri.
Piume di cigno e nevi non disfatte
son foschi essempi ai paragoni illustri.
Vedesi lampeggiar nel bel sembiante
candor d’avorio, e luce di diamante.
142. «Eccomi» disse «ornai fa’ che cominci
a specolar con diligenza il tutto,
e dimmi se trovar gli occhi de’ Linci
sapriano in beltà tanta un neo di brutto.
Ma mentre ogni mia parte e quindi e quinci
rimiri pur, per divenirne instrutto,
vo’ che gli occhi e gli orecchi in me rivolti,
le fattezze mirando, i detti ascolti.
IL PALAGIO D’AMORE
138
143. So che sei tal che signoria non brami,
né di scettri novelli uopo ti face,
ch’ad appagar del tuo desir le fami
il gran regno paterno è ben capace.
Da guerreggiar non hai, poi che i reami
e di Frigia e di Lidia or stanno in pace,
né dèi tu d’ozii amico e di riposi
altri conflitti amar, che gli amorosi.
144. Le battaglie d’Amor non son mortali,
né s’essercita in lor ferro omicida.
Dolci son l'armi sue, son dolci i mali,
senza sangue le piaghe, e senza strida.
Ma non pertanto ad imenei reali
denno aspirar le Villanelle d’Ida;
né dee povera Ninfa ardere il core
a chi potè obligar la Dea d’Amore.
145. Ad uom che d’alta stirpe origin traggo,
sposa non si convien di bassa sorte.
Nulla teco hanno a far nozze selvagge,
nulla confassi a te roza consorte.
Cedano a tetti illustri inculte piagge,
ceda l’umil tugurio a l’ampia Corte.
Curar non dee di contadini amori
Pastor fra’ Regi, e Rege in fra’ Pastori.
146. Tu fra quanti Pastor guardano ovili
sei per forma il più degno, e per etate;
ma le fortune tue rustiche e vili
mi fan certo di te prender pietate.
Peregrini costumi e signorili,
pregio di gioventù, fior di beltate
deh che giovano a te, se gli anni verdi
e te medesmo inutilmente perdi ?
CANTO SECONDO
139
147. Perché tra boschi, e rupi, e piante, e sassi
in questa solitudine romita
così senz’alcun prò corromper lassi
la Primavera tua lieta e fiorita ?
Perché più tosto a ben menar non passi
in qualche città nobile la vita,
cangiando in letti aurati erbette e fiori,
e ’n donzelle e scudier pecore e tori ?
148. Giovinetta sì bella in Grecia vive,
che di bellezza ogni altra Donna eccede;
né sol fra le Corinthie e fra l’Argive
questo publico onor le si concede,
ma poco inferior tiensi a le Dive,
e quasi in nulla a me medesma cede.
Questa agli studi miei forte inclinata,
ama amica d’Amor d’essere amata.
149. Lasciò Giove di Leda il ventre greve
di questo novo Sol, di cui favello,
quando in sen le volò veloce e lieve
trasfigurato in nobil Cigno e bello.
Candida e pura è si, com’esser deve
fanciulla nata d’un sì bianco augello.
Molle e gentil, come nutrita a covo
dentro la scorza tenera d’un ovo.
150. Ha tanta di beltà fama costei,
tanto poi da l’effetto il grido è vinto,
che Theseo il gran campion s’armò per lei,
e lascionne di sangue il campo tinto.
Chiedeano i felicissimi imenei
d’Argo i Principi a prova, e di Corinto,
ma Menelao fra gli altri il più gradito
parve d’Helena sol degno marito.
140
IL PALAGIO D’AMORE
151. Pur se ti cal di conquistarla, e vuoi
con un pomo mercar tanto diletto,
la ricompensa de' servigi tuoi
fìa di Donna sì bella il grembo e '1 letto.
Al primo incontro sol degli occhi suoi
farti di lei signore io ti prometto.
Farò ch’abbandonato il lido greco,
dovunque più vorrai, ne venga teco.
152. Là di Lacedemonia a l’alta reggia
tu te n’andrai per via spedita e corta.
Ingégnati sol tu ch’ella ti veggia,
lascia cura del resto a la tua scorta.
In tutto ciò ch’un tanto aitar richeggia,
Amor fido ministro, io duce accorta,
co’ suoi compagni e con le serve mie
la verremo a dispor per mille vie •>.
153. Qui tacque, e fiamma de’ begli occhi uscio
atta a mollir del Caucaso l’asprezza,
ond’egli ogni altro bel posto in oblio
a quell’incomparabile bellezza,
sforzato dal poter di quel gran Dio
ch’ogni cor vince, ogni riparo spezza,
baciato il pomo, e ’n lei le luci affisse,
reverente gliel porse, e così disse:
154. «O bella oltra le belle, o sovra quante
ha belle il Ciel bellissima Ciprigna;
foco gentil d’ogni felice amante,
madre d’ogni piacer, stella benigna;
sola ben degna a cui s’inchini avante
l’Invidia istessa perfida e maligna;
se null’altra beltà la vostra agguaglia,
ragion è ben, che sua ragion prevaglia.
CANTO SECONDO
I 4 I
155. Se bene, a sì gran luce umil farfalla,
il più di voi mi taccio, e '1 men n’accenno,
audace il dico, e so che ’n me non falla
dal sentier dritto traviato il senno.
Perdonimi Giunon, scusimi Palla,
gareggiar vosco, o disputar non donno.
Giudico, che voi sola al mondo siate
l’Idea, non che la Dea de la beltate.
156. Basta ben, ch’a la gloria a voi concessa
fu lor dato poggiar pur col pensiero;
né fur lor poco onor, che fusse messa
la certezza in bilancio, in dubbio il vero.
Or di mia bocca la Giustizia istessa
publica il suo parer chiaro e sincero.
L’obligo suo per la mia mano offerto
questo pomo presenta al vostro merto. »
157. Atteggiata di gioia, ebra di fasto
Venere il prende, indi volgendo i lumi:
« Cedetemi l’onor del gran contrasto »
disse ridente ai duo scornati Numi.
« Confessa pur, Giunon, ch’io ti sovrasto,
e ch’a torto pugnar meco presumi.
Né spiaccia a te, Bellona, a vincer usa,
di chiamarti da me vinta e confusa.
15S. Pensò l’una di voi di superarmi
per esser forse in Ciel somma Reina.
E credea l’altra con sue lucid’armi
di spaventar la mia beltà divina.
Ma poco vi giovò, per quanto parmi,
opporsi al ver, ch’ai paragon s’affina.
E sì possenti Dee vie più m’aggrada
senza scettro aver vinte, e senza spada.
I 4 2
IL PALAGIO D’AMORE
159. Venite Grazie mie, venite Amori,
vigorose mie forze, invitte squadre.
Incoronate de’ più verdi allori
la vostra ornai vittoriosa madre.
Ite cantando in versi alti e sonori,
e rispondano al suon l’aure leggiadre:
Viva Amor, viva Amor, che ’n Cielo e ’n terra
de la pace trionfa, e de la guerra. »
160. Mentre intento il Pastore ascolta e mira
la bella a cui ’l bel pregio è tocco in sorte,
le due sprezzate Dee vèr lui con ira
volgon le luci dispettose e torte.
Orgoglio ogni lor atto, e sdegno spira,
quasi ruina minacciante, e morte.
Giunon però dissimular non potè
la rabbia sì, che non la sfoghi in note.
161. «Misero, e come del suo proprio velo
il cieco Arder » dicea « gli occhi t’involse,
sì che de la ragion perduto il zelo,
il bel lume del ver scorger ti tolse?
Te dunque scelse il gran Rettor del Cielo?
Te deputar per Giudice ne volse,
quasi un uomo il miglior de l’Universo,
perché poi si scoprisse il più perverso ?
162. Vie più che gloriosa, a te funesta
sarà (sii certo) elezzion sì fatta.
E sappi pur, che quest’onore, e questa
gloria, che m’abbi al tuo giudicio tratta,
il vituperio fia de la tua gesta,
e l’infamia immortai de la tua schiatta.
Quella istessa beltà malvagia e ria
che fu il tuo premio, il tuo supplicio ha.
CANTO SECONDO
M3
163. Quella impudica e disonesta putta,
che dee con dolce incendio arderti il core,
ancor sarà de la tua patria tutta
e di tutto il tuo regno ultimo ardore.
Caduto Ilio per te, Troia distrutta
(così ferisce, e così scalda Amore)
sarà, de Tarmi e de le fiamme gioco,
campo di sangue, e Mongibel di foco.
164. Tempo verrà, che detestando il fato
perch’abbi i rai del Sol goduti e visti,
il sen bestemmierai che t’ha portato,
e l’ora e ’l punto ch’a la luce uscisti.
Il rimorso e ’l dolor de Tesser nato
fia ’l minor mal, che la tua vita attristi.
De l’aver sostenuto un sì vii pondo
farà sol la memoria infame il mondo.
165. Le stelle, che tal peste hanno concetta,
l’aure, ch’ai suo natal nutrita l’hanno,
quelle congiureransi a la vendetta,
queste il proprio fallir sospireranno.
Natura, che per te fia maledetta,
t’aborrirà con rabbia e con affanno;
e farà che nel fine albergo e fossa
neghi a l’anima il Ciel, la terra a Tossa. »
166. Dopo la Dea di Samo, a lui si volta
con cruccioso parlar l’altra più casta,
né la superbia e Tira al petto accolta
la modestia del viso a coprir basta.
« Lingua bugiarda, e temeraria, e stolta »
dice con fiera man crollando Tasta
« ben si conforma il tuo decreto iniquo
al cor fellone, ed al pensiero obliquo!
144
IL PALAGIO D’AMORE
167. Ah così ben distribuisci i premi
preso a vii ésca di fallaci inganni ?
Così mi paghi i gloriosi semi
ch’io t’infusi nel cor fin da’ prim’anni?
Che la lascivia essalti, e ’l valor premi,
t- ’l Vizio abbracci, e la Virtù condanni ?
E per sozza mercé di molli vezzi
Onor rifiuti, e Castità disprezzi?
168. àia per cotesta tua data in mal punto
sentenza detestabile e proterva,
non vien già la mia stima a mancar punto,
ch’io per tutto sarò sempre Minerva.
Se perdo il pomo, in un medesmo punto
il merto e la ragion mi si conserva,
a te ’l danno col biasmo: e fia ben pronta
l’occasi'on di vendicar quest’onta.
6 q. Sarà questo tuo pomo empio e nefando
seminario di guerre e di ruine.
Che farai? che dirai, misero, quando
cotante ti vedrai stragi vicine ?
Pentito alftn piangendo e sospirando,
t’accorgerai con tardo senno alfine
quant'erra quei che dietro a scorte infide,
la ragion repulsando, al senso arride. »
170. Al parlar de la coppia altera e vaga
l'infelice Pastor trema qual foglia,
c de l’audacia sua pentito, paga
il passato piacer con doppia doglia,
la qual ne’ suoi sospir par che presaga
strani infortunii annunziar gli voglia.
Ma partite le due, Venere bella
sòavissimamente gli favella.
CANTO SECONDO
145
171. « Paride caro, e qual timor t’assale?
S'è teco Amor, di che temer più dèi?
Non sai, che ’n su la punta del suo strale
tutti i trionfi stan, tutti i trofei ?
ch’appo ’l valor che sovr’ogni altro vale
sono impotenti i più potenti Dei ?
e che del foco suo l’invitta forza
di Giove istesso le saette ammorza?
172. Quell’unica beltà, ch’io già ti dissi,
ti farà fortunato in fra le pene.
Le chiome, ch’indorar porian gli Abissi,
fian de l’anima tua dolci catene.
Quelle, possenti a rischiarar l’ecclissi
(Idoli del tuo cor) luci serene
ti faranno languir di tal ferita,
ch’avrai sol per morir cara la vita.
173. Sì ben d’ogni bellezza in quel bel volto
epilogato il cumulo s’unisce,
e sì perfettamente insieme accolto
quanto ha di bel la terra in lei fiorisce,
che l’istessa Beltà vinta di molto
il paraggio ne teme, e n’arrossisce;
e d’aver lavorato un sì bel velo
pugnan tra loro e la Natura e ’l Cielo.
174. Or non può sola imaginata l’ombra
de la figura che t’accenno or io,
con quella idea che nel pensier t’adombra,
felicitar per sempre il tuo desio?
Sì sì, sostien' l'alta speranza, e sgombra
dal petto ogni timor, Paride mio!
Sapendo che d’Amor la genitrice
di tutto il suo poter t’è debitrice. »
IO
M r >
IL PALAGIO D’AMORE
175. A quest’ultimo motto ancelle e paggi,
Grazie ed Amori intorno a lei s’uniro,
e ’l carro cinto di purpurei raggi
spalmando per lo sferico zaffiro,
la portar da que’ luoghi ermi e selvaggi
sovra l’ali de’ Cigni al terzo giro,
e di par con gli augei bianchi e canori
sen gir cantando, e saettando fiori.
176. Qual meraviglia poi, ch’alcuno avezzo
1 piati a giudicar de’ cittadini
reai ministro, per lusinga o prezzo
ila la via del dever talor declini,
se ’n virtù sol d’un amoroso vezzo
costui trapassa i debiti confini ?
e d’un futuro e tragico piacere
il promesso guadagno il fa cadere?
177. Che non potran la face e l’arco d’oro?
Qual cor non fia da le lor forze oppresso,
se ’l sacro olivo e ’l sempiterno alloro
inducono a sprezzar Paride istesso?
e burnii mirto ei preferisce loro,
anzi più tosto il funeral cipresso :
poi che ’l suo nome, onde si canta e scrive,
per tante morti immortalato vive? —
178. Tenea l’orecchie il bell’Adone intente
le lodi ad ascoltar di Citherea,
e si già figurando entro la mente
la bella ancor non conosciuta Dea.
Ma giunti al loco, ove del dì cocente
Clizio sottrarsi al gran calor devea,
dal benigno Pastor tolta licenza,
con pensier di tornar, fece partenza.
CANTO SECONDO
M7
179. Tolto a pena commiato, un caso estrano
(mercé d’Amor, che lo scorgea) gli avenne.
Prese un cervo a seguir, che per quel piano
parve in fuggendo aver ne' piè le penne;
e poi ch’assai seguito ei l’ebbe invano,
stanco, il passo, e smarrito, alfìn ritenne
là dove molto da villaggi e case,
e da gregge e pastor lunge rimase.
L ’ INN A M ORAMEMTO
CANTO TERZO
A L L E G O R I A
In Amore, che ferisce il cuore alla madre, si accenna che questo
irreparabile affetto non perdona a chi che sia. In Venere, che s’in¬
namora d’Adone addormentato, si dinota quanto possa in un
animo tenero la bellezza, eziandio quando ella non è coltivata.
Nella medesima, che volendo guadagnarsi l’affezzion d’Adone
cacciatore, prende la sembianza della Dea cacciatrice, e d’impu¬
dica si trasforma in casta, s’inferisce, che chiunque vuole adescare
altrui, si serve di que’ mezi a’ quali conosce essere inclinato Tanimo
di colui che disegna di tirare a sé. E che molte volte la lascivia
vien mascherata di modestia, né si trova femina così sfacciata,
ch’almeno in su i principii non si ricopra col velo della onestà.
Nella Rosa tinta del sangue di essa Dea, ed a lei dedicata, si di¬
mostra che i piaceri venerei son fragili e caduchi ; e sono il più
delle volte accompagnati da aspre punture, o di passione veemente,
o di pentimento mordace.
ARGOMENTO
Mentre che stanco Adon dorme in su ’l prato,
la bella Citherea n’arde d’amore.
Egli si desta, e pien di pari ardore
vassene seco invèr l’ostel beato.
1. Perfido è ben Amor, chi n’arde il sente :
ma chi è che noi senta, o che non n’arda?
E pur la cieca e forsennata gente
segue il suo peggio, e ’l proprio mal non guarda.
Fascino dilettoso, ond’uom sovente
pasce, credulo augello, ésca bugiarda.
Vede tese le reti, e non le fugge,
né vorria non voler quel che lo strugge.
2. Corre vaga Farfalla al chiaro lume,
solca incauto Nocchier le placid’onde:
quella nel fiero incendio arde le piume,
questo assorbon talor Tacque profonde.
Spesso arsenico in oro, e per costume
rigido tra bei fiori angue s’asconde;
e spesso in dolce pomo ed odorato
suol putrido abitar verme celato.
CANTO TERZO
153
3. Così spada lucente, arco depinto
con la pittura e con la luce alletta:
ma se l’una è trattata, e l’altro è spinto,
l’una trafige poi, l’altro saetta.
Così nuvolo ancor di raggi cinto
fiamme nel seno e fulmini ricetta;
e con dorato e luminoso crine
minaccia empia Cometa alte ruine.
4. Sirena, Hiena, che con falsa voce
e con canto mortale altrui tradisce.
Foco coverto, ch’assecura e coce,
aspe che dorme, e '1 tosco in sen nutrisce.
Spietato lusinghier, ch’alletta e nóce,
pietoso micidial, ch’unge e ferisce,
cortese carcerier, ch’a’ rei di morte,
quando chiusi gli ha in ceppi, apre le porte.
5. Dura legge, se legge esser può dove,
oppressa la ragion, regna la voglia,
e l’alma folle in strane guise e nove
per vestirsi d’altrui, di sé si spoglia.
Crudo Signor, ch’a forza i sensi move
a procacciarsi sol tormento e doglia.
Fère come la Morte, e non perdona,
senza distinguer mai stato o persona.
6. O del mondo Tiranno e di Natura,
se del materno duol gioisci e godi,
qual fia che schermo o scampo alma secura
abbia da le tue forze, o da le frodi?
Lasso, e di me che fia, che ’n prigion dura
vivo, e scioglier del cor non spero i nodi,
fin che quel nodo ancor non si discioglia,
che tien legata l’anima a la spoglia?
154
LINNAMORAMENTO
7. Era ne la stagion che ’l Can celeste
fiamme essala latrando, e l’aria bolle,
ond’arde e langue in quelle parti e ’n queste
il fiore e l’erba e la campagna e ’l colle;
e ’l Pastor per spelonche e per foreste
rifugge a l’ombra fresca, a l’onda molle,
mentre che Febo a l’animal feroce,
che fu spoglia d'Alcide, il tergo coce.
8. L’olmo, il pino, l’abete, il faggio e l’orno,
già le braccia e le chiome ombrosi e spessi,
che dar su ’l fil del più cocente giorno
agli armenti solean grati recessi,
a pena or nudi, e senza fronde intorno
fanno col proprio tronco ombra a se stessi ;
e mal secura da l’eterna face
ricovra agli antri suoi l’aura fugace.
g. Già varcata ha del dì la meza terza
su ’l carro ardente il luminoso Auriga,
e i volanti corsier, ch’ei punge e sferza,
tranno al mezo del Ciel l’aurea quadriga.
Tepidetto sudor, che serpe e scherza,
al bell’Adon la bella fronte irriga;
e ’n vive perle e liquide disciolto
cristallino ruscel stilla dal volto.
io. Sotto l’arsura de l'estiva lampa,
che dal più alto punto il suol percote,
tutto anelante il Garzonetto a vampa,
e ’1 grave incendio sostener mal potè.
Purpureo foco gli colora e stampa
di più dolce rossor le belle gote,
che ’l Sol, che secca i fiori in ogni riva,
in que’ prati d’Amor vie più gli aviva.
CANTO TERZO
155
11. Mentre che pur, dov’egli arresti il passo,
parte cerca più fresca, e meno aprica,
ode strepito d’acque a piè d’un sasso,
vede chiusa vailetta al Sol nemica.
Or questo, il corpo a sollevar già lasso
e travagliato assai da la fatica,
seggio si sceglie, e stima util consiglio
qui depor l’armi, e dar ristoro al ciglio.
12. Fontana v’ha, cui stende intorno oscura
l’ombra sua protettrice annosa pioppa,
dove larga nutrice empie Natura
di vivace licor marmorea coppa.
Latte fresco e soave è l’onda pura,
un antro il seno, ed un cannon la poppa.
A ber su gli orli i distillati umori
apron l’avide labra erbette e fiori.
13. L’arco rallenta e de l’usato pondo,
al fianco ingiurioso, il fianco alleggia,
e '1 volto acceso, e '1 crin fumante e biondo
lava nel fonte che ’n su ’l marmo ondeggia.
Poi colà dove il rezo è più profondo,
e d’umido smeraldo il suol verdeggia,
a l’erba in grembo si distende, e l’erba
ride di tant’onor lieta e superba.
14. Il gorgheggiar de’ garruletti augelli,
a cui da’ cavi alberghi Eco risponde;
il mormorar de’ placidi ruscelli,
che van dolce nel margo a romper Tonde;
il ventilar de’ tremuli arboscelli,
dove fan l’aure sibilar le fronde,
Tallettàr sì, che ’n su le sponde erbose
in un tranquillo oblio gli occhi compose.
l’innamoramento
Non lunge è un colle, che l’ombrosa fronte
di mirti intreccia, e ’l crin di rose infiora,
e del Nilo fecondo il chiuso fonte
vagheggia, esposto a la nascente Aurora.
E quando rosseggiar fa l’Orizonte
l’aureo carro del Sol, che i poggi indora,
sente a l’aprir del mattutino Eoo
d’Eto i primi nitriti, e di Piroo.
A piè di questo i suoi giardini ha Clori,
e qui la Dea d'Amor sovente riede
a córre i molli e rugiadosi odori
per far tepidi bagni al bianco piede.
Ed ecco sovra un talamo di fiori,
qui giunta a caso, il Giovinetto vede.
Ma mentr’ella in Adon rivolge il guardo,
Amor crudele in lei rivolge il dardo.
Per placar quel feroce animo irato
Venere sua, ch’ai par degli occhi l’ama,
con l’ésca in man d’un picciol globo aurato
gonfio di vento, a sé da lunge il chiama.
Tosto che vede il vagabondo alato
la palla d’or, di possederla brama,
per poter poi con essa in chiuso loco
sfidar Mercurio e Ganimede a gioco.
Movesi ratto, e ’n spaziosa rota
gli omeri dibattendo, ondeggia ed erra.
Solca il ciel con le piume, in aria nuota,
or l’apre e spiega, or le ripiega e serra.
Or il suol rade, or vèr la pura e vota
più alta regi'on s’erge da terra.
Alfin colà, dove Ciprigna stassi
china rapido l’ali, e drizza i passi.
CANTO TERZO
157
19. Ella il richiama, egli rifugge, e poi
torna e ’ntorno le scherza alto su i vanni.
Anime incaute e semplicette o voi,
non sia chi creda a que’ soavi inganni.
Fuggite (oimè) gli allettamenti suoi,
insidie i vezzi, e son gli scherzi affanni.
sempre là dov’ei ride è strazio acerbo.
O Dio quanto è crudel, quanto è superbo!
20. Questa dolce Magia, che per usanza
l’anime nostre a vaneggiar sospinge,
tal in sé di piacer ritien sembianza,
che quasi in amo d’or le prende e stringe.
Or se tanta han d’Amor forza e possanza
soli gli effetti allor ch’inganna e finge,
deh che fora a mirar viva e sincera
di quel corpo immortai la forma vera?
21. Di splendor tanto e si sereno ognora
quel bel corpo celeste intorno è sparso,
che perderebbe ogni altro lume e fora
(senza escluderne il Sol) debile e scarso,
Stupor non sia, se Psiche (e chiusi ancora
avea gli occhi dal sonno) il cor n’ebb’arso
e vide innanzi a quella luce eterna
vacillando languir l’aurea lucerna!
22. Oh se nel fosco e torbido intelletto
di quella luce una scintilla avessi,
sì che, come scolpito il chiudo in petto,
così scoprirlo agli occhi altrui potessi,
farei veder nel suo giocondo aspetto
di bellezze divine estremi eccessi;
onde, scorgendo in lui tanta bellezza,
ragion la madre ha ben, se l’accarezza.
l’innamoramento
158
23. Bionda testa, occhi azurri, e bruno ciglio,
bocca ridente e faccia ha dilicata,
né su la guancia, ove rosseggia il giglio,
spunta ancor la lanugine dorata.
Piume d’oro, di bianco, e di vermiglio
quinci e quindi su gli omeri dilata;
ed ha come Pavon le penne belle
tutte fregiate d'occhi di donzelle.
24. Molli d’ambrosia, e di rugiada ha sparte
le chiome e l’ali, e ’ngarzonisce a pena.
Bendato, e senza spoglie, il copre in parte
sol una fascia, che di cori è piena.
Arma la man con infallibil arte
d’arco, di strai, di face, e di catena.
L’accompagna in ogni atto il riso, il gioco,
e somiglia al color porpora e foco.
25. Corre ingordo a l’invito, e colmo un lembo
di fioretti e di fronde in prima coglie,
poi poggia in aria, e su ’l materno grembo
in colorita grandine lo scioglie;
ed ei nel molle ed odorato nembo
chiuso, e tra’ fiori involto e tra le foglie,
piover si lassa leggiermente, e sovra
la bellissima Dea posa e ricovra.
26. Tal di Donna reai delizia e cura
picciolo can, che le sta sempre innanzi,
e de le dolci labra ha per ventura
di ricevere i baci e ber gli avanzi,
se con cenno o con cibo l’assecura
la bella man, che lo scacciò pur dianzi,
scote la coda, e saltellando riede
umilemente a rilambirle il piede.
CANTO TERZO
*59
27. Pargoleggiando il bianco collo abbraccia,
bacia il bel volto e le mammelle ignude.
Ride per ciancia, e la vermiglia faccia
dentro il varco del petto asconde e chiude.
Ella, ch’ancor non sa quai le minaccia
l’atto vezzoso acerbe piaghe e crude,
colma di gioia tutta, e di trastullo,
si stringe in grembo il lusinghier fanciullo.
28. Stretto in grembo si tien la Dea ridente
il dolce peso entro le braccia assiso.
Su ’l ginocchio il solleva, e lievemente
l’agita, il culla, e se l’accosta al viso.
Or degli occhi ribacia il raggio ardente,
or de la bocca il desiato riso:
né sa che gonfia di mortai veleno
una Serpe crudel si nutre in seno.
29. Le colorite piume e le bell’ali,
che '1 volo scompigliò, l’aura disperse,
e le chiome incomposte e diseguali
polisce con le man morbide e terse.
Ma l’arco traditor, gl’infidi strali,
onde dure talor piaghe sofferse,
non s’arrischia a toccar, ché sa ben ella
qual contagio hanno in sé l’aspre quadrella.
30. Seco però, mentre che ’n braccio il tiene,
d’alquanto divisar pur si compiace.
— Figlio, dimmi — dicea — poi che conviene
ch’esser tra noi non deggia altro che pace,
perché prendi piacer de l’altrui pene?
Come sei sì protervo, e tanto audace,
ch’ognor con l’armi tue turbi e molesti
la quiete del Cielo, e de' Celesti ? —
l’innamoramento
160
31. — Madre — risponde Amor —, s’erro talora,
ogni error mio per ignoranzia accade.
Tu vedi ben, che son fanciullo ancora:
condona i falli a l’immatura etade. —
— Tu fanciul? — replicò Venere allora. —
Chi si stolto pensier ti persuade ?
Coetaneo del Tempo, e nato avante
a le stelle ed al Ciel, t’appelli infante?
32. Forse, perché non hai canute chiome,
te stesso in ciò semplicemente inganni ?
E ti dài pur di pargoletto il nome,
quasi l’astuzia poi non vinca gli anni! —
— E qual mia colpa — Amor soggiunge — o come
altri da me riceve offese o danni ?
Perché denno biasmar l’inique genti
sol di gioia ministre armi innocenti ?
33. In che pecco qualora altrui mostr’io
le cose belle? o che gran mal commetto?
Non accusi alcun l’arco o il foco mio,
ma se medesmo sol, ch’erra a diletto.
Se ’l tuo gran Padre, o qualunqu’altro Dio
si lagna a le mie forze esser soggetto,
di’ che ’l dolce non curi, il bel non brami,
e chi d’Amor non vuol languir, non ami. —
34. Ed ella: — Or tu, ch’ognor tante e sì nove
spieghi superbo in Ciel palme e trofei,
tu, che con alte e disusate prove
puoi tutti a senno tuo domar gli Dei,
tu, che non pur del sommo istesso Giove
vittorioso e trionfante sei,
ma da’ tuoi strali ancor pungenti e duri
me che ti generai non assecuri :
CANTO TERZO
161
35. dimmi, ond’avien che sol, pur come spenta
abbi la face, e la faretra vota,
contro Minerva è la tua man sì lenta
che non l’arda già mai, né la percota?
Che sol fra tanti un cor piaghe non senta,
che gli sia la tua fiamma in tutto ignota,
soffrir non posso; o le facelle e i dardi
depon’ per tutti, o lei ferisci ed ardi. —
36. Ed egli: — Oimè, costei di sì tremendo
sembiante arma la fronte, e sì severo,
che qualor per ferirla io l’arco tendo
temo l’aspetto suo virile e fiero.
Poi del grand’elmo ad or ad or scotendo
il minaccioso ed orrido cimiero,
di sì fatto terror suole ingombrarmi
ch’a la stupida man fa cader l’armi.
37. Ed ella a lui: — Pur Marte era più molto
feroce e formidabile di questa;
da’ tuoi lacci però non n’andò sciolto,
malgrado ancor de la terribil cresta. —
Ed egli a lei: — Marte il rigor del volto
placa sovente, e mi fa gioco e festa,
m’invita ai vezzi, ad abbracciarmi corre:
l’altra sempre mi scaccia, e sempre aborre.
38. Talor, ch’osai d’avicinarmi alquanto,
giurò per quel Signor che regge il mondo,
o con l’asta o col piè, rotto ed infranto
precipitarmi a l’Herebo profondo.
D’angui chiomato ha poi nel petto ahi quanto
squallido in vista un teschio e furibondo,
del cui ciglio uscir suol tanto spavento
che ’n mirarlo agghiacciar tutto mi sento. —
II
162
LINNAMORAMENTO
39. — Odi — dic’ella — odi sagace scusa,
sì certo sì. Dunque paventi e tremi
nel sen di Palla a risguardar Medusa,
e pur di Giove il folgore non temi ?
Ma dimmi, or perché ’l cor d’alcuna Musa
non mai del loco tuo riceve i semi ?
Queste sguardo non han rigido e crudo,
né del Gorgone il mostruoso scudo! —
40. — Vero dirotti — egli ripiglia —: io queste
non temo no, ma reverente onoro.
Accompagnata da sembianze oneste
virginal pudicizia io scorgo in loro.
Poi sempre intente al bel cantar celeste,
o in studio altro occupato è il sacro coro;
tal che non mai, se non ne’ molli versi,
da conversar tra lor varco m’apersi. —
41. Ed ella allori — Poi che ritiene a freno
tanto furor qui zelo, ivi paura,
vorrei saver, perché Diana almeno
da le quadrella tue vive secura? —
— Né di costei — risponde — il casto seno
vaglio a ferir, rivolta ad altra cura.
Fugge per monti, né posar concede,
sì ch’ozio mai la signoreggi, al piede.
42. Ben ho quel chiaro Dio, che di Latona
seco nacque in un parto, Arciero anch’esso,
dico quel che di foco il crin corona,
piagato e d’altra fiamma acceso spesso. —
Così mentre con lei scherza e ragiona,
il tratto studia e le si stringe appresso;
e tuttavia dialogando seco
coglie il tempo a colpir l’occhiuto Cieco.
CANTO TERZO
163
43. Dal purpureo turcasso, il qual gran parte
de le canne pungenti in sé ricetta,
(parve caso improvviso, e fu bell’arte)
la punta usci de la fatai saetta.
Punge il fianco a la madre, indi in disparte
timidetto e fugace il volo affretta.
In un punto inedesmo il fier Garzone
ferille il core, ed additolle Adone.
44. Gira la vista a quel ch’Amor l’addita,
ché scorgerlo ben può, sì presso ei giace,
ed — Oimè — grida — oimè, ch’io son tradita,
figlio ingrato e crudel, figlio fallace!
Ahi qual sento nel cor dolce ferita ?
Ahi qual ardor, che mi consuma e piace ?
Qual beltà nova agli occhi miei si mostra ?
A Dio Marte, a Dio Ciel, non son più vostra.
45. Péra quell’arco tuo d’inganni pieno,
péra, iniquo fanciul, quel crudo dardo.
Tu prole mia? no no, di questo seno
no che mai non nascesti, empio bastardo!
Ne mi sovien tal foco e tal veleno
concetto aver, per cui languisco ed ardo.
Ti generò di Cerbero Megera,
o de l’oscuro Chao la Notte nera. —
46. Si svelle in questo dir con duolo e sdegno
lo strai, ch’è nel bel fianco ancor confitto,
e tra le penne e ’l ferro in mezo al legno
trova il nome d’Adon segnato e scritto.
Vólto a la piaga poi l’occhio e l’ingegno,
vede profondamente il sen trafitto,
e sente per le vene a poco a poco
serpendo gir licenzioso foco.
164
l’innamoramento
47. Ben egli è ver che quella fiamma è tale
che non senza piacer langue e sospira ;
e vaga pur del non curato male,
mille in sé di pensier machine aggira.
Or si rivolge al velenoso strale,
or l’ésca del suo ardor lunge rimira;
e ’n questi accenti a le confuse voglie
con un Ahi! doloroso il groppo scioglie:
48. — Ahi ben d’ogni mortai femina vile
ornai lo stato invidiar mi deggio,
poi che di furto e con insidia ostile,
da chi meno il devria, schernir mi veggio!
Mi ferisce il suo strai, m’arde il focile,
né de le mie sventure è questo il peggio:
ch’alfin le fiamme sue son tutte spente,
se la madre d’Amore amor non sente.
40. Ma ch’io soggiaccia a sì perversa sorte
che le bellezze mie si goda un fabro?
un aspro, un rozo, un ruvido consorte,
inculto, irsuto, affumigato e scabro?
e che legge immortai peggior che morte
mi costringa a baciar l’ispido labro?
labro, assai più ne Torride fornaci
atto a soffiar carbon, ch’a porger baci ?
50. un, ch’altro unqua non sa, che col martello
tempestando l’ancudini infernali
le caverne assordar di Mongibello
per temprar del mio Padre i fieri strali,
che dan cadendo in questo lato e ’n quello
vano spavento ai semplici mortali,
e del maestro lor sembianti espressi,
com’è torto il suo piè, son torti anch’essi ?
CANTO TERZO
165
51. Deh quante volte audacemente accosta
importuno a la mia l’adusta faccia,
e quella man, c’ha pur allor deposta
la tanaglia e la lima, in sen mi caccia:
ed io, malgrado mio, son sottoposta
ai nodi pur de l’aborrite braccia,
ed a soffrir che mentre ei mi lusinga,
la fuligine e ’l fumo ognor mi tinga!
52. Pallade (oh saggia lei!) quantunque meco
non s’agguagli in beltà, ne fe’ rifiuto.
Né Giove il volse in Ciel, ma nel più cieco
fondo il dannò d’un baratro perduto;
onde piombando in quell’arsiccio speco
l’osso s’infranse, e zoppicò caduto.
E pur zoppo ne venne entro il mio letto
l’altrui pace a turbar col suo difetto!
53. Già non m’è già di mente ancor uscita
la rimembranza de l’indegne offese.
Altamente nel cor mi sta scolpita
l’insidia, che si perfida mi tese,
quando a la rete di diamante ordita
questo sozzo villan nuda mi prese,
follemente scoprendo ai Numi eterni
de le mie membra i penetrali interni.
54. Un rabbioso dispetto ancor sent’io
del grave oltraggio onde delusa fui,
poi che diè con sua infamia e biasmo mio
vergognosa materia al riso altrui.
Or non si dolga no chi mi schermo,
se l’onta che mi fe’, ricade in lui.
S’ei volse cancellar corno con scorno,
io saprò vendicar scorno con corno!
i66
l’innamoramento
55. L’Aurora innanzi dì si cala in terra
per abbracciar d’Atene il Cacciatore.
La Luna a meza notte il ciel disserra
per vagheggiar l’Arcadico Pastore.
Io perché no? Se ’l mio desir pur erra,
quella somma beltà scusa ogni errore.
Vo’ che ’l garzon, ch’io colà presso ho scorto,
sia vendetta a l’ingiuria, emenda al torto. —
56. Qui tace, e poi qual Cacciatrice al guado,
colà correndo a l’alta preda anela.
Vesta di lieve e candido zendado
le membra assai più candide le vela,
che, com’opposto al Sol leggiero e rado
vapor, le copre sì, ma non le cela.
Vola la falda intorno abile e crespa,
Zefiro la raccorcia, e la rincrespa.
57. Sudata da l’artefice marito
su l’omero gentil fibbia di smalto
con branche d’oro lucido e forbito
sospende ad un zaffir l'abito in alto.
L’arco, onde suole ogni animai ferito,
mercé de la man bella, ambir l’assalto,
con la faretra ch’ai bel fianco scende,
ozioso e dimesso al tergo pende.
58. Sotto il confin de la succinta gonna
(salvo il bel piè, ch’ammanta aureo calzare)
de Luna e l’altra tenera colonna
l’alabastro spirante ignudo appare.
Non vide il mondo mai (se la mia Donna
non l’agguaglia però) forme sì care.
Da lodar, da ritrar corpo sì bello
Thracia canto non ha, Grecia pennello.
CANTO TERZO 167
59. Voi Grazie voi, che dolcemente avete
nel nèttare del Ciel le labra infuse,
e ne’ lavacri più riposti siete
nude le sue bellezze a mirar use;
voi snodar la mia lingua, e voi potete
narrar di lei ciò che non san le Muse.
Intelletto terreno al Ciel non sale,
né fa volo divin penna mortale.
60. Pastor di Troia, oh te felice allora
che senza vel tanta beltà mirasti!
E saggio te, quanto felice ancora,
che ’l pregio a lei d’ogni beltà donasti.
Beltà che gli occhi e gli animi innamora,
Diva de le bellezze, e tanto basti.
Se non fuss’ella Citherea, direi
che Citherea s’assomigliasse a lei.
61. Non osa al bell’Adon Venere intanto
il vero aspetto suo scoprir sì tosto,
ma vuol per tòme gioco innanzi alquanto
che sia sotto altra imagine nascosto.
Novo (i' non saprei dir con qual incanto)
simulacro mentito ha già composto;
e già sì ben di Cinthia arnesi e gesti
finge, che ’n tutto lei la crederesti.
62. Va come Cinthia inculta ed inornata
e veste gonna di color d’erbetta.
Tutta in un fascio d’or la chioma aurata
le cade sovra l’omero negletta.
Nulla industria però ben ordinata
tanto con l’artificio altrui diletta
quanto al bel crin, ch’ogni ornamento sprezza,
accresce quel disordine bellezza.
l’innamoramento
i 68
63. Tien duo Veltri la destra, al lato manco
pende d’aurea catena Indico dente.
D’argento in fronte immacolato e bianco
vedesi scintillar Luna lucente.
Lasciasi l’arco e la faretra al fianco,
prende d’acuto acciar spiedo pungente.
Tal ch’ai cani, agli strali, al corno, a l’asta
la più lasciva Dea par la più casta.
64. Non sol per suo diletto ella usar vole
ma per infamar l’emula quest’arte,
perché temendo, se la vede il Sole,
non l’accusi a Vulcano overo a Marte,
vuol ch’egli, o qualche Satiro che suole
da lui fuggire in quell’ombrosa parte,
a Pan più tosto il riferisca e dica
ch'ancor Diana sua non è pudica.
65. Per più spedito agevolarsi il calle
l’aureo coturno si disfibbia e scalza,
poi de l’obliqua ed intricata valle
premendo va la discoscesa balza.
L’erbe dal Sole impallidite e gialle
verdeggian tutte, ogni fior s’apre ed alza.
Sotto il piè pellegrin del bosco inculto
ogni sterpo fiorisce, ogni virgulto.
66. Ed ecco audace e temeraria Spina,
ma quanto temeraria, anco felice,
che la tenera pianta alabastrina
punge in passando, e ’l sangue fuor n’elice,
e vien di quella porpora divina
ad ingemmar la cima impiagatrice.
Ma colorando i fior del proprio stelo,
scolora i fior de la beltà del Cielo.
CANTO TERZO
67. Palli detta s'arresta e dolorosa
que’ begli ostri a stagnar col bianco lino,
e ’ntanto folgorar vede la Rosa,
già di color di neve, or di rubino.
Ma per doppia ferita ancor non posa,
né de la traccia sua lascia il camino.
Vinta la doglia è dal desire, e cede
a la piaga del cor quella del piede.
68. Or giunta sotto il solitario monte,
dove raro uman piè stampò mai Torme,
trova colà su ’l margine del fonte
Adon, che ’n braccio ai fior s'adagia e dorme;
ed or che già de la serena fronte
gli appanna il sonno le celesti forme,
e tien velato il gemino splendore,
veracemente egli rassembra Amore.
6y. Rassembra Amor, qualor deposta e sciolta
la face, e gli aurei strali, e l’arco fido,
stanco di saettar posa talvolta
su l’Idalio frondoso o in vai di Gnido,
e dentro i mirti, ove tra l’ombra folta
han canori augelletti opaco nido,
appoggia il capo a la faretra, e quivi
carpisce il sonno al mormorar de’ rivi.
70. Sì come sagacissimo Seguso
poi che raggiunta ha pur tra fratta e fratta
vaga fera talor, col guardo e ’l muso
esplorando il covil, fermo s’appiatta;
e ’n cupa macchia rannicchiato e chiuso
par che voce non oda, occhio non batta,
mentre il varco e la preda, ov’ella sia
immobilmente insidioso spia:
170
l’innamoramento
71. così la Dea d’Amor, poi che soletta
giunge a mirar l’angelica sembianza,
eh'a le gioie amorose il bosco alletta,
e del suo Ciel le meraviglie avanza,
resta immobile e fredda, e ’n su l’erbetta,
di stupor sovrafatta, e di speranza,
siede tremante, e ’l bel che l’innamora
stupida ammira, e reverente adora.
72. In atto si gentil prende riposo
che tutto leggiadria spira e dolcezza ;
e '1 Sonno istesso in sì begli occhi ascoso
abbandonar non sa tanta bellezza.
Anzi par che di lor fatto geloso
di starsi ivi a diletto abbia vaghezza;
e con nido sì bel non le dispiaccia
cangiar di Pasithea l’amate braccia.
73. Placido figlio de la Notte bruna
il Sonno ardea d’Amor per Pasithea;
e perché questa de le Grazie er’una,
l’ottenne in sposa alfrn da Citherea.
Or mentre che di lor sen già ciascuna
l’erbe scegliendo per lavar la Dea,
scherzando intorno ignudo Spirto alato
partir non si sapea dal vicin prato.
74. Vanno ove Flora i suoi tapeti stende
le Grazie a còr qual più bel fior germoglia.
Qual da la spina sua rapisce e prende
la rosa, e qual del giglio il gambo spoglia.
Quella al balsamo Ebreo la scorza fende,
questa a l’Indica canna il crin disfoglia.
Altra, ove suol vibrar lingue di foco,
ricerca di Cilicia il biondo Croco.
CANTO TERZO
75. Or il tranquillo Dio, mentre che move
invisibil tra lor l’ali sue chete,
posar veggendo il bell’Adon là dove
tesson notte di fronde ombre secreto,
per piacer a la figlia alma di Giove,
gli pone agli occhi il ramoscel di Lethe;
tal che ben potè, oppresso in quella guisa,
star quanto vuole a contemplarlo assisa.
76. Tanta in lei gioia dal bel viso fiocca,
e tal da’ chiusi lumi incendio appiglia,
che tutta sovra lui pende, e trabocca
di desir, di piacer, di meraviglia.
E mentre or de la guancia, or de la bocca
rimira pur la porpora vermiglia,
sospirando un Oimè! svelle dal petto,
che non è di dolor, ma di diletto.
77. Qual industre Pittor, che ’ntento e fiso
in bel ritratto ad emular Natura,
tutto il fior, tutto il bel d’un vago viso
celatamente investigando fura:
del dolce sguardo e del soave riso
pria l’ombra ignuda entro ’l pensier figura,
poi con la man discepola de l’Arte
di leggiadri color la veste in carte:
78. tal ella quasi con pennel furtivo
l’aria involando de l’oggetto amato,
beve con occhio cupido e lascivo
le bellezze del volto innamorato;
indi de l’Idol suo verace e vivo
forma l’essempio con lo strale aurato,
e con lo strai medesimo d'Amore
se l’inchioda e confige in mezo al core.
l’innamoramento
79. A piè gli siede, e studia attentamente
come la bella imago in sen si stampi.
In lui si specchia, ed a l’incendio ardente
tragge nov’ésca onde più forte avampi.
Ma de le stelle innecclissate e spente
suscitati veder vorrebbe i lampi ;
e consumando va tra lieta e trista
in quel dolce spettacolo la vista.
So. Ben che ’l favor de’ rami ombrosi e densi
dal Sol difenda il Giovane che giace,
pur l’aria impressa di vapori accensi,
e ripercossa da l’estiva face,
e quel che lega dolcemente i sensi,
e sopisce i pensier, sonno tenace,
il volto insieme ed umidetto ed arso
di fiamme tutto e di sudor gli han sparso.
81. Onde la Dea pietosa, or de la vesta
il lembo, or un suo vel candido e lieve
in lui scotendo, a lusingar s’appresta
de la fronte e del crin l’ambra e la neve,
lì mentre l’aria tepida e molesta
move, e scaccia il calor noioso e greve,
con l’aure vane a vaneggiar intesa
sfoga in sospir l’interna fiamma accesa.
82. — Aure o Aure — dicea —, vaghe e vezzose
peregrine de l’aria, Aure odorate,
voi che di questa selva in fra l’ombrose
cime sonore a stuol a stuol volate,
voi, cui de’ miei sospir l’aure amorose
doppian forza a le piume, Aure beate,
voi da l’estivo ingiurioso ardore
deh difendete il nostro amato Amore
CANTO TERZO
173
83. Così di Verno mai, così di gelo
ira nemica non v'ofìenda o tocchi;
e quando i monti han più canuto il pelo
dolce da le vostr’ali ambrosia fiocchi;
e securo vi presti il bosco e ’l cielo
schermo dal vivo Sol di que’ begli ocelli;
e molle abbiate, e di salute piena
ombra sempre tranquilla, aria serena.
83. Indi al fiorito e verdeggiante prato,
letto del Vago suo, rivolta dice:
— Terreno al par del Ciel sacro e beato,
aventurosi fiori, erba felice,
cui sostener tanta bellezza è dato,
cui posseder tanta ricchezza lice,
che de l’Idolo mio languido e stanco
siete guanciali al volto, e piume al fianco:
85. sia quel raggio d’Amor, che vi percote,
di Sole in vece a voi, fiori ben nati.
Ma che veggio? che veggio? or che non potè
la virtù de’ begli occhi ancor serrati ?
Dal bel color de le divine gote,
dal puro odor di que’ celesti fiati
vanta la Rosa, e vergognoso il Giglio,
l’una pallida vien, l’altro vermiglio. —
86. Volgesi agli occhi, e dice: — Un degli ardenti
vostri lampi, occhi cari, or mi consoli,
occhi vaghi e leggiadri, occhi lucenti,
occhi de’ miei pensieri c porti e poli,
occhi dolci e sereni, occhi ridenti,
occhi de’ miei desiri e specchi e Soli,
finestre de l’Aurora, usci del die,
possenti a rischiarar le notti mie.
1 74
l’innamoramento
87. Occhi, ov’Amor sostien lo scettro e '1 regno,
ov’egli arrota i più pungenti artigli,
voi sol potete il mio battuto ingegno
campar da le tempeste e da’ perigli,
non men che stanco e travagliato legno
soglian di Leda i duo lucenti figli.
Già parmi in voi veder, veggio pur certo
tra due chiuse palpebre un Cielo aperto.
88. àia perché non v’aprite? e i dolci rai
non volgete a costei, ch’umil v’inchina?
Aprigli neghittoso, e si vedrai
a qual ventura il fato or ti destina!
Rendi ai sensi il vigor, richiama ornai
l’anima da’ bei membri peregrina.
Ah non gli aprir, ché chiuso anco il bel ciglio
spira l’ardor del mio spietato figlio.
89. Sonno ma tu, s’egli è pur ver che sei
viva e verace imagine di Morte,
anzi, di qualità simile a lei,
suo germano t’appelli, e suo consorte,
come come potesti a danni miei
entrar del Ciel ne le beate porte?
con che licenza oltre l’usato ardita
puoi negli occhi abitar de la mia vita ?
90. E se sei pur de l’ombre e degli orrori
oscuro figlio e gelido compagno,
come i cocenti raggi e i chiari ardori
soffri di quel bel viso, ond’io mi lagno?
Fuggi il rischio mortai! Semplici cori
fan tra i vezzi d’Amor scarso guadagno.
Vanne vanne lontan, vattene in loco
dove tanto non sia splendore e foco.
CANTO TERZO
175
91. Ma se stender vuoi pur le brune piume
sovra il novello autor de’ miei tormenti,
deh porgi a l’ombre tue tanto di lume
che l’imagine mia gli rappresenti,
la qual sì come dolce io mi consume
gli mostri in atti supplici e dolenti,
onde nel pigro cor, mentre giac’egli
sonnacchioso dormendo, Amor si svegli. —
92. A pena ha queste note ultime espresse
che l’amico Morfeo, che l’è vicino,
fabrica d’aria, e di vapori intesse
simulacro leggiadro e peregrino.
Di tai forme si veste, e scopre in esse
di celeste beltà lume divino.
Donna, ch’è tutta luce, e foco spira,
nel teatro del sonno Adone ammira.
93. Corona tal, ch’altrui la vista offende,
cerchia la fronte lucida e serena,
e di gemme stellata avampa e splende,
e di stelle gemmata arde e balena.
E dal titolo suo ben si comprende
che non è chi la tien cosa terrena.
Havvi scritto dintorno in lettre aurate:
" Madre d’Amore, e Dea de la beltate ”.
94. Mentre d’alto stupore Adon vien manco,
già pargli già la bella Larva udire,
che stendendo una man d’avorio bianco
— Adon, dammi il tuo cor — gli prende a dire.
E fu quasi un sol punto aprirgli il fianco,
dispiccarglielo a forza, e disparire.
Sognando il bel Garzon si dole e geme
sì che la vera Dea ne langue insieme.
i 7 6
l’innamoramento
95. E traendo un sospir piano e sommesso
tempra il novo martir che la tormenta,
e languisce e gioisce a un tempo istesso,
spera, teme, arde, agghiaccia, osa e paventa.
La mano e ’l sen s’empie di fiori, e spesso
su ’l viso un nembo al bel fanciul n’aventa.
Indi (ché lui destar non vuol) s’inchina
dolcemente a baciar l’erba vicina.
96. Poscia il bel riso entro le labra accolto,
che ’n carcere di perle s'imprigiona,
contempla attentamente, e del bel volto
vagheggiando la bocca, a lei ragiona.
— Urna di gemme, ov’è il mio cor sepolto,
a te medesma il mio fallir perdona,
s’io troppo ardisco; or che tu taci e dormi,
l’alma che mi rapisti io vo’ ritòrmi.
97. Che fo — seco dicea —, ché non accosto
volto a volto pian piano, e petto a petto ?
Vola il tempo fugace, e seco tosto,
seguito dal dolor, fugge il diletto.
Ahi quel diletto, a cui non vien risposto
con bel cambio d’Amor, non è perfetto;
né con vero piacer bacio si prende,
cui l’amata beltà bacio non rende.
08. Oual dunque tregua attendo a’ miei martiri,
s’occasion sì bella oggi tralasso?
Ma s’avien che si svegli, e che s’adiri,
dove rivolgerò confusa il passo?
-Moveranno il suo cor pianti e sospiri,
pur che non abbia l'anima di sasso . . .
Non l’avrà, s’egli è bel! — Così dubbiosa
per baciarlo s’abbassa, e poi non osa.
CANTO TERZO
r 77
99. Come resta il Villan, s’a le fresch’onde
quando più latra in Ciel Sirio rabbioso
corre per bere, e vede in su le sponde
la Vipera crudel prender riposo:
o come il Cacciator, che fra le fronde
cerca di Filomena il nido ascoso,
e ficcando la man dentro la cova,
in vece de l’augel, l’aspe vi trova:
100. così lieta in un punto e timidetta
trema costei, quanto pur dianzi ardia.
L’afflige la beltà che la diletta,
il troppo stimular la fa restia.
Brama quel che l’offende, ed è costretta
tuttavolta a temer quel che desia.
Pentesi che tant’oltre erri il desire,
e si pente ancor poi del suo pentire.
101. Tre volte ai lievi e dolci fiati appressa
la bocca, e ’l bacio, e tre s’arresta e cede,
e sprone insieme e fren fatta a se stessa,
vuole e disvuole, or si ritragge, or riede.
Amor, che pur sollecitar non cessa,
la sforza alfine a le soavi prede,
sì ch’ardisce libar le rugiadose
di celeste licor, purpuree rose.
X02. Al suon del bacio, ond'ella ambrosia bebbe,
l’addormentato Giovane destossi,
e poi ch’alquanto in sé rivenne, ed ebbe
dal grave sonno i lumi ebri riscossi,
tanto a quel vago oggetto in lui s'accrebbe
stupor, ch’immoto e tacito restossi;
indi da lei, ch’a l’improviso il colse,
per fuggir sbigottito il piè rivolse.
12
l’innamoramento
i 7 8
103. Ma la Diva importuna il tenne a freno:
— Perché — disse — mi fuggi? ove ne vai
Mi volgeresti il bel guardo sereno,
se sapessi di me ciò che non sai ! —
Ed egli allora abbarbagliato, e pieno
d'infinito diletto a tanti rai,
a tanti rai ch’un sì bel Sol gli offerse,
chiuse le luci, indi le labra aperse.
104. Ed — O qual tu ti sia, ch’a me ti mostri
tutta amor, tutta grazia, o Donna o Diva,
Diva certo immortai, da’ sommi chiostri
scesa a bear questa selvaggia riva,
se van — disse — tant’alto i preghi nostri,
se reverente affetto il Ciel non schiva,
spiega la tua condizion, qual sei,
o fra gli uomini nata, o fra gli Dei ?
103. A la madre d’Amor, ch’altro non volc
ch’aver le luci a quelle luci affisse,
parve ch’aprendo l’un e l’altro Sole
de’ duo begli occhi, il Paradiso aprisse.
E le calde d'Amor dolci parole,
ch’a lei tremando e sospirando disse,
le furo soavissime e vitali
fiamme al cor, lacci a l’alma, al petto strali
106. Ma pur de Tesser suo celando il vero,
mentitrice favella intanto forma.
— Così poco conosci, incauto Arciero,
lei che non solo il primo Cielo informa,
c’ha nel centro internai non solo impero,
ma da cui queste selve han legge e norma ?
E pur m’imiti e segui a tutte Tore!
(poco men che non dissi: e m’ardi il core).
CANTO TERZO
1 79
107. I’ men venia, sì come soglio spesso
quando l’estivo Can ferve e sfavilla,
in questo bosco a meriggiar là presso
in riva a l’onda lucida e tranquilla,
ch’una bolla vivente aperta in esso
di cavernosa pomice distilla,
e forma un fonticel, ch’a le vicine
odorifere erbette imperla il crine:
108. quando il mio piè, che per l’estrema arsura
(si come vedi) è d’ogni spoglia ignudo,
con repentina e rigida puntura
ago trafisse ingiurioso e crudo.
E ben ch’uopo non sia medica cura
per farmi incontr’al duol riparo e scudo,
colsi quest’erbe, il cui vigore affrena
il corso al sangue, e può saldar la vena.
109. Ma perch’ogni mia Ninfa erra lontano,
e chi tratti non ho l’aspra ferita,
porgimi tu con la cortese mano
(a te ricorro, in te ricovro) aita. —
Qui del trafitto piè, del cor non sano
l una piaga nasconde, e l’altra addita,
e scioglie, testimon de’ suoi martiri,
un sospiro diviso in duo sospiri.
110. Non era Adon di roza cote alpina
né di Libica Serpe al mondo nato.
Ma quando fusse ancor d’adamantina
selce, e di crudo tosco un petto armato,
ogni cor duro, ogni anima ferina
fora da sì bel Sol vinto e stemprato.
Né meraviglia fia, qualor s’accosta,
ch’arda a fiamma vorace ésca disposta.
180 l’innamoramento
hi. Reverenza, pietate, amore e tema
fan nel dubbioso cor fiera contesa;
ma perché deve ogni fortuna estrema
subitamente esser lasciata o presa,
non ricusa il favor, ma gela e trema
mentre s’appresta a sì soave impresa,
in quel gesto pietoso ed attrattivo,
con cui ride languendo occhio lascivo.
11 2 . — Santo Nume — dicea — cui Cinto e Deio
porge voti, offre incensi, altari infiora,
vostra grande in Abisso, in Terra e ’n Cielo
virtù, chi non conosce, e non adora ?
Scusate il cor, se con perfetto zelo
celebrar non vi sa quanto v’onora,
e l’ardir de la man prendete in pace,
che ’n sì degn'opra è d’ubbidirvi audace.
113. Deh qual ventura mai, qual proprio merto
d’infelice mortai tant’alto giunse?
Ben ho da benedir questo deserto
che le fide da voi serve disgiunse,
e quel, per cui m’è tanto bene offerto,
spinoso stei, che ’1 bianco piè vi punse;
e vo’ segnar per tante glorie mie
con pietra lesbia un sì felice die.
114. Scintillan tante fiamme e tanti raggi
nel sembiante ch’io scorgo, altero e bello,
che dar poriano invidia e far oltraggi
al \ ostro ardente e lucido fratello.
Onde non già de’ boschi aspri e selvaggi,
ma Dea de’ cori e degli Amor v’appello;
ché s’io m’affiso in voi, di veder parmi
al volto Citherea, Diana a l’armi. —
CANTO TERZO
181
115. Con questo ragionar, del piè gentile
si reca in grembo l’animato latte,
e poscia che con vel bianco e sottile
n’ha le gelate stille espresse e tratte,
de la destra v’accosta assai simile,
quasi in bel paragon, le nevi intatte.
Disse Amor, che non era indi lontano:
— Non volea sì bel piè men bella mano. —
116. Tasta la cicatrice, e terge e tocca
morbidamente i sanguinosi avori,
e mentre un rio di nèttare vi fiocca
tra cento erbe salubri, e cento odori,
fan con occhio loquace e muta bocca
Eco amorosa i tormentati cori,
dove in vece di voce il vago sguardo
quinci e quindi risponde: — Ardi, ch’io ardo. —
117. Dicea l’un fra suo cor: — Deh quali io miro
strani prodigi, e meraviglie nove?
11 Ciel d’Amor dal cristallino giro
di sanguigne rugiade un nembo piove!
Quando tra gli alabastri unqua s’udiro
nascer cinabri in cotal guisa, o dove ?
Da fonte eburneo uscir rivi vermigli,
da le nevi coralli, ostri dai gigli?
118. Sangue puro e divin, ch’a poco a poco
fai sovra il latte scaturir le rose,
vorrei da te saver, sei sangue o foco,
che tante accogli in te faville ascose ?
O non mai più vedute in alcun loco
gemme mie peregrine e preziose,
di sì nobil miniera usciste fore,
che ben si vende a tanto prezzo un core!
182
l’innamoramento
119. E tu candido piede insanguinato,
che di minio sì fino asperso sei,
e ricca pompa fai così smaltato
de’ tesori d'Amore agli occhi miei,
quanto più del mio cor sei fortunato,
del mio cor, che trafitto è da costei ?
Langue ferita, e di ferir pur vaga
impiagato m’ha il cor con la sua piaga.
120. A te fasciato pur di bianco invoglio
efficace licor rimedio serba.
Senza fasce ei si dole, al suo cordoglio
non giova industria d’arte, o virtù d’erba.
Consenta pur Amor, che s’io mi doglio,
trovi ristoro almen la doglia acerba:
e stringendomi il fianco in dolce laccio,
se mi ferisce il piè, mi sani il braccio.
121. Chi più già mai di me felice fia,
s’egli averrà che questa bella essangue,
ch’ai chiuder de la sua la piaga mia
apre così che ’l cor ne geme e langue,
d’Omicida crudel Medica pia
m’asciughi il pianto, ov’io l’asciugo il sangue?
sì che tra noie e gioie, e guerre e paci
quante mi dà ferite, io le dia baci? —
122. — Lassa — l’altra dicea —, che dolce pena!
Questa, che la mia piaga annoda e cinge,
non è fascia, anzi è ceppo, anzi è catena,
che mentre il piè mi lega, il cor mi stringe.
Questo purpureo umor, che ’n larga vena
di vivace rossor mi verga e tinge,
ahi ch’è l’anima mia, che ’n sangue espressa
vuole a costui sacrificar se stessa.
CANTO TERZO 183
123. Erbe felici, ch’a le mie ferute
dolor recate e refrigerio insieme,
ben che d’alto valor, quella virtute
che vive in voi, non è virtù di seme.
Vien da la bella man la mia salute,
da quella man che vi distilla e preme,
emula de’ begli occhi e del bel viso,
che sanandomi il corpo, ha il core ucciso.
124. O bella mano, ond’è che curar vuoi
la piaga del mio piè con tanto affetto ?
Forse sol per poter farmene poi
mille più larghe e più profonde al petto ?
Fors’è destin, che fuor ch’a’ colpi tuoi,
non dee corpo celeste esser soggetto.
La palma, che di me Morte non ebbe,
a te sol si concede, a te si debbe.
125. Ma che più tardo a disvelar quest’ombra,
che tiene il mio splendor di nube cinto ?
S’or che le mie bellezze in parte adombra
magica benda, il mio aversario è vinto,
che fia quando ogni nebbia in tutto sgombra,
verrà che ceda ai vero oggetto il finto? —
Disse, e squarciando le fallaci larve,
in propria effigie al Giovinetto apparve.
126. Qual Vergine talor semplice e pura
s’avien ch’astuta mano alzi e discopra
drappo, ch’alcuna in sé sacra figura
effigiata ad arte abbia di sopra,
ma secreta nasconda altra pittura,
di lascivo pennel piacevol opra,
tingendo il bel candor di grana fina,
da l’inganno confusa, i lumi inchina:
184
l’innamoramento
127. tal si smarrisce Adon, quando scoverto
de la Dea gli si mostra il lume intero;
e tanto più, pur di sognar incerto,
d’alta confusion colma il pensiero
perché conosce espressamente aperto
del sogno suo ne la vigilia il vero,
rivedendo colei che poco dianzi,
rubatrice del cor, gli apparve innanzi.
128. Al bel Garzon, che stupefatto resta
veduto il primo aspetto in aria sciolto,
la bella Dea discopre e manifesta
in un punto medesmo il core e ’l volto.
— Ben mio — dicea —, qual meraviglia è questa,
che tra dubbi pensier ti tiene involto ?
Quel traveder, che ti fa star dubbioso,
fu di mia deità scherzo amoroso.
129. Or non più mi nascondo. Io mi son quella
per cui d’amore il terzo Ciel s’accende.
Quella son io, la cui lucente stella
innanzi al Sole, emula al Sol risplende.
Taccio, che dal mio bel qualunque bella
bella è detta quaggiù, bellezza prende;
taccio, che figlia son del sommo Padre.
Dirò sol ch’amo, e che d’Amor son madre.
i^o. Quando ben fusse a tua notizia ignoto
quel che t’abbaglia insolito splendore,
qual è clima sì inospito e remoto?
alma qual è, che non conosca Amore ?
Che se pur poco agli altri sensi è noto,
malgrado suo, n’ha conoscenza il core.
Se ti piace d’Amor dunque il piacere,
dimmi 11 tuo stato, e dammi il tuo volere. —
CANTO TERZO
185
131. Sì disse, e Pitho il persuase e vinse,
ch’entro le labra de la Dea s’ascose.
Pitho ministra sua d’ambrosia intinse
quelle faconde ed animate rose.
Pitho in leggiadri articoli distinse
le note accorte, e ’l bel parlar compose.
Pitho da la dolcissima favella
sparse catene, ed aventò quadrella.
132. Fusse la gran soavità di queste
voci, che ’l giovenil petto percosse,
o del bel cinto, ond’ella il fianco veste,
pur la virtù miracolosa fosse;
dal dolce suon del ragionar celeste
invaghito il Fanciul tutto si mosse;
ma quel che ’n lui più ch’altro ebbe possanza,
fu la divina oltramortal sembianza.
133. Un diadema Ciprigna avea gemmante,
gemme possenti a concitare amore.
V’era la pietra illustre e folgorante
c’ha da la Luna il nome e lo splendore,
la Calamita, ch’è del ferro amante,
e ’l Giacinto, ch’a Cinthio accese il core.
Ma la virtù de’ lucidi gioielli
fu nulla appo l'ardor degli occhi belli.
134. La destra ella gli stese, e ’l vago lino
scorciò, che nascondea la neve pura:
ond’implicato in un cerchietto fino,
che con mista di gemme aurea scultura
facea maniglia al gomito divino
rigido di barbarica ornatura,
(fuss’arte o caso) dilicato e bianco
fece il fuso veder del braccio manco.
i86
l'innamoramento
135. Tenea (com’io dicea) le membra belle
appannate d’un vel candido e netto,
e quai d’Adria veggiam Donne e Donzelle,
infin sotto le poppe ignudo il petto.
Fé’ vista allor tra ’l seno e le mammelle
voler groppo annodar non ben ristretto,
e più leggiadra e più secreta parte
fingendo di coprir, scoverse ad arte.
136. Mentre languia l’innamorata Dea,
Adon con fise ciglia in lei rivolto
tutto rapito a contemplar godea
le meraviglie del celeste volto,
e quivi in vista attonito scorgea
il bel del bello in breve spazio accolto.
Fra i detti intanto e fra gli sguardi Amore
gli entrò per gli occhi e per l’orecchie al core.
137. Ne l'udir, nel mirar s’accese ed arse
di non sentite ancor fiamme novelle,
e del foco del cor l’incendio sparse
su per le guance dilicate e belle.
Inchinò a terra onestamente scarse
vergognosetto le ridenti stelle,
poi verso lei con un sospir le volse,
alfin lo spirto in queste voci sciolse:
138. — O Dea cortese, o s’altro è pur fra noi
titol, ch’a maestà tanta convegna,
qual può mai cosa offrir vii servo a voi,
la cui pietà di cotal grazia il degna?
Lo scettro no, poi che ne’ regni suoi
povero diredato or più non regna.
La vita no, ché da voi Dei fatali
il vivere e ’l morir pende a’ mortali.
CANTO TERZO
187
139. Voi siete tal, ch’altri non può mirarvi
che mirando d’amor non se n’accenda;
ma non può alcuno accendersi ad amarvi
ch’amando non v’oltraggi, e non v’offenda.
Offesa v’è servirvi ed adorarvi,
v’oltraggia uom vii che cotant’alto intenda,
perché con quel ch’ogni misura passa
proporzion non ha scala sì bassa.
140. Non dee tanto avanzarsi umano ardire
che presuma d’amar bellezza eterna,
ma curvar le ginocchia, e reverire
con devota umiltà chi ’l Ciel governa.
È ben ver, che qualora entra in desire
d’inferior natura alma superna,
quella bontà, quella virtù sublime
ne l’amato suggetto il merto imprime.
141. Quel merto, ch’esser suol d’amor cagione
in noi mortali, è in voi Celesti effetto,
sì che quando alcun Dio d’amar dispone
uom terreno e caduco, il fa perfetto;
ché ben che disegual sia l’unione,
l'un de l’altro però sgombra il difetto;
e d’ogni indignità purgando il vile,
ciò ch’è per sé villan rende gentile.
142. Amor di voi m’innamorò per fama
pria ch’a veder vostra beltà giungessi,
e da lunge v’amai non men che s’ama
oggetto bel, ch’ingorda vista appressi.
Or che quanto il mio cor sospira e brama
son condotto a mirar con gli occhi istessi,
e ch’oltre il rimirarvi, altro m'è dato,
vo’ contentando voi, far me beato.
i88
l’innamoramento
143. Quanto darvi mi lice, e quanto è mio
vi sacro, e de l’ardir cheggio perdono.
Se degno son di voi, vostro son io,
e se ’l cor vi fia in grado, il cor vi dono.
Se mendica è la man, ricco è il desio,
siete donna di me più ch’io non sono.
Né, fuor che l’amor vostro, amar potrei,
né potendo voler, poter vorrei.
144. Il mio volere al voler vostro è presto
tanto, che quasi in me nulla n’avanza.
Lo stato mio, s’a tutti è manifesto,
come a voi di celarlo avrei baldanza?
Mirra (dirollo) il cui nefando incesto
la vergogna rinova a la membranza,
fu la mia genitrice, e da colui
che generolla, generato io fui.
145. Ed or selvaggio Cacciator ramingo,
sagittario di Damme e di Cervette,
l’arco per mio trastullo incocco e stringo,
ed impenno la fuga a le saette.
Febee error, che per horror solingo
di quest’ombre beate e benedette
fuor di via mi tirò, né ciò mi dole,
poi che perdo una fera, e trovo un Sole.
146. Ne’ be’ vostr’occhi, per cui vivo e moro,
l’anima ornai depositar mi piace;
ma perché ’l cor sacrificato in loro
già sento già che ’n vivo ardor si sface,
e perch’a quella bocca, ov’è ’l tesoro
d’Amor, non è d’avicinarsi audace,
ecco, con questo bacio, ancor che indegno,
a te, candida mano, io la consegno. —
CANTO TERZO
189
147. Ed ella allor: — Che tu ti sia, mia Vita,
esperto Arcier, Saettatore accorto,
altra prova non vo' che la ferita
che ’n mezo al petto immedicabil porto.
Ma d’aver tal beltà mai partorita
Mirra (credilo a me) si vanta a torto,
perché fra l’ombre il Sol non si produce,
né può la notte generar la luce.
148. Ella il padre ingannò di notte oscura,
e tu porti negli occhi un dì sereno.
Ella di scorza alpestra il corpo indura,
e tu più che di latte hai molle il seno.
Ella amara e spiacente è per natura,
e tu sei tutto di dolcezza pieno.
Ella distilla lagrimosi umori,
e tu fai lagrimar l’anime e i cori.
149. Sol quelle luci tue rapaci e ladre,
ch’involando da’ petti i cori vanno,
parto furtivo di furtiva madre
t’accusan nato, e con furtivo inganno.
Or se membra sì belle e sì leggiadre
fur concette di furto, e furar sanno,
non ti meravigliar, se voglio anch’io
che chi mi fura il cor, sia furto mio.
150. .Non pur gli occhi e le mani a tuo talento,
la bocca e ’l sen t’è posseder concesso,
ma t’apro il proprio fianco, e ti presento
in cambio del tuo core, il core istesso.
Vedrai che queU’amor, ch'ai core io sento,
t’ha sculto no, ma trasformato in esso:
che sei de’ miei pensieri unico oggetto,
e ch’altro cor che te, non ho nel petto. —
l’innamoramento
iyo
151. Con tai lusinghe il lusinghiero Amante
la lusinghiera Dea lusinga e prega.
Ella arditetta poi la man tremante
gli stende al collo, e dolcemente il lega.
Qui, mentr’Amor superbo e trionfante
l’amoroso vessillo in alto spiega,
strette a groppi di braccia ambe le salme,
ammutiscon le lingue, e parlan Calme.
152. Dolce de’ baci il fremito rimbomba,
e furandone parte invido vento,
degli assalti d’Amor sonora tromba,
per la selva ne mormora il concento;
a cui la Tortorella e la Colomba
rispondon pur con cento baci e cento.
Amor de’ furti lor dal vicin speco
occulto spettator, sorrise seco.
153. Fu così stretto il nodo, onde s’avinse
l’aventurosa coppia, e sì tenace,
che non più forte vite olmo mai strinse,
smilace spina, o quercia edra seguace.
Vaga nube d’argento arabo ricinse,
quivi gli scòrse e chiuse Amor sagace,
la cui perfìdia vendicando l’onta
con mille piaghe una sferzata sconta.
154. La bella Dea che ’nsanguinò la rosa,
ben che trafitta il sen di colpo acerbo,
contro il figliuol non si mostrò sdegnosa
per non farlo più crudo e più superbo;
ma premendo nel cor la piaga ascosa,
si morse il dito, e disse: — Io te la serbo.
Per questa volta con l'altrui cordoglio
tanta mia gioia intorbidar non voglio. —
CANTO TERZO 191
155. Poi le luci girando al vicin colle,
dov’era il cespo che ’l bel piè trafisse,
fermossi alquanto a rimirarlo, e volle
il suo fior salutar pria che partisse;
e vedutolo ancor stillante e molle
quivi porporeggiar, così gli disse:
— Salviti il Ciel da tutti oltraggi e danni,
fatai cagion de’ miei felici affanni.
156. Rosa riso d’Amor, del Ciel fattura,
Rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo, e fregio di Natura,
de la Terra e del Sol vergine figlia,
d’ogni Ninfa e Pastor delizia e cura,
onor de l’odorifera famiglia,
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo de’ fior Donna sublime.
157. Quasi in bel trono Imperadrice altera
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d’aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia dintorno, e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto, e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
porti d’or la corona, e d’ostro il manto.
158. Porpora de’ giardin, pompa de’ prati,
gemma di Primavera, occhio d’Aprile,
di te le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
Ape leggiadra o Zefiro gentile,
dài lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
192
l’innamoramento
159. Non superbisca ambizioso il Sole
di trionfar fra le minori stelle,
ch’ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle.
Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu Sole in terra, ed egli Rosa in Cielo.
160. E ben saran tra voi conformi voglie,
di te ha ’l Sole, e tu del Sole amante.
Ei de l’insegne tue, de le tue spoglie
l’Aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne’ crini e ne le foglie
la sua livrea dorata e fiammeggiante;
e per ritrarlo ed imitarlo a pieno
porterai sempre un picciol Sole in seno.
161. E perch’a me d’un tal servigio ancora
qualche grata mercé render s’aspetta,
tu sarai sol tra quanti fiori ha Flora
la favorita mia, la mia diletta.
E qual Donna più bella il mondo onora
10 vo’ che tanto sol bella sia detta
quant’ornerà del tuo color vivace
e le gote, e le labra. — E qui si tace.
162. Il Palagio d’Amor ricco e pomposo
da quel bosco lontan non era guari,
ma di ciò che tenea nel grembo ascoso
degni già mai non fece occhi vulgari.
Non molto andàr, che di fin or squamosi
vider lampi vibrar fulgidi e chiari
11 tetto, onde facea mirabilmente
l’edificio sublime ombra lucente.
CANTO TERZO
193
163. Quella Casa magnifica, che raro
a l’altrui vista i suoi secreti aperse,
al novo comparir d’oste sì caro
quanto di bello avea, tutto gli offerse;
e non sol di quel loco illustre e chiaro
la gloria incomparabile scoverse,
ma l’attuffò nel pelago profondo
di quante ha gioie e mera vàglie il mondo.
164. Ne la torre primiera a destra mano
entrando il bell’Adon le piante mosse,
e si trovò dentro un cortile estrano,
il più ricco, il più bel che già mai fosse.
Quadro è il cortile, e spazioso e piano,
ed ha di pietre il suol candide e rosse.
Par che ’l pavese un tavolier somigli
scaccheggiato a quartier bianchi e vermigli.
165. Torreggiante nel mezo ampia e sublime
sorge lumaca, onde si scende e poggia.
Quattr’archi, ch’escon fuor de le sue cime,
fanno una croce, ch’ai balcon s’appoggia
a cui congiunte son le stanze prime,
onde scorrer si può di loggia in loggia:
sì eh'una scala abbraccia e signoreggia
per quattro corridoi tutta la reggia.
166. Ne’ quattro quarti intorno, onde il cortile
da la croce diviso si comparte,
havvi intagliate da scarpel fabrile
quattro illustri fontane, una per parte,
di lavor sì stupendo, e sì sottile,
che ben si scorge che divina è l’arte.
Due d’alabastro e d’agata scolpite,
una di corniola, una d’ofite.
13
194
l’innamoramento
167. Nettuno è in una, in atto effigiato
di ferir col tridente un scoglio alpino,
e ne fa scaturir per ogni lato
tiume d’acqua lucente e cristallino.
Sta sovra un nicchio da Delfin tirato,
vomita ancor cristallo ogni Delfino.
Quattro Tritoni intorno in mille rivi
versan per le lor trombe argenti vivi.
168. Ne l’altra entr’una pila incisi e scolti,
ch’a colonnetta picciola fa tetto,
stan tergo a tergo l’un l’altro rivolti
Piramo e Tisbe con la spada al petto;
e spruzzan fuor molti ruscelli e molti
per la piaga mortai di vino schietto,
onde viene a cader per doppia canna
dentro il vaso maggior purpurea manna.
169. Tien l'altra fonte in una conca tonda
seno a seno congiunto, e bocca a bocca,
T-Torm o frr\H i +■ r\ in cn lo fr/icro cnnnri o
******** ^ *** -■* — w ^
che la bella Salmace abbraccia e tocca;
ed a questa ed a quello in guisa d’onda
da le membra e da’ crini ambrosia fiocca;
e su i lor capi una grand’urna piena
piove nèttare puro in larga vena.
170. La quarta esprime Amor, che sovra un sasso
quasi dormendo, si riposa in pace.
Le Grazie sotto lui stan più da basso,
come per custodir l’arco e la face.
Sparge balsamo fuor per lo turcasso
l’orbo fanciul, che sonnacchioso giace;
e l’amorose sue vaghe donzelle
stillan l’istesso umor per le mammelle.
CANTO TERZO
195
171. Per l’alloggio d’Adon tra quelle mura
va in volta la sollecita famiglia;
ma mentre che la Dea minuta cura
degli affari domestici si piglia,
col figlio a risguardar l’alta struttura
in disparte il Garzon trattien le ciglia;
e chi sia de la fabrica, che vede,
il possessor, l’abitator, gli chiede.
172. — Questo — con un sospiro Amor risponde —
che cotante in sé chiude opre sublimi,
è il mio diletto albergo, ed ho ben donde
pregiarlo sì che sovra ’l Ciel lo stimi.
Qui già le dolci mie piaghe profonde,
qui (lasso) incominciar gl’incendii primi.
Qui per colei, che preso ancor mi tiene,
fu il principio fatai de le mie pene.
173. Non creder tu che libera sen vada
da le forze amorose alma divina,
ch’a bramar quel piacer, che tanto aggrada,
forte desir naturalmente inclina.
Ch’a questa legge sottogiaccia e cada
anco il Re de’ Celesti, il Ciel destina.
Ed io, pur io, da la cui mano istessa
piove gioia e dolor, passai per essa.
174. Non restai di languir, per ch’io possegga
la face eterna, insuperabil Dio,
e tratti l’arco onnipotente, e regga
gli elementi e le stelle a voler mio.
E se m’ascolterai, vo’ che tu vegga
che fui dal proprio strai ferito anch’io,
e che del proprio foco acceso il core
ed arse, e pianse innamorato Amore. —
l’innamoramento
Così l'Arder che di Ciprigna nacque
venia di Mirra al bel figliuol parlando;
e perch’assai d’udirlo ei si compiacque,
a le sue note attenzi'on mostrando,
il dir riprese, e poi ch’alquanto tacque,
non però già di passeggiar lasciando,
nel grazioso Adon gli occhi converse,
e ’n più lungo parlar le labra aperse.
LA
NOVELLETTA
CANTO QUARTO
ALLEGORIA
La Favola di Psiche rappresenta lo stato dell'uomo. La Città
dove nasce, dinota il Mondo. Il Re e la Reina che la generano,
significano Iddio e la Materia. Questi hanno tre figliuole, cioè la
Carne, la Libertà deU’arbitrio, e l’Anima; la qual non per altro
si fìnge più giovane, se non perché vi s’infonde dentro dopo l’or-
ganizamento del corpo. Descrivesi anche più bella, perciò ch’è
più nobile della Carne, e superiore alla Libertà. Per Venere che
le porta invidia, s’intende la Libidine. Costei le manda Cupidine,
cioè la Cupidità, la quale ama essa Anima, e si congiunge a lei,
persuadendole a non voler mirar la sua faccia, cioè a non volere
attenersi ai diletti della Concupiscenza, né consentire agl’inci¬
tamenti delle Sorelle, Carne e Libertà. Ma ella a loro instigazione
entra in curiosità di vederlo, e discopre la lucerna nascosta,
cioè a dire palesa la fiamma del disiderio celata nel petto. La
Lucerna, che sfavillando cuoce Amore, dimostra l’ardore della
Concupiscibile, che lascia sempre stampata nella carne la mac¬
chia del peccato. Psiche agitata dalla Fortuna per diversi pericoli,
e dopo molte fatiche e persecuzioni copulata ad Amore, è tipo
della istessa Anima, che per mezo di molti travagli arriva final¬
mente al godimento perfetto.
ARGOMENT O
Giunto a l’albergo de’ vezzosi inganni
il bell’Adon, là dov’Amor s’annida,
gli conta Amor, che lo conduce e guida,
le fortune di Psiche e i propri affanni.
1. È di dura battaglia aspro conflitto
questa, che vita ha nome, umana morte,
dov’ognor Tuoni con mille mali afflitto
vien combattuto da nemica sorte.
Ma fra l’ingiurie e fra i contrasti invitto
non però sbigottisce animo forte,
anzi contr’ogni assalto iniquo e crudo
s’arma e difende, e sua virtù gli è scudo.
2. Talor ne tocca la paterna verga,
ma ’l suo giusto rigor non è crudele;
anzi perché la polvere disperga
ne scote i panni, e porta in cima il mèle,
Non desperi mai sì che si sommerga
chi per quest’Ocean spiega le vele,
ma de’ flutti e de’ venti al fiero orgoglio
faccia un’alta costanza àncora e scoglio.
CANTO QUARTO
JOI
3. Sembra il flagel, che correggendo avisa
anima neghittosa, amaro in vista,
ma di salubre pur calice in guisa
la purga, e giova altrui mentre ch’attrista.
Vite dal podador tronca e recisa
fecondità da le sue piaghe acquista.
Statua da lo scarpel punta e ferita
ne diventa più bella, e più polita.
4. Selce, ch’auree scintille in seno asconde,
il lor chiuso splendor mostrar non potè,
se da l’interne sue vene profonde
non le tragge il focil che la percote.
Corda sonora a dotta man risponde
con arguta armonia di dolci note,
e ’1 vantaggio che trae di tal offesa,
quanto battuta è più, vie più palesa.
5. Rotta la conca da mordace dente,
la porpora reai si manifesta.
Né del gran, né del vin si gusta o sente
l’eccellenza e ’l valor, se non si pesta.
Stuzzicato carbon vien più cocente,
soffiata fiamma più s’accende e desta,
palla a terra sospinta al ciel s’inalza,
e sferzato paleo più forte sbalza.
6. La fatica e ’l travaglio è paragone
dove provar si suol nostra finezza;
né senz’affanno e duol premi e corone
può di gloria ottener vera fortezza.
De l’Amica d’Amor tei mostri, Adone,
la tribulata e misera bellezza,
or ch’egli i tanti suoi strani accidenti
ti prende a raccontar con tali accenti:
202
LA NOVELLETTA
7. — In reai patria, e di parenti regi
nacquer tre figlie d’ogni grazia ornate.
Natura l’arricchì di quanti pregi
possa in un corpo accumular Beltate.
Ma versò de’ suoi doni e de’ suoi fregi
copia maggior ne la minore etate,
però che la più giovane sorella
era de l’altre due troppo più bella.
8. Le prime due, quantunque accolta in esse
fusse d’alte bellezze immensa dote,
tai non eran però, che non potesse
umana lingua esprimerla con note.
Ma l’ultima di loro, a cui concesse
quanto di bello il Ciel conceder potè,
tanto d’ogni beltà passava i modi,
ch’era in tutto maggior de l’altrui lodi.
9. Per alpestri sentier stampando Torme
nazion peregrine e genti estrane
per veder s’era al grido il ver conforme
vi concorrean da regi'on lontane.
E giunte a contemplar sì belle forme,
dico quel fior de le bellezze umane,
si confessavan poi tutti costoro
obligati per sempre agli occhi loro.
io Dal desir mossi e da la fama tratti
or quinci or quindi Artefici e Pittori
per fabricarne poi statue e ritratti
veniano e con scarpelli e con colori.
E sospesi in mirarla, e stupefatti,
immobili non men de’ lor lavori,
da l’attonita mano e questi e quelli
si lasciavan cader ferri e pennelli
CANTO QUARTO
^3
11. Quel divin raggio di celeste lume,
ch’avrebbe il ghiaccio istesso arso e distrutto,
risplendea sì, che qual terrestre Nume
adorata era ornai dal popol tutto;
lo qual de la gran Dea, che da le spume
prodotta fu del rugiadoso flutto,
tutti gli onor, tutte le glorie antiche
publicamente attribuiva a Psiche.
12. Sì di Psiche la Fama intorno spase
(tal era il nome suo) celebre il grido,
che questa opinion si persuase
di gente in gente in ogni estremo lido.
Pafo d’abitator vota rimase,
restò Cithera abbandonata, e Gnido;
nessun più vi recava ostia né voto
Orator fido, o Passaggier devoto.
13. Manca il concorso ai frequentati altari,
mancano i doni a la gran Diva offerti;
non più di fiamme d’òr lucenti e chiari,
ma son di fredde ceneri coverti.
Da’ simulacri venerati e cari
ornai non pendon più corone o serti.
Lasciando d’onorar più Citherea,
sacrifica ciascuno a questa Dea.
14. Crede ciascun, che stupido s’affisa
di que’ begli occhi ai luminosi rai,
novo germe di stelle in nova guisa
veder, non più quaggiù veduto mai;
e da la terra, e non dal mar s’avisa
esser più degna e più gentile assai
pullulata altra Venere novella,
casta però, modesta, e verginella.
LA NOVELLETTA
La vera Dea d’Amor, che dal Ciel mira
cotanto insolentir donna mortale,
e vede pur, che ’ndegnamente aspira
a divin culto una bellezza frale;
impaziente a sostener più l'ira,
dàssi in preda ai furori in guisa tale,
che crollando la fronte, e '1 dito insieme,
questi accenti fra sé mormora e freme:
« Or ecco là chi da’ confusi Abissi
l’Universo costrusse, e ’l Ciel compose;
per cui distinto in bella serie aprissi
l’antico Seminario de le cose;
colei ch’accende i lumi erranti e i fìssi,
e ne fa sfavillar fiamme amorose;
di quanto è nato e quanto pria non era
la madre prima, e la nutrice vera!
Con la mia deità dunque concorre
un corpo edificato d’elementi?
Soffrirò ch’ogni vanto a me di tórre
créatura caduca ardisca e tenti ?
che sovra Tare sue vittime a porre
sprezzando i templi miei, vadan le genti ?
che ’l sacro nome mio con riti insani
in suggetto mortale or si profani?
Sì sì soffriam, che con oltraggio indegno
nostra compagna pur costei si dica;
che commune abbia meco il Nume e ’l regno
la mia Vicaria in terra, anzi nemica.
Ancor di più dissimuliam lo sdegno
che siam dette io lasciva, ella pudica;
ond’io ceda in tal pugna, e far non basti
che non mi vinca ancor, non che contrasti.
CANTO QUARTO
205
19. Deh che mi vai, già figlia al gran Tonante,
posseder d’ogni onor le glorie prime?
e poter de la via bianca e stellante
a mio senno varcar l’eccelse cime ?
Qual prò, ch’ogni altro Dio m’assorga avante
come a Dea tra le Dee la più sublime ?
e che quantunque il Sol vede e camina
mi conosca e confessi alta Reina ?
20 Lassa, i’ son pur colei ch’ottenni in Ida
titolo di beltà sovra le belle,
e ’l litigato d’òr pomo omicida
trionfando portai meco a le stelle;
che fu principio a così lunghe strida,
ed ésca de l’Argoliche fiammelle;
onde sorser tant’armi, e tanti sdegni,
per cui già d’Asia incenerirò i regni!
21. Ed or fia ver, che ’n temeraria impresa
la palma una vii fernina mi tolga?
Attenderò che fin in Cielo ascesa
l’orbe mio, la mia stella aggiri e volga?
Ah di divina maéstate offesa
giusto fia ben, ch’ornai si penta e dolga:
ché l’ingiuria in colui che tempo aspetta
cresce col differir de la vendetta.
22. Qualqual si sia, l’usurpatrice ardita
del grado altier di sì sublime altezza,
non molto gioirà, non impunita
n’andrà lunga stagion di sua sciocchezza.
Vo’ che s’accorga alfìn tardi pentita
che dannosa le fu tanta bellezza.
Stolta de balte Dive emula audace,
io ti farò ... » Qui tronca i detti, e tace.
200
LA NOVELLETTA
23. Il carro ascende, e d’impiegar disegna
del figlio in quest’affar le forze e l’armi.
Ma convien ch’i suoi Cigni a fren ritegna,
ché dubbiosa non sa dove trovarmi.
Per le belle contrade, ov’ella regna,
ili lido in lido invan prende a cercarmi,
poi che quivi e per tutto in terra e ’n Cielo
come e quando mi piace, altrui mi celo.
24. Prendo qual forma voglio a mio talento
e con Tacque e con l’aure io mi confondo.
Talor grande così mi rappresento,
che visibil mi faccio a tutto il mondo.
Talvolta poi sì picciolo divento
ch’entro il giro d’un occhio anco m’ascondo.
infin son tal, che ben che m’abbia in seno,
chi più mi sente mi conosce meno.
25. Lascia la Grecia e prende altri sentieri,
vaga d’udir novelle ov’io mi sia;
né più de l’Asia entro i famosi imperi
de le vestigia mie la traccia spia:
ma stimulando i musici corsieri,
verso le piagge italiche s’invia;
ché sa ben quanto in que’ fioriti poggi
vie più ch’altrove, io volentieri alloggi.
26. Giunge in Adria la bella, e quivi intese
che v’albergava il mio nemico Onore,
e Beltà cruda, ed Onestà cortese,
Nobiltà, Maestà, Senno e Valore.
Passò poscia a Liguria, e vi comprese
apparenza d’Amor vie più ch’Amore:
ch’io ne’ begli occhi e ne’ leggiadri aspetti
sol vi soglio abitar, ma non ne’ petti.
CANTO QUARTO
20 7
27. Vide poi la Marecchia e ’l Serchio e ’l Varo,
la Brenta, il Brembo e la Livenza e ’l Sile,
e l’Adda, e l’Oglio, e ’l Bacchiglione al paro,
superbo il Mincio, il picciol Rheno umile,
il Tanaro, il Tesin, la Parma e ’l Taro
e la Dora, che d’or riveste Aprile,
e Stura e Sesia, e di fresche ombre opaco
da foce aurata scaturir Benaco.
28. Quindi al gran trono degli Herculei Regi
su ’l Po volando i bianchi augei rivolse,
dove ricca sedea d’illustri fregi
la Città che dal Ferro il nome tolse.
Ma le fu detto che Fortuna i pregi,
di cui fiorir solea, sparse e disciolse.
Mille già v’ebbi un tempo e palme e prede,
poi tra Secchia e Panara io cangiai sede.
29. Non lunge dal maggior fiume toscano
vide l’Arbia con l’Ombro, indi il Metauro,
e con l’Isapi suo minor germano
presso il Ronco e ’l Monton correr l’Isauro,
e ’l Tremisen, là dove il verde piano
vermiglio diverrà del sangue mauro,
e dal freddo Appennin discender Trebbia,
genitor di caligine e di nebbia.
30. Tra’ campi arrivò poi fertili e molli,
dove del Tebro il mormorio risona,
e de’ suoi sette trionfanti colli
il gran capo del Lazio s’incorona.
Ma seppe quivi furiosi e folli
più tosto soggiornar Marte e Bellona,
e con Perfidia e Crudeltà tra loro
baccar sete di sangue, e fame d’oro.
208
LA NOVELLETTA
31. Poscia che quindi le Lombarde arene
ha tutte scorse, e quanto irriga l’Arno,
e quinci di Clitunno e d’Ani'ene
e d’altri frati lor le rive indarno;
a visitar dal Gariglian ne viene
Grati, Liri, Volturno, Aufido e Sarno,
e vede ime tra lor pomposo e lieto
degli onori di Bacco il bel Sebeto.
32. Quivi tra Ninfe amorosette e belle
trovommi a conquistar spoglie e trofei.
E se ben tempo fu ch’io fui di quelle
già prigionier con mille strazii rei,
alme però non ha sotto le stelle
che sien più degni oggetti a’ colpi miei;
né so trovar altrove in terra loco
dove più nobil esche abbia il mio foco.
33. Allor mi stringe entro le braccia, e mille
groppi mi porge d’infocati baci,
poi per l’oro immortai, per le faville
de le quadrella mie, de le mie faci
quanto può mi scongiura, e vive stille
mesce di pianto a suppliche efficaci,
che senza vendicarla io non sopporti
più lungamente i suoi dispregi, e i torti.
34. De la bella Rubella in voce amara
l’orgoglio e ’l fasto a raccontar mi prende,
e come seco in baldanzosa gara
contumace beltà pugna e contende.
Distinto alfine il suo desir dichiara,
e quanto brama ad esseguir m’accende:
vuol che di strai villano il cor le punga,
e ch’a sposo infelice io la congiunga.
CANTO QUARTO
209
35. Uom, che povero d'or, colmo di mali,
e da Natura e da Fortuna oppresso
sia cadavere vivo in fra i mortali,
sì ch’abbia invidia ai morti, odio a se stesso,
e senza essempio di miserie eguali
tutto vóti Pandora il vaso in esso:
ch’a tal consorte, in tal prigion la stringa
mi comanda, mi prega, e mi lusinga.
36. Scòrgemi intanto al loco ove m’addita
la meraviglia de le cose belle,
che circondata intorno e custodita
da vago stuol di leggiadrette ancelle,
par tra le spine sue Rosa fiorita,
par la Luna, anzi il Sole in fra le stelle.
« Mira colà, quella è la rea » mi dice
« de le bellezze mie competitrice ».
37. Dal carro, che con morso aureo raffrena,
scioglie, ciò detto, le canute guide,
e d’un Delfino in su l’arcuta schiena
solca le vie de’ pesci, e ’l mar divide.
Così di Cipro a la nativa arena
torna, che lieta al suo ritorno arride,
lid io rimango a contemplar soletto
quel sovruman, sovradivino oggetto.
38. Veggio doppio Oriente, e veggio dui
cieli, che doppio Sol volge e disserra,
dico que’ lumi perfidi, ch’altrui
uccidon prima, e poi bandiscon guerra;
sì che mirando un cor quel bello, a cui
paragon di beltà non ha la terra,
quando pensa al riparo il malaccorto,
e vuol chieder mercé, si trova morto.
210
LA NOVELLETTA
39. Né de le guance la vermiglia Aurora
al Sol degli occhi di bellezza cede;
i cui candori un tal rossor colora
qual in non còlto ancor pomo si vede.
Ombra soave, ch’ogni cor ristora,
un rilievo vi fa, che non eccede,
e con divorzio d’intervallo breve
distingue in duo confin l’ostro e la neve.
40. Somiglia intatto fior d’acerba rosa,
ch’apra le labra de le fresche foglie,
l’odorifera bocca e preziosa,
ch’un tal giardino, un tal gemmaio accoglie
che l’India non dirò, ricca e famosa,
ma ’l Ciel nulla ha di bel, s’a lei noi toglie.
Se parla o tace, o se sospira o ride
(che farà poi baciando?) i cori uccide.
41. In reticella d’òr la chioma involta,
più ch’ambra molle, e più ch’elettro bionda,
n cfrotfn in norìi r» in vacrhp trocrp accolta
'-—- , _ - o
o su gli omeri sparsa ad onda ad onda,
tanto tenace più quanto più sciolta,
tra procelle dorate i cori affonda.
L’aure imprigiona, se talor si spiega,
e con auree catene i vènti lega.
42. Che dirò poi del candidetto seno,
morbido letto del mio cor languente?
ch’a’ bei riposi suoi, quando vien meno,
duo guanciali di gigli offre sovente?
Di neve in vista e di pruine è pieno,
ma ne l’effetto è loco e fiamma ardente:
e l'incendio, che ’n lor si nutre e cria,
le Salamandre incenerir poria.
CANTO QUARTO
21 I
43. Quand’ebbi quel miracolo mirato,
dissi fra me, da me quasi diviso:
« Sono in Ciel ? sono in terra ? il Ciel traslato
è forse in terra? o Cielo è quel bel viso?
Sì sì, son pur lassù, son pur beato
tuttavia (come soglio) in Paradiso!
Veggio la gloria degli eterni Dei.
La bella madre mia non è costei?
44. Xo che non è: vaneggio! il ver confesso,
Venere da costei vinta è di molto.
Ahi che ’l pregio a la madre a un punto istesso
ed al figlio egualmente il core ha tolto!
Chi può senza morir mirar l’eccesso
di sì begli occhi (oimè) di sì bel volto,
vadane ancora poi, vada e s’arrischi
a mirar pur securo i Basilischi !
45. O macelli de’ cori, occhi spietati,
di chi morir non potè anco omicidi,
voi voi possenti a soggiogare i Fati
siate le sfere mie, siate i miei nidi.
In voi l'arco ripongo, e i dardi aurati,
che se poi contro me saranno infidi,
più cara (in tali stelle è la mia sorte)
ile l’immortalità mi fia la morte ».
46. Veggiola, mentre parlo, in atti mesti
starsi sola in disparte a trar sospiri;
ché quantunque le sue più che celesti
forme, ben degne degli altrui desiri,
da mille lingue e da quegli occhi e questi
vagheggiate e lodate il mondo ammiri,
alcun non v’ha però di genti tante
che cheggia il letto suo, cupido amante.
212
LA NOVELLETTA
47. Le suore, ancor che fussero appo lei
vie più d’età che di beltà fornite,
a grandi Eroi con nobili imenei
per giogo maritale erano unite.
Ma Psiche, unico Sol degli occhi miei,
parca da l’olmo scompagnata vite,
e ne menava in dolorosi affanni
sterili e senza frutto i più verd’anni.
48. Il miser genitor, mentr’ella geme
l’inutil solitudine che passa,
perché l’ira del Ciel paventa e teme,
che spesso ai maggior Re l’orgoglio abbassa,
pensoso e tristo in fra sospetto e speme
la cara patria e ’l dolce albergo lassa,
e va per esplorar questo secreto
da l’Oracolo antico di Mileto.
49. Là dove giunto poi, porge umilmente
incensi e preghi al chiaro Dio crinito,
da cui supplice chiede e reverente
a l’infeconda sua nozze e marito.
Ed ecco intorno rimbombar si sente
spaventoso fragor d’alto muggito,
e col muggito alfin voce nascosta
da le cortine dar questa risposta:
50. « La Fanciulla conduci in scoglio alpino
cinta d’abito bruno e funerale.
Né genero sperar dal tuo destino
generato d’origine mortale,
ma feroce, crudele, e viperino,
ch’arde, uccide, distrugge, e batte l’ale,
e sprezza Giove, ed ogni Nume eterno:
temuto in Terra, in Cielo, e ne l’Inferno ».
CANTO QUARTO
213
51. Pensa tu qual rimase, e qual divenne
il sovr’ogni altro addolorato Vecchio.
Pensa qual ebbe il cor, quando gli venne
la sentenza terribile a l’orecchio.
Torna ne’ patrii tetti a far sollenne
di quelle pompe il tragico apparecchio,
accinto ad ubbidir, quantunque afflitto,
del decreto d'Apollo al sacro editto.
52. Del vaticinio infausto e de l’aversa
sorte nemica si lamenta e lagna,
e con l’amare lagrime che versa,
de le rughe senili i solchi bagna;
e la stella accusando empia e perversa
l’antica moglie i gemiti accompagna,
e pietoso non men piagne con loro
«le le figlie dolenti il flebil coro.
53. Ma del maligno inevitabil fato
il tenor violento è già maturo.
De l’influsso crudel già minacciato
giunto è l’Idol mio caro al passo duro.
Raccoglie già con querulo ululato
la bella Psiche un cadaletto oscuro,
la qual non sa fra tanti orrendi oggetti
se ’l talamo o se ’l tumulo l’aspetti.
54 Di velo avolti tenebroso e tetro,
e d’arnesi lugubri in vesta nera
van padre e madre il nuzzial feretro
accompagnando, e le sorelle in schiera.
Segue la bara il parentado, e dietro
vien la Città, vien la Provincia intera,
e per tale sciagura odesi intanto
del popol tutto un publico compianto.
214
LA NOVELLETTA
55. Ma più d’ogni altro il Re meschin piangendo
sfortunato s’appella ed infelice,
e gli estremi da lei baci cogliendo
la torna ad abbracciar, mentre gli lice.
«Così dunque da te congedo io prendo?
Così figlia mi lasci? » egli le dice.
« Son questi i fregi ? (oimè) la pompa è questa,
ch’ai tuo partire il patrio regno appresta ?
56. In essequie funebri inique stelle
cangian le nozze tue liete e festanti ?
le chiare tede in torbide facelle ?
le tibie in squille, e l’allegrezze in pianti?
Sono i crotali tuoi roche tabelle?
Ti son gl’inni e le preci applausi e canti?
E là dove destin crudo ti mena
reggia il lido ti fia, letto l’arena?
57. Oh troppo a te contrario, a me nemico,
implacabil rigor d’avari Cieli!
Te del tuo bel, me del mio ben mendico
perché denno lasciar fati crudeli?
Qual tua gran colpa, o qual mio fallo antico,
cagion che tu t’aftligga, io mi quereli,
te condanna a morire, ed a me serba
in sì matura età doglia sì acerba?
58. Ad esseguir quanto lassù si vole
dura necessità (lasso) m’affretta,
e vie più ch’altro, mi tormenta e dole
ch’a si malvagio sposo io ti commetta.
Ch’io deggia in preda dar l’amata prole
a mostro tal, che l’Universo infetta,
questo so ben, che ’l fil farà più corto
che fu da C loto a la mia vita attorto.
CANTO QUARTO
215
59. Ma poi che pur la Maestà superna
così di noi disporre or si compiace,
cancellar non si può sua legge eterna,
ma convien, figlia mia, darsene pace.
De’ consigli di lui che ne governa
è l’umano saver poco capace,
poi che i giudicii suoi santi e divini
son ordinati a sconosciuti fini.
60. Ben ch’a sposar lo struggitor del mondo
ti danni Apollo in suo parlar confuso,
chi sa s’altro di meglio in quel profondo
Archivio impenetrabile sta chiuso?
Spesso effetto sortì lieto e giocondo
temuto male, ond’uom restò deluso.
Servi al Ciel, soffri, e taci ». E con tai note
verga di pianto le lanose gote.
61. La sconsolata e misera Donzella
vede ch’ei viva a sepelir la porta,
e tal sollennità ben s'accorg’ella
ch’a sposa no, ma si conviene a morta;
magnanima però non men che bella,
l’altrui duol riconsola e riconforta,
e i dolci umori, onde il bel viso asperge,
col vel purpureo si rasciuga e terge.
62. «Che vai pianger? » dicea, «che più versate
lagrime intempestive, e senza frutto?
A che battete i petti, ed oltraggiate
di livore e di sangue il viso brutto?
Ah non più no; di lacerar lasciate
la canicie del crin con tanto lutto,
offendendo con doglia inefficace
e la vostra vecchiezza, e la mia pace.
2 l6
LA NOVELLETTA
63. Fu già, quando la gente a me porgea
(al Ciel dovuto) onor profano ed empio,
quando quasi d’Amor più bella Dea
ebbi (voi permettenti) altare e tempio,
allor fu da dolersi, allor devea
pianger ciascuno il mio mortale scempio.
Or è il pianto a voi tardo, a me molesto:
di mia vana bellezza il fine è questo.
64. L’Invidia rea, che l’altrui ben pur come
suo proprio male aborre, allor mi vide.
I’ so pur ben, che l’usurpato nome
de la celeste Venere m’uccide.
Che bado? andianne pur; quest’auree chiome
con vii ferro troncate, ancelle fide.
Quel sì temuto ornai consorte mio
già di veder, già d’abbracciar desio ».
65. Qui tace, e già d’una montagna alpestra
eccola intanto giunta a la radice,
ch’ai Sol volge le terga, e piega a destra
sotto il gran giogo l’ispida cervice.
Quindi di sterpi e selci aspra e silvestra
pende sassosa e ripida pendice,
rigida sì, ch’a pena s’assecura
d’abitarvi l’orror con la paura.
66. Il mar sonante a fronte ha per confine,
da’ fianchi acute pietre e schegge rotte,
dirupati macigni e rocche alpine,
oscure tane e cavernose grotte,
precipizii profondi, alte ruine,
dove riluce il dì come la notte,
dove inospiti sempre, e sempre foschi
dilatan l’ombre lor baratri e boschi.
CANTO QUARTO
21 7
67. Ecco l’infausto monte, ov’a fermarsi
ne venne il funeral tragico e mesto.
Quivi ha (quant’ognun crede) a consumarsi
il maritaggio orribile e funesto.
Ond’ai fieri imenei da celebrarsi
scelto già per teatro essendo questo,
dopo lagrime molte al vento sparte
la mestissima turba alfin si parte.
68. Partissi alfin, poi che tesor sì caro
depositò nel destinato loco,
lasciando nel partir col pianto amaro
de le fiaccole sacre estinto il foco.
Ai regii alberghi i genitor tornaro,
e la luce vital curando poco,
dannaro gli occhi a lunga notte oscura,
e si chiusero vivi in sepoltura.
69. Restò la Giovinetta abbandonata
su la deserta e solitaria riva,
sì trerqante, sì smorta, e sì gelata,
ch’a pena avea nel cor l’anima viva.
Veder quivi languir la sventurata
quasi di senso e movimento priva,
de Tonde esposta al tempestoso orgoglio,
altro già non parea, che scoglio in scoglio.
70. Le man torcendo, e ’n vermiglietti giri
dolcemente incurvando i mesti lumi,
con che lagrime (o Dio) con che sospiri
si scioglie in acque, e si distempra in fumi!
Ma raccogliendo il mar tra’ suoi zaffiri
de le stille cadenti i vivi fiumi,
ambizioso e cupido d’averle,
le serba in conche, e le trasforma in perle.
2 18
LA NOVELLETTA
71. Con le inan su ’l ginocchio, in terra assisa,
filando argento da’ begli occhi fore,
china al petto la fronte, e ’n cotal guisa
tra se stessa consuma il suo dolore.
Poi, mentre ai salsi flutti il guardo affisa,
sfoga parlando l’angoscioso core,
e perde, apostrofando al mar crudele,
tra gli strepiti suoi queste querele:
72. « Deh placa, o Mare, i tuoi furori alquanto,
pietoso ascoltator de’ miei cordogli,
e di quest’occhi il tributario pianto,
che ’n larga vena a te sen corre, accogli.
Teco parlo, or tu m’odi, e fa’ che ’ntanto
abbian quest’onde tregua, e questi scogli;
né sen portino in tutto invidi i venti,
come fér le speranze, anco i lamenti.
73. Nacqui agli scettri, e ’n su i reali scanni
più di me fortunata altra non visse.
Bella fui detta, e ’l fui, se senza inganni
lo mio specchio fedele il ver mi disse.
Or a quel fin su ’l verdeggiar degli anni
corro, che ’l fato al viver mio prescrisse,
abbandonando in su l’età fiorita
la bella luce, e la serena vita.
74. Di ciò non mi dogl’io, né mi lamento
de la bugiarda adulatrice speme;
né del colpo fatai prendo spavento,
che mi porti sì tosto a l’ore estreme.
Chi sol vive al dolore ed al tormento,
e suol vita aborrir, morte non teme;
a chi mal vive il viver troppo è greve,
chi vive in odio al Ciel viver non deve.
CANTO QUARTO
219
75. Lassa, di quel ch’io soffro, aspro martire,
vie maggiore e più grave è il mal ch'attendo.
Ch’io deggia entro il mio seno (oimè) nutrire
un mostro abominevole ed orrendo:
questo innanzi al morir mi fa morire,
questo morte sprezzar mi fa morendo.
Deh dammi pria ch’un tanto mal succeda,
Padre Nettuno, a le tue fere in preda.
76. Se provocò del Ciel l’ira severa
da me commesso alcun peccato immondo,
e da te deve uscir l’orrida Fera
che me divori e che distrugga il mondo,
ha ventura miglior ch’absorta io péra
da questo ingordo pelago profondo.
Più tosto il ventre suo tomba mi sia,
e lavin Tacque tue la macchia mia.
77. Ma s’egli è ver, che pur a torto, e senza
colpa incolpata e condannata io mora,
e se Nume è lassù, che l’innocenza
curi, e prego devoto oda talora,
da lui cheggio pietà, spero clemenza;
e quando il reo destin sia fermo ancora,
venga (e ’l suo nero strale in me pur scocchi)
Morte per sempre a suggellar quest’occhi ».
78. Più altro, ch’io ridir né so, né posso,
parlava la dolente al sordo lito,
ch’avria qual cor più perfido commosso,
anzi il porfido istesso intenerito.
Il cavo scoglio mormorar percosso
per gran pietà fu d’ognintorno udito;
e rispondendo in roche voci e basse
parea che de’ suoi casi il mar parlasse.
220
LA NOVELLETTA
79. Per risguardar chi sia, che si consuma
in note pur sì dolorose e meste,
rompendo in spessi circoli la spuma
molte Xinfe e Tritoni alzar le teste.
Ma vinti da quel Sol che Tacque alluma,
e tocchi il freddo sen d’ardor celeste,
per fuggir frettolosi, i bei cristalli
seminaro di perle, e di coralli.
So. Mentre là dove il vertice s’estolle
de l’erta rupe è posta in tale stato,
novo sente spirar di lungo il colle
di mill’aure Sabee misto odorato,
indi d’un aere dilicato e molle
sibilar sussurrar placido fiato,
che dolcemente rincrespando Tonde,
fa tremar l’ombre, e sfrascolar le fronde.
81. Era Zefiro questi. Io già, che ’ntento
altrove non avea l’occhio e ’l pensiero,
volsi far quel benigno amico vento
de le mie gioie essecutor Corriero.
flonfia la mobil gonna, e piano e lento
col suo tranquillo spirito leggiero
da la scoscesa e riiinosa balza
senz’alcun danno ei la solleva ed alza.
S2. E colà presso, ove di fior dipinta
fa sponda al mar quella valletta erbosa,
e di giovani allori intorno è cinta,
sòavissimamente alfin la posa.
Qui da novo stupor confusa e vinta
su ’l fiorito pratel siede pensosa,
che fresco insieme e morbido le serba
tetto di fronde, e pavimento d’erba.
CANTO QUARTO
22 t
83. Poi che ’l dolor, che de’ suoi sensi è donno,
satollato ha di pianti e di lamenti,
stanca ornai sì, che le palpebre ponno
a pena sostener gli occhi cadenti;
viensene il sonno a tòrla in braccio, il sonno,
tranquillità de le turbate menti.
Dal sonno presa al fremito de Tacque
su ’l verde smalto addormentossi e giacque.
84. Negli epicicli lor duo Soli ascosi
i begli occhi parean de la mia Psiche,
dove chiusi traean dolci riposi
da l’amorose lor lunghe fatiche.
Duo padiglioni lievemente ombrosi
le velavan le luci alme e pudiche.
Le belle luci, onde languisco e moro,
legate eran dal sonno, e io da loro.
83. Vedesti a la stagion quando le spine
fìoriscon tutte di novella prole,
sparso di fresche perle e mattutine,
piantato in riva al mar, nascosto al Sole,
spiegar il molle e giovinetto crine
giardinetto di gigli e di viole?
Dirai ben tal sembianza assai conforme
a la leggiadra Vergine che dorme.
86. Così posava, e vidi a un tempo istesso
liev’aura, aura vezzosa, aura gentile
scherzarle intorno, e ventilarle spesso
il crespo de la chioma oro sottile.
Per baciarla talor si facea presso
a quella bocca, ov’è perpetuo Aprile;
ma timidetta poi, quanto lasciva,
da’ respiri respinta, ella fuggiva.
222
LA NOVELLETTA
87. I’ non so già se Zefiro cortese
fu, che spettacol dolce allor m’offerse,
che la tremula vesta alto sospese
e de le glorie mie parte m’aperse.
So ben, che con sua neve il cor m’accese
quando il confin del bianco piè scoverse.
Scoverse il piede, e de l’ignuda carne
quanto a casta beltà lice mostrarne.
88. Poi ch’assai travagliato, e poco queto
in più pezzi ha carpito un sonno corto,
destasi, e da quel loco ameno e lieto
piover si sente al cor novo conforto.
Sorge da l’odorifero roseto,
e qua ne vien, dove ’l mio albergo ha scorto.
Questo istesso Palagio, ov’ora sei,
come raccoglie te, raccolse lei.
89. Nel limitar de la gemmata soglia
mette le piante, e va mirando intorno.
Mira il bel muro, e di pomposa spoglia
di fulgid’oro il travamento adorno
sì che può far (quantunque il Sol non voglia)
col proprio lume a se medesmo il giorno.
Mira gli archi, le statue, e l’altre cose,
che senza prezzo alcun son preziose.
90. Senza punto inchinar le luci al basso
del tetto ammira le mirabil opre,
ma pur del tetto il rilucente sasso
la superbia del suol chiara le scopre.
Stupisce il guardo, e si trattiene il passo
al bel lavor che ’l pavimento copre:
perché tante ricchezze in terra vede
che di calcarle si vergogna il piede.
CANTO QUARTO
■2^3
91. Ella rapita da sì ricchi oggetti
entra, e d’alto stupor più si confonde,
poi ch’a la maestà di tai ricetti
ben la gran supellettile risponde.
Ecco, dove al cantar degli augelletti
fermossi; ivi spiegò le trecce bionde;
qui, poi che intorno a spaziar si mise,
respirò dolcemente, e qui s’assise.
92. Quel che più l’empie il cor di meraviglia,
è che negletto è qui quanto si gode.
Casa sì signoril non ha famiglia,
abitante non vede, ostier non ode.
Castaldo alcun di lei cura non piglia,
né di tanto tesor trova custode.
Vaga con gli occhi, e ’l vago piè raggira:
tutto insomma possiede, e nessun mira.
93. Voce incorporea intanto ode, che dice:
<1 Di che stupisci? o qual timor t’ingombra?
Sappi cauta esser sì, come felice:
ornai dal petto ogni sospetto sgombra.
Non bramar di veder quel che non lice,
spirito astratto, ed impalpabil ombra.
Gli altri beni e piacer tutti son tuoi,
ciò che qui vedi, o che veder non puoi ».
94. Da non veduta man sentesi in questa
d’acque stillate in tepida lavanda
condur pian piano, indi spogliar la vesta,
e i bei membri mollir per ogni banda.
Dopo i bagni e gli odor, mensa s’appresta
coverta di finissima vivanda ;
e sempre ad operar pronte e veloci
son sue serve e ministre ignude voci.
LA NOVELLETTA
22 4
95. Dato al lungo digiun breve ristoro
con cibi che del Ciel foran ben degni,
entra pur a la vista occulto coro,
sceso quaggiù da’ miei beati regni,
concordando lo stil dolce e canoro
a la facondia degli arguti legni.
Ben che né di cantor, né di stromenti
scorga imagine alcuna, ode gli accenti.
96. Già l’Oblio taciturno esce di Lethe,
già la notte si chiude, e ’l di vien manco,
e le stelle cadenti e l’ombre chete
persuadono il sonno al mondo stanco:
onde disposta alfin di dar quiete
al troppo dianzi affaticato fianco,
ricovra a letto in più secreto chiostro,
piumato d’oro, incortinato d’ostro.
97. Allor mi movo al dolce assalto, e tosto
ch’entro la stanza ogni lumiera è spenta,
invisibile amante, a lei m’accosto,
che dubbia ancor, ciò che non sa paventa.
Ma se l’aspetto mio tengo nascosto,
le scopro almen l’ardor che mi tormenta,
e da lagrime rotti e da sospiri
le narro i miei dolcissimi martiri.
98. Ciò ch’ai buio tra noi fusse poi fatto
(più bel da far, che da contar) mi taccio.
Lei consolata alfin, me sodisfatto,
basta dir, ch’amboduo ne strinse un laccio.
De la vista il difetto adempie il tatto,
quel che cerca con l’occhio, accoglie in braccio,
s’appaga di toccar quel che non vede,
quanto a l’un senso nega, a l'altro crede.
CANTO QUARTO
225
99. Ma su ’1 bel carro a pena in Oriente
venne de l’ombre a trionfar l’Aurora,
e i suoi destrier con l’alito lucente
fugate non avean le stelle ancora,
quando al bell'Idol mio tacitamente
uscii di braccio, e sorsi innanzi l’ora.
Innanzi che del Sol l’aurato lume
spandesse i raggi suoi, lasciai le piume.
100. Tornan da capo a la medesma guisa
l’ascose ancelle ed aprono i balconi,
e de la sua virginitate uccisa
motteggian seco, ed ecco i canti e i suoni.
Si leva, e lava, ed ode a mensa assisa
epitalami in vece di canzoni,
e le son pur non conosciute genti
Camerieri, Coppier, Scalchi e Sergenti.
ior. Così da l’uso assecurata, e fatta
più coraggiosa ornai da la fidanza,
già già meco e co’ miei conversa e tratta
con minor pena, e con maggior baldanza.
E leggiadra e gentil (se ben s’appiatta)
imaginando pur la mia sembianza,
dal suono incerto de la voce udita
prende trastullo a la solinga vita.
102. Ma quant’ella però contenta vive,
tanto menano i suoi vita scontenta;
e di tal compagnia vedove e prive
più d’ogni altro le suore il duol tormenta.
Vigilando il pensier lor la descrive,
dormendo il sogno lor la rappresenta;
ond’alfin per saver ciò che ne sia,
là dove la lasciàr, prendon la via.
15
226
LA NOVELLETTA
103. Io (come soglio) in su la notte ombrosa
seco in tal guisa il ragionar ripiglio:
« Psiche caro mio cor, dolce mia sposa.
Fortuna ti minaccia alto periglio,
là dove uopo ti fia d’arte ingegnosa,
di cautela sottile, e di consiglio.
Ignoranti del ver, le tue sorelle
di te piangendo ancor cercan novelle.
104. Su que’ sassi colà ruvidi ed erti,
onde campata sei, son già tornate.
Io farò (se tu vuoi) per compiacerti,
che sieno a te da Zefiro portate.
Ma ben t’essorto (a quant’io dico avèrti)
fuggi le lor parole avelenate.
Nel resto io ti concedo interamente
che le lasci da te partir contente.
105. Vo’ che de’ petti lor l’avare fami
satolli a piena man d’argento e d’oro.
Non ti lasciar però (se punto m’ami)
persuader da le lusinghe loro.
Non l’ascoltar; se d’ascoltarle brami,
pensa ascoltar de le Sirene il coro,
dal cui dolce cantar tenace e forte,
mascherata di vita, esce la morte.
106. E se pur troppo credula vorrai
prestar fede a la coppia iniqua e ria,
in ciò ti prego almen non l’udir mai,
in cercar di saver qual io mi sia.
Con un tardo pentir (se ciò non fai)
ti soverrà de l’avertenza mia.
A me sarai cagion di grave affanno,
ed a te porterai l’ultimo danno ».
CANTO QUARTO
22 7
107. Taccio, ed ella ascoltando i miei ricordi,
promette d’osservar quanto desio.
* Di me stessa » dicea « fia che mi scordi
pria che gli ordini tuoi ponga in oblio.
A’ tuoi fìan sempre i miei desir concordi,
tu se’ (qualunque sei) lo spirto mio.
Abbine di mia fé pegno securo,
per me, per te, per Giove stesso il giuro ».
108. Già dando volta al bel timon dorato,
e de’ monti indorando ornai le cime,
il carro di Lucifero rosato
da le nubi vermiglie il giorno esprime;
quando a quel dir svanitole da Iato,
volo per l’aure, e fo portar sublime
l’indegna coppia innanzi a la mia vita
dal bel Signor de la stagion fiorita.
109. Le ’ncontra, e bacia, e ’n dolci atti amorosi
fa lor liete accoglienze, ossequii cari.
Le ’ntroduce a la Reggia, ov’entro ascosi
servon senza scoprirsi i famigliari.
Tra ricchi arnesi e tra tesor pomposi
trovan cibi e lavacri eletti e rari,
sì ch’elle a tanto cumulo di bene
già nutriscon l’invidia entro le vene.
110. Le dimandan chi sia di cose tante
signor, di che fattezze il suo diletto.
Ella fin a quel punto ancor costante
non obliando il maritai precetto,
s’infinge, e dice: « 11 mio gradito amante
è più ch’altro leggiadro un giovinetto;
ma l’avete a scusar, ch’agli occhi vostri,
occupato a le cacce, or non si mostri ».
2 28
LA NOVELLETTA
ni. Ciò detto, le ribacia, e le rimanda
colme di gemme e di monili il seno.
Ai cari genitor si raccomanda,
poi le consegna al venticel sereno,
che presto ad esseguir quanto comanda,
rapido più che strale, o che baleno,
con vettura innocente in braccio accolte
le riporta a lo scoglio onde l’ha tolte.
112. Elle di quel velen tutte bollenti,
che sorbito pur dianzi avea ciascuna,
borbottavan tornando, e ’n tali accenti
con l’altra il suo furor sfogava l’una:
« Or guata cieca, ingiusta, e da le genti
forsennata a ragion detta Fortuna!
Tal de’ meriti umani ha cura e zelo?
e tu tei vedi, e tu tei soffri o Cielo?
113. Figlie d’un ventre istesso al mondo nate
perché denno sortir sorti diverse ?
Noi le prime e maggior maifortunate
tra le sciagure e le miserie immerse;
ed or costei, che ’n su Tcstrcma ctatc
già stanco in luce il sen materno aperse,
se fu del nostro ben trista pur dianzi,
lieta del nostro mal ha per l’innanzi.
114. Un marito divin chi né godere
né conoscer sei sa, gode a sue voglie.
Vedesti tu per quelle stanze altere
quante gemme, quant’oro, e quali spoglie ?
S'egli è pur ver, che con egual piacere
giovane così fresco in braccio accoglie,
e di tanta beltà quant’ella dice,
più non vive di lei donna felice.
CANTO QUARTO
229
115. Altri certo non può che Dio celeste
esser l’autor di meraviglie tali;
e s’ei pur l’ama (com’appar da queste)
la porrà tra le Dee non più mortali.
Non vedi tu, ch’ad ubbidirla preste
insensibili forme e spiritali,
quasi vili scudier, move a suo senno ?
comanda ai venti, ed è servita a cenno?
116. Misera me, cui sempre il letto e ’l fianco
ingombra inutilmente un freddo gelo,
impotente fanciullo e vecchio bianco,
uom che vetro ha la lena, e neve il pelo!
Né sposo alcun, sì come infermo e stanco,
più spiacente e geloso è sotto il cielo,
che custode importun la casa tiene
sempre di ferri cinta, e di catene ».
117. « Ed io » l’altra soggiunge « un ne sostegno
impedito dal morbo e quasi attratto,
e calvo, e curvo, e men che sasso o legno
ai congressi amorosi abile ed atto:
cui più serva che moglie esser convegno,
con le cui ritrosie sempre combatto;
convienimi ognor curarlo; e ’n tali affanni
vedova, e maritata, io piango gli anni.
118. Ma tu sorella (con ardir ti parlo)
con cor troppo servii soffri i tuoi torti,
lo non posso per me dissimularlo
né più oltre sarà che mel sopporti.
Mi rode il petto un sì mordace tarlo,
che non trovo pensier che mi conforti.
Animo generoso aborre e sdegna
tal ventura caduta in donna indegna.
2}°
LA NOVELLETTA
ng. Non ti sovien con qual superbia, e quanto
fasto, quantunque a non curarla avezze,
poi che n’accolse, ambizioso vanto
si diè di tante sue glorie e grandezze?
E pur a noi (ben che n’abondi tanto)
poca parte donò di sue ricchezze;
e poi che fastidita ne rimase,
sùbito ne scacciò da le sue case.
120. Quando a farla pentir di tanto orgoglio
vogli tu (come credo) unirti meco,
esser detta mai più donna non voglio
sa mortai precipizio io non la reco.
Per or tornando al solitario scoglio,
nulla diciam d’aver parlato seco.
Non facciam motto del suo lieto stato,
per non farlo col dir vie più beato.
121. Assai noi stesse pur visto n’abbiamo,
e di troppo aver visto anco ne spiace!
A que’ poveri alberghi ornai torniamo,
dove mai non Si gode uia di pace.
Là consiglio miglior vo’ che prendiamo
a punir di costei l’insania audace:
onde s’accorga alfin d’aver sorelle
suo malgrado più degne, e non ancelle! *
122. Tal accordo conchiuso, a quella parte
le scelerate femine sen vanno,
e con guance graffiate e chiome sparte
pur l’usato lamento a prova fanno.
I ricchi doni lor celano ad arte,
tra sé ridendo de l'ordito inganno.
Così con finti pianti e finti modi
van machinando le spietate frodi.
CANTO QUARTO
2 3*
123. Tosto che la stagion serena e fosca
l'aere abbraccia dintorno, io l’ali spiego,
e qual velen quelle due Furie attosca
racconto a la mia Psiche, e la riprego
a voler (ben eh'a pien non mi conosca)
contentarsi del più, se ’l men le nego:
le scopro il cor, coprendole il sembiante,
e può veder l’amor, se non l’amante.
124 Fe mostro che soverchio è voler poi
investigar la mia vietata faccia,
poi che però non crescerà tra noi
quel grand’amor, che l’un’e l’altro allaccia.
L’essorto che non guasti i piacer suoi
per un lieve desio, ma goda, e taccia:
quanto può giusto sdegno io le rammento,
e la fede promessa, e ’l giuramento.
125. Le fo saver che nel bel sen fecondo
un fortunato infante ha già concetto,
che ha divino ed immortale al mondo,
se s’asterrà dal mio conteso aspetto.
Ma se vorrà mirar quel che l’ascondo,
a morte lo farà nascer soggetto.
L’ammonisco a schivar tanta ruina
al fanciul sovrastante, a lei vicina.
1 26. Fila giura e scongiura, e ’nsomma vole
pur riveder quella sorella e questa;
e fa con lagrimette e con parole
un bacio intercessor de la richiesta;
ed io col proprio crin, mentre si dole,
rasciugando le vo la guancia mesta.
Lasso, che non potrà, se in me può tanto
l’amorosa eloquenza del bel pianto?
232
LA NOVELLETTA
127. Nulla alfin so negarle, e tosto quando
s’apre il ciel mattutino ai primi albori,
risorgo, e lieve in su lo scoglio mando
il padre fecondissimo de’ fiori.
Già l’empie, che stan pur quivi aspettando,
de lo Spirto gentil senton gli odori;
ed ei pur quasi a forza in su le spalle
le ritragitta a la fiorita valle
128. Trovan la bella, e sotto liete fronti
coprono il fiel che ’l cor fellone asconde.
Ella con atti pur cortesi e pronti
a la mentita affezzion risponde.
Caldi vapori d’odorati fonti
in conche d’oro ai lassi membri infonde,
e ’n ricchi seggi in fra delizie immense
degne le fa de le beate mense.
129. Comanda poscia agli organi sonanti,
chiama al concerto le canore voci,
e i ministri invisibili volanti
al piiino cenno suo vcngon veloci.
Ma quella melodia di suoni e canti,
che placherebbe gli Aspidi feroci,
de le Serpi infernali (ancor che dolce)
la perfidia crudel punto non molce.
130. Anzi con lo stupor tanto più fiera
cresce l’invidia, che le morde e lima;
onde la pregan pur, che chiara e vera
del Vago suo la qualitate esprima.
La semplicetta garrula e leggiera,
cui non sovien ciò che lor disse in prima,
perch’accusar del fatto il ver non vole,
aviluppa e compon novelle fole.
CANTO QUARTO
233
131. Dice che ricco d’or per varie strade
con varie merci a traficar intende,
e che la neve de la fredda etade
già già le tempie ad imbiancar gli scende.
Poi, perché ratto a le natie contrade
le riconduca, a Zefiro le rende,
che (come suole) a le paterne spiagge,
di novi doni onuste, indi le tragge.
132. «Deh che ti par de le menzogne insane»
l’una a l’altra dicea «di questa sciocca?
Cacciator dianzi, da le prime lane
quel suo non avea pur la guancia tocca.
Or mercando sen va per rive estrane,
e la bruma senil su ’l crin gli fiocca.
O che finge, o che mente, o ch’ella stessa
non sa di ciò la ventate espressa.
133. Tempo è (comunque sia) da far cadere
tutte le gioie sue disperse e rotte ».
Con sì fatto pensier vanno a giacere,
e ’n vigilia crudel passan la notte.
Col favor di Favonio indi leggiere
a Psiche in su ’l mattin son ricondotte,
che gode pur d’accarezzar le due
(sorelle non dirò) Vipere sue.
134. Giunte, esprimendo a forza in larghe vene
lagrime fuor degli umidetti rai,
ché sempre (e dir non so dove le tiene)
quel sesso a voglia sua n’ha pur assai:
« Dolce » presero a dirle « amata spene,
tu secura qui siedi, e lieta stai;
e malcauta al periglio, e trascurata,
l’ignoranza del mal ti fa beata.
234
LA NOVELLETTA
135. Ma noi, noi che sollecite a la cura
de la salute tua siam sempre intente,
convien ch’a parte d’ogni tua sciagura
abbiam del commun danno il cor dolente.
Sappi, che quel, che ’n su la notte oscura
giacer teco si suole, è un fier Serpente:
un Serpente crudele esser per certo
quel che teco si giace, abbiam scoverto.
136. Videi più d’un pastor non senza rischio,
quando a sera talor torna dal pasto,
guadar il fiume, e variato a mischio
trarsi dietro gran spazio il corpo vasto.
Intorno a sé dal formidabil fischio
lasciando il ciel contaminato e guasto,
con lunghe spire per l’immonde arene
(se vederlo sapessi!) a te ne viene.
137. Viensene in più volubili volumi
divincolando il flessuoso seno.
Da’ minacciosi e spaventosi lumi
esce strano fulgor, ch’arde il terreno;
e di nebbia mortai torbidi fumi
infetti di pestifero veleno
sbuffando intorno, a lato a te si caccia,
e fa la cova sua fra le tue braccia.
138. Par ch’oltre a sé si sporga e ’n sé rientre,
e ne’ lubrici tratti onda somiglia,
e fuggendo e seguendo il proprio ventre,
lascia se stesso, e se stesso ripiglia.
Poi chiude i giri in un sol groppo, e mentre
in mille obliqui globi s’attortiglia,
di ben profondo solco, ove s’accampa,
quasi vomere acuto, il prato stampa.
CANTO QUARTO
235
139. Quando del cupo suo nativo bosco
da la fame ad uscir per forza è spinto,
d’un verde bruno e d’un ceruleo fosco
mostra l’ali fregiate, e ’l dorso tinto.
Squallido d’oro, e turgido di tosco
di macchie il collo a più ragion dipinto,
scopre di quanti al Sol vari colori
l’arco suo rugiadoso Iride infiori.
140. Ahi che figura abominanda e sozza,
se talor per lo pian stende le strisce,
e poi che vomitata ha da la strozza
carne di gente uccisa, ei la lambisce;
o se del sangue, che mai sempre ingozza,
avien che ’l tergo e ’l petto al Sol si lisce!
il tergo e ’l petto, armato a piastre e maglie
di doppie conche, e di minute scaglie.
141. Livido foco, che le selve appuzza,
spira la gola, ed aliti nocenti.
Vibra tre lingue, e ne le fauci aguzza
un tripartito pettine di denti.
Sanguigne schiume da la bocca spruzza,
ed ammorba co’ fiati gli elementi;
l’aure corrompe, mentre l’aria lecca,
strugge i fior, l’erbe uccide, e i campi secca.
142. Guarditi (o suora) il Ciel da la sua stizza,
scampiti Giove pur da quella peste,
qualor per ira si contorce e guizza
e sbarra le voragini funeste,
la superba cervice in alto drizza,
erge del capo le spietate creste,
e ribattendo le sonore squamme,
Mongibello animato, aventa fiamme!
236
LA NOVELLETTA
143. Perché con tanta industria e secretezza
credi la propria effigie ei tenga ascosa,
se non perché sua naturai bruttezza
agli occhi tuoi manifestar non osa?
Ma se ben or t’adula e t’accarezza
sotto quel dolce titolo di sposa,
pensi però, che la sua cruda rabbia
lungo tempo digiuna a tener abbia?
144. Aspetta pur, che del tuo ventre cresca
(come già va crescendo) il peso in tutto.
Lascia che venga con più stabil ésca
di tua pregnanza a maturarsi il frutto.
Allor vedrai (sii certa) ove riesca
il sozzo amor d’un animai sì brutto!
Allor ha (chi noi sa?) che fuor d’inganni
(preda a suo modo opima) ei ti tracanni.
145. S’a noi non credi (ed oh queste parole
sparse sien pur al vento, e non al vero!)
credi a quel, che mentir né può, né suole,
de l’oracol Febeo presagio fiero.
Il presagio in oblio por non si vuole,
ch’imaginandol pur trema il pensiero,
ch’esser ti convenia moglie d’un Angue,
morte e strage del mondo, e foco e sangue.
146. Che farai dunque? o col tuo scampo a noi
consentirai d’ogni sospetto sciolta,
o tanto attenderai, che tu sia poi
ne le ferine viscere sepolta?
Se ’n tal guisa nutrir più tosto vuoi
(non so s'io dica o pertinace o stolta)
l’empia ingordigia de l’osceno Mostro,
adempito abbiam noi l’ufficio nostro:
CANTO QUARTO
237
147. ma se non vuoi de le voraci brame
cibo venir di si vii bocca indegno,
pria ch’alfin sazia la lascivia infame
teco trangugi l'innocente pegno,
de la Fera crudel tronchi lo stame
senz’altro indugio un generoso sdegno,
e prendi a un colpo d’estirpar consiglio
il proprio essizio, e ’l publico periglio ».
148. Sentesi Psiche a quel parlar d’orrore
tremare i polsi, ed arricciare i crini:
sudan l’estremità, palpita il core,
spariscon dal bel volto ostri e rubini,
gelan le fibre, e di gelate umore
lucidi canaletti e cristallini
stilla essangue la fronte, a punto quali
suole Aurora d’April rugiade australi.
149. Contrarie passion, tra cui s’aggira,
in quel semplice cor fan guerra interna.
D’amore e d’odio, e di spavento e d’ira
gran tempesta la volge e la governa.
Nave rassembra, a cui mentr’Ostro spira,
or Garbino, or Libecchio i soffi alterna.
Pur dopo molti alfin pensier diversi
nel fondo d’ogni mal lascia cadérsi.
150. Dimenticata già d’ogni promessa,
tutto il secreto a buona fé rivela.
Del furtivo marito il ver confessa,
e che fugge la luce, e che si cela.
Rapita dal timor, dal duolo oppressa,
geme, freme, s’afflige, e si querela;
e mancandole in ciò saldo discorso,
di pietà le riprega, e di soccorso.
LA NOVELLETTA
238
151. Contro il tenero core allor si scaglia
de le donne malvage il furor crudo,
e con aperta e libera battaglia
stringon già de la fraude il ferro ignudo:
« Fuor che ’l partito estremo, altro che vaglia
non hanno i casi estremi o schermo o scudo.
A l’intrepide genti e risolute
la desperazion spesso è salute.
152. Ti puoi de la salute il calle aprire
(se la speme non mente) assai spedito.
Né scemar deve in te punto l'ardire
biasmo di fellonia con tal marito.
Chi t’inganna ingannar non è tradire,
giusto è che sia lo schernito!' schernito:
ché quando ad opra rea vien che consenta,
la fede sceleragine diventa.
153. Sotto il letto vogliam che tu nasconda
un ferro acuto ed una luce accesa,
0 come pria la créatura immonda
ne l’usato covil si fia distesa,
e nel colmo de l’ombra alta e profonda
sarà dal maggior sonno avinta e presa,
sorgi pian piano, e tuo ministro e duce
sprigiona il ferro, e libera la luce.
154. La luce il modo allor ha che ti scopra
ben oportuna e consigliera e guida.
Non temer no, ché d’ambe noi ne l’opra
avrai (s'uopo ti fìa) l’aita fida.
Senz’alcuna pietà, giuntagli sopra,
fa’ che del fier Dragone il capo incida,
perché con bestia si feroce e strana
qualunque umanità fora inumana ».
CANTO QUARTO
2 39
155. E così detto, l’una e l’altra prende
commiato, e parte: ella riman soletta,
se non sol quanto agitatrici orrende
seco le Furie in compagnia ricetta.
Ma se ben risoluta a l’opra intende,
e la machina appresta, e ’l tempo aspetta,
pur con affetti vari in tanta impresa
litigando tra sé, pende sospesa.
156. Ancor dubbia e pensosa ed ama e teme,
or confida, or diffida, or vile, or forte.
Quinci e quindi in un punto il cor le preme
ardimento d’Amor, terror di Morte.
In un corpo medesmo insieme insieme
aborrisce il Serpente, ama il Consorte:
e stan pugnando in un istesso loco
tra rispetto e sospetto il ghiaccio e '1 foco.
157. Già ne l’Occaso i suoi corsier chiudea,
giunto a corcarsi, il gran Pianeta errante,
e già vicin, mentre nel mar scendea,
sentiva il carro d’or stridere Atlante;
quand’io, che cieco in tenebre vivea
dal mio terrestre Sol lontano amante,
per far giorno al mio cor, da l’alto polo
men venni in giù precipitando il volo.
158. Psiche mia con lusinghe mi riceve,
l’apparecchio crudel dissimulando.
Ma poi ch’a lato a lei mi vengo in breve,
stanco da’ primi assalti, addormentando,
mentre piacevolmente il sonno greve
sto con leggieri aneliti soffiando,
sorge, e sospinta da pensier maligni
del sacrilegio suo prende gli ordigni.
240
LA NOVELLETTA
159. De le pria care, e poscia odiate piume
viensi accostando invèr la sponda manca.
Ne la destra ha il coltel, ne l’altra il lume,
d’orrore agghiaccia, e di paura imbianca.
Ma per farle esseguir quanto presume,
sdegno il suo debil animo rinfranca,
e la forza del fato a l’atto fiero
arma d’audacia il feminil pensiero.
160. Fa l’ascolta per tutto, e ’n su la porta
de la stanza si ferma, e guata pria.
Sporge innanzi la mano, e la fa scorta
al piè, che lento al talamo s’invia.
Tende l’orecchie, e sovr’aviso accorta
ogni strepito e moto osserva e spia.
Sospende alto le piante, e poi leggiere
le posa in terra, e non l’appoggia intere.
161. Quando là dov’io poso è giunta appresso,
voce non forma, accento non esprime:
di tirar non s’arrischia il fiato istesso,
e se spunta un sospir, tosto il reprime.
Caldo desio rinvigorisce il sesso,
freddo timor le calde voglie opprime.
Brama e s’arretra, ardisce e si ritiene,
bollon gli spirti, e gelano le vene.
162. Ma non sì tosto il curioso raggio
del lume esplorator venne a mostrarse,
dal cui chiaro splendor del cortinaggio
ogni latebra illuminata apparse,
che sbigottita de l’ingiusto oltraggio
stupì repente, e di vergogna n’arse.
Non sa s’è sogno o ver, che quando crede
veder un Drago, un Garzonetto vede.
CANTO QUARTO
24I
163. Gran villania le parve aver commessa,
e di tanta follia forte le ’ncrebbe.
Spegner la luce perfida, e con essa
l’arrotato coltel celar vorrebbe.
Fu per celarlo in sen quasi a se stessa,
e senza dubbio alcun fatto l'avrebbe,
se da la man tremante il ferro acuto
non le fusse in quel punto al suol caduto.
164. Mentr’ella in atto tal si strugge e langue,
di toccar Tarmi mie desio la spinge,
e con man palpitante e core essangue
le prende e tratta, e le tasteggia e stringe.
Tenta uno strale, e di rosato sangue
l’estremità del pollice si tinge.
Mirasi punto incautamente il dito,
e si sente in un punto il cor ferito.
165. Così si stava, e romper non ardiva
la mia quiete placida e tranquilla.
Ed ecco allor la liquefatta oliva
de l’aureo lucernier scoppia e sfavilla,
e vomitando da la fiamma viva
di ferendo licor pungente stilla,
a l’improviso con tormento atroce
su l’ala destra l’omero mi coce.
166. Desto in un tratto io mi risento, e salto
fuor de la cuccia, ed ella a me s’apprende,
in’abbraccia i fianchi, e con vezzoso assalto
per vietarmi il partir pugna e contende.
M’afferra il piè fugace, io meco in alto
la traggo a volo, ed ella meco ascende.
Così pendente per l’aeree strade
mi segue e tiene, alfin mi lascia e cade.
IÓ
LA NOVELLETTA
2-}2
167. Da me spiccata, amaramente al suolo
ululando e piangendo ella si stese.
lo mi volsi a que’ pianti, e del suo duolo
in mezo a l’ira la pietà mi prese.
Onde l’ali arrestai, fermando il volo,
a sì tristo spettacolo sospese,
e mi posi a mirarla intento e fiso
d’un cipresso vicin tra i rami assiso.
168. « Ingrata » a dirle indi proruppi « ingrata,
sì tosto in Lethe un tanto ardore è spento?
così da la memoria smemorata
l'aviso mio ti cadde in un momento?
quest’è l’araor? quest’è la fé giurata?
dunque tu paglia al foco, io foco al vento?
tu dunque onda a lo scoglio, io scoglio a l’onda?
10 stabil tronco, e tu volubil fronda?
169. Io de la madre mia posto in non cale
l’ordin, cui convenia pur ch’ubbidissi,
quando d’ogni sventura e d’ogni male
sepelir ti volea sotto gli abissi,
11 cor per tua cagion col proprio strale
inavedutamente mi trafissi.
Per te trafitto, e per tuo bene ascoso
volsi ad onta del Ciel tarmiti sposo:
170. e tu sleal, pur come fussc poco
d’invisibil ferita il cor piagarmi,
volesti me, ch’era tua gioia e gioco,
quasi Serpe crudel, ferir con l’armi!
E non contenta d’amoroso foco
co’ tuoi begli occhi l’anima infiammarmi,
hai voluto con arte empia e malvagia
ardermi ancora il corpo in viva bragia.
CANTO QUARTO
2-43
171. Già più volte predetto il ver ti fue,
né frenar ben sapesti un van desire!
Ma quelle egregie Consigliere tue
la pena pagheran del lor fallire.
Giusto flagel riserbo ad ambedue,
te sol con la mia fuga io vo’ punire.
Rimanti, a Dio; da te cercato invano
e col corpo, e col cor già m’allontano ».
172. Tanto le dissi; ed ella, a cui più dolse
che la caduta sua, la mia salita,
poi che gran tratto d’aria alfin le tolse
l’amata imago, in apparir sparita,
per lung’ora di là sorger non volse,
dove attonita giacque e tramortita.
Poi la fronte levando afflitta e bassa,
tra sospiro e sospir ruppe un Ahi lassa!
173. «Lassa» dicea «tu m’abbandoni, e vai
da me lontano e fuggitivo Amore.
Ruggisti, Amor. Che più mi resta ornai,
se non sol di me stessa odio ed orrore?
Ben da la vista mia fuggir potrai,
ma non già dal pensier, non già dal core.
Se ’l Ciel dagli occhi miei pur ti dilegua,
lìa che col core e col pensier ti segua.
174. Sì per poco ti sdegni? e tocco a pena
da picciola scintilla t’addolori ?
Ouest’alma or che farà d’incendio piena?
Che farà questo cor fra tanti ardori ? »
Così doleasi, e copiosa vena
versando intanto d’angosciosi umori,
sommersi da le lagrime cadenti
in bocca le morir gli ultimi accenti.
244
LA NOVELLETTA
175. Dopo molto lagnarsi in piè risorge,
ratto poi drizza al vicin prato il passo,
ché con corso pacifico vi scorge
torcersi un fiumicel tra sasso e sasso.
Va su l’estremo margine, che sporge
l’orlo curvo e pendente al fondo basso,
e desperata, e dal dolor trafitta
precipitosamente in giù si gitta.
176. Ma quel cortese e mansueto rio
o ch’a me compiacer forse volesse,
ricordevole pur, che son quell'io
che so fiamme destar tra Tacque istesse,
o che con gli occhi, ov’arde il foco mio,
rasciutte un sì bel Sol Tonde gli avesse,
de l’altra riva in su le spiagge erbose
con innocente vomito l’espose.
177. Vede, uscita del rischio, a l’ombra assiso
d’Arcadia il rozo Dio, ch'ivi soggiorna.
Tutto d’ebuli e mori ha tinto il viso,
e di pelle tigrina il fianco adorna.
Fa d’edra fresca un ramoscel reciso
ombroso impaccio a Tonorate corna;
e tien con l’edra incatenando il faggio,
impedito di fronde il crin selvaggio.
178. Mentre le Capre sue vaghe e lascive
pendon da l’erta con gli amici Agnelli,
e del fiume vicin, lungo le rive
tondono i verdi e teneri capelli,
egli a le canne, che fur ossa vive
di lei che gli arse il cor con gli occhi belli,
inspira da lo spirto innamorato
voce col suono, ed anima col fiato.
CANTO QUARTO
-45
179. Sette forate e stridule cicute
con molle cera di sua man composte
bella varietà di voci argute
formano in disegual serie disposte;
onde il silenzio de le selve mute
impara ad alternar dolci risposte,
ed a le note querule e canore
la la Ninfa degli antri aspro tenore.
180. Questi veduta allor la meschinella
languida starsi, e sconsolata e sola,
pietosissimamente a sé l’appella,
e con dolci ragion poi la consola:
« Rustico mi son io, Giovane bella,
ma dotto assai ne l’amorosa scola;
e di quel mal, che ’n te conosco aperto,
per lunga età, per lunga prova esperto.
181. 11 piè tremante, il pallidetto volto,
quegli umid’occhi e que’ sospiri accesi
mi dan pur chiaro a diveder, che molto
hai dal foco d’Amor gli spirti offesi.
Odimi dunque, e l’impeto sì stolto
frena de’ tuoi desiri a morte intesi;
né più voler, de l’opre lor più belle
omicida crudel, tentar le stelle.
182. Il mal che ben si porta è lieve male,
e vince ogni dolor saggio consiglio,
e ne lo stato misero mortale
è maggior gloria ov’è maggior periglio.
Mi son noti i tuoi casi, e so ben quale
sia de la bella Dea l’alato figlio.
Non ti doler, ché se ben or ti fugge,
so che non men di te per te si strugge.
246
LA NOVELLETTA
183. L’ire degli araator fidi e veraci
non son se non d’Amor mantici e venti,
che de’ freddi desir destan le faci,
e le fiamme del cor fan più cocenti :
onde le risse alfin tornano in paci,
e ’n gioie a terminar vanno i tormenti.
Giova poi la memoria: ed è soave
a rimembrar quel ch’a soffrir fu grave.
184. Or del cor tempestoso acqueta i moti,
e cessa il pianto, ch’i begli occhi oscura,
né voler con guastar le proprie doti
far torto al Cielo, ed oltraggiar Natura.
Umil più tosto con preghiere e voti
quel sì possente Dio placar procura,
lo qual (credimi pur) fia ch’a’ tuoi preghi
ogni sdegno deposto, alfin si pieghi ».
185. Ringrazia Psiche il Satiro pietoso,
che sì ben la conforta e la lusinga;
poi s’accommiata, e senz’alcun riposo
per traverse remote erra solinga.
Alfin là dove domina lo sposo
de la suora maggior, giunge raminga.
Giunta, l’altra l’abbraccia, e la saluta,
e chiede la cagion di sua venuta.
186. La già schernita, a vendicarsi accinta,
seco d’amor le dimostranze alterna,
e d’allegrezza astutamente infinta
vestendo il volto e l’apparenza esterna,
« Dal tuo consiglio stimulata e spinta,
presi il ferro » le dice « e la lucerna,
per uccider colui, che di marito
usurpato s’avea nome mentito.
CANTO QUARTO
247
187. Tacitamente a meza notte io sorsi,
ed avendo a ferir stretto il coltello,
lassa, ch’un Mostro (è vero) un Mostro scorsi,
ma Mostro di beltà pur troppo bello!
Quel lume spcttator, ch’innanzi io sporsi,
a quanto narro in testimonio appello,
che quando un tal oggetto a mirar ebbe,
raddoppiando splendore, ardore accrebbe.
188. Ahi non senza sospir me ne rimembra,
che contemplando quel leggiadro velo,
dico il corpo divini che certo sembra
meraviglia del mondo, opra del Cielo,
a rarmi, a l’ali, a le purpuree membra,
ond’uscìa foco da stemprare il gelo,
m’accorsi alfin, che quel ch'ivi giacea,
era il vero fìgliuol di Citherea.
189. Ma quel perfido lume e maledetto,
accusator de le bellezze amate,
non so s’invido pur del mio diletto,
o vago di baciar tanta beltate,
al sonnacchioso Arcier, ch’ignudo in letto
le palpebre tenea forte serrate,
con acuta favilla il tergo cosse,
sì ch’a l’aspra puntura ei si riscosse.
190. E veggendomi armata in sì fier atto,
scacciommi, e non fé’ più meco dimora.
« Vanne » disse « crudel, vattene ratto
e dal mio letto, e dal mio petto fora.
Io tutti i miei pensier per tal misfatto
volgo in tua vece a la maggior tua suora.
Ella (e t’espresse a nome) io vo’ che sia
e di me Donna, e de la reggia mia ».
LA NOVELLETTA
248
191. Disse, e fuor del suo albergo a l’altra riva
soffiar mi fe’ dal Portator volante.
Va’ dunque, occupa il loco ond’io son priva,
godi quel ch’io perdei, celeste amante.
A me, che più non spero in fin ch’io viva
romper la stella mia dura e costante,
chieder convien tributo a tutte bore
di pianto agli occhi, e di sospiri al core ».
192. A pena ella ha di dir fornito questo
che quell’invida Arpia le piante affretta,
e giunta in su ’l fatai monte funesto,
dov’andar suole il Vento, il Vento aspetta.
« Vienne Zefiro vien’ veloce e presto,
Angel di Primavera, amica Auretta,
Vienne, » dicea « tu condottier, tu scorta
preda ben degna al mio Signor mi porta ».
193. Sente allora spirar di su la cima
de l’alta costa un ventolin sottile,
onde fuor d’ogni dubbio attende e stima
eh a lei ne vegna il Precursor d'Aprile.
Scagliasi a piombo, e gravemente a l’ima
parte del poggio il corpo immondo e vile
riiinoso trabocca, e tra que’ sassi,
misera, in cento pezzi a franger vassi.
194. Con l’arte istessa ancor poco dapoi
ingannò l’altra giovane meschina,
che pur fede prestando a’ detti suoi,
salse anelante in su la rupe alpina,
e similmente imaginar ben puoi
se dal monte balzando a la marina
lasciò, condegno premio a le sue colpe,
lacerate le viscere e le polpe.
CANTO QUARTO
249
195. Tra le pietre medesme (ahi semplicetta)
lasciò le membra dissipate e sciolte.
Così fur con egual giusta vendetta
le due Pesti maligne al mondo tolte.
E così chi di fraude si diletta
ne’ propri lacci suoi cade a le volte.
Volse farle ambedue fato consorte,
come complici al mal, compagne in morte.
196. Ma Psiche or quinci or quindi errante e vaga,
ricercando di me, le vie scorrea,
di me, che per dolor di doppia piaga
su le piume materne egro giacea;
e ben che di sue ingiurie alquanto paga,
pur tra duri martìr l’ore traea,
spendendo i giorni in gemiti dirotti,
e consumando in lagrime le notti.
197. Stavasi intanto la mia bella madre
nel profondo Oceano, ove già nacque,
quelle membra a lavar bianche e leggiadre
ond’ella agli occhi tuoi cotanto piacque.
Ed ecco a lei da le volanti squadre
un marittimo augel ch’abita Tacque,
sotto Tonde attuffando allor le penne,
tutto il successo a rivelar le venne.
198. Le prende a raccontar l’iniquo Mergo
e le mie nozze, e ’l già concetto pegno.
Scopre ch’io porto ne l’adusto tergo
di grave cicatrice impresso segno.
Narra ch’ascoso entro l’usato albergo
languisco in amor sozzo, in ozio indegno.
Conchiude alfine il relator loquace
che ’l mondo tutto a biasmo suo non tace.
250
LA NOVELLETTA
199. Oh qual nel cor di Venere s’aduna
fiamma di sdegno allor fervida e viva!
Dimanda al messo in vista oscura e bruna
chi sia l’Amica mia, chi sia la Diva.
Se sia del popol de le Ninfe alcuna,
o de le Dee nel numero s’ascriva.
Se tolta io l’abbia, e qual scelta di loro,
o de le Muse, o de le Grazie al coro.
200. Risponde non saver di questa cosa
l’alato ambasciador quanto né come,
se non che strugge Amor fiamma amorosa,
e ch’egli ama una tal, che Psiche ha nome.
Sembra la Dea non Dea, Furia rabbiosa
a quell’annunzio, e con discinte chiome
esce del mar correndo, e ’n su le soglie
giunta de la mia stanza, il grido scioglie:
201. «Così dunque ubbidisci a’ detti miei,
quant’io t’impongo ad esseguire accinto?
ito in tal guisa a vendicarmi sei?
ed hai di Psiche il tant'orgoglio estinto?
Oh degne palme, oh nobili trofei!
Ecco il forte campion che ’l mondo ha vinto,
l’Arderò egregio, il Feritore invitto,
or da donna mortai langue trafitto.
202. Ecco quel grande e generoso Duce,
per cui soffre ogni cor tormento e pena:
e con infamia tanta or si riduce
a lasciarsi legar con sua catena;
e ’n vii trionfo prigionier l’adduce
bellezza corrottibile e terrena!
Quel buon figlio leal, ch’un van diletto
suole anteporre al maternal precetto!
CANTO QUARTO
2.51
203. E forse ch’io ministra anco non fui
di questa sceleragine, e mezana,
quando diedi primier notizia a lui
de la malvagia femina profana?
Ch’io deggia sopportar crede costui
una nuora vulgar di stirpe umana:
e che venga anco in Cielo a farmi guerra
l'emula mia, la mia nemica in terra!
204. Pensi tu, che '1 mio ventre insterilito
concepir più non possa un altro Amore ?
Vedrai, s’io saprò ben prender partito,
e figlio generar di te migliore!
Anzi per farti più restar schernito,
voglio un servo degnar di questo onore.
Un de’ v r alletti miei voglio adottarmi,
dargli tutti i tuoi fregi, e tutte l'armi.
205. Lui vestirò de’ colorati vanni,
egli avrà l’arco d’or che tu possiedi,
gli strali, ond’escon sol ruine e danni,
e la fiaccola ardente, e gli altri arredi:
i quali a te fellon, mastro d’inganni,
a quest’uso malvagio io già non diedi!
né gli hai già tu d’eredità paterna:
ma beni son de la mia dote eterna.
206. Fin da’ prim’anni tuoi veracemente
fosti licenzioso e mal avezzo.
Sei contro i tuoi maggiori irreverente,
né vai teco adoprar minaccia o vezzo.
Anzi qual vedovetta orba sovente
la propria madre tua togli in disprezzo;
dico me stessa, ond'alimento prendi,
spesso oltraggiasti, ed ogni giorno offendi.
LA NOVELLETTA
252
207. Né pur del forte tuo terribil Dio
temi l’armi guerriere e vincitrici,
anzi talor per maggior scorno mio
concubine gli trovi, e meretrici.
Ma di si fatti scherzi i’ so ben io
come far l’ire mie vendicatrici !
Vo’ che tante follie ti costin care,
e queste nozze tue ti sieno amare.
20S. Deh che far deggio? o come a l’insolenza
di questo sfrenatel stringere il morso?
Mi convien pur malgrado, a l’Astinenza,
mia nemica mortai, chieder soccorso.
Per dargli al fallo egual la penitenza,
forza è pur ch’a costei rivolga il corso!
Costei, ben che da me sempre aborrita,
fia che mi porga a la vendetta aita.
209. Ella di quest’altier, che sì presume,
domi le forze, e suoi pensier perversi.
lo fin che quel crin d’or, che per costume
più d’una volta innanellando tersi,
per me tronco non veggia; e quelle piume,
che ’n questo sen di nèttare gli aspersi,
di mia man non gli svella, unqua non fia
che sodisfaccia a l’alta ingiuria mia ».
210. Con questo dir da’ suoi furor rapita
va per far al mio core oltraggio e danno,
e Cerere e Giunon trova a l’uscita,
che le van contro, e compagnia le fanno;
e veggendola afflitta e scolorita,
dimandan la cagion di tanto affanno.
Ella di quel dolor la somma spiega,
e sue ragioni ad aiutar le prega.
CANTO QUARTO
253
211. « Se mi siete» dicea «fidate amiche,
s’è l’amor vostro a l’amor mio conforme,
datemi in man la fuggitiva Psiche,
usate ogni arte a ricercarne Torme ».
L’accorte Dee, già mie seguaci antiche,
in cui sopito il foco mio non dorme,
de l’arrabbiato cor Tire feroci
s’ingegnan mitigar con queste voci :
212. «E qual gran fallo, o qual peccato grave
il tuo figlio commise, o Dea cortese,
se lo sguardo piacevole e soave
d’una vaga fanciulla il cor gli accese?
Amorosa e divina alma non ha ve
onde sdegnarsi per sì lievi offese.
Fora certo più tosto il tuo devere
amar ciò ch’ama, e ciò che vuol, volere.
213. Sai ben ch’ei non è più tenero in erba:
forz’è ch’ai foco pur s’accenda l’ésca!
Se tu rimiri a la sembianza acerba,
o vuoi forse aspettar ch’egli più cresca,
tal ne la guancia sua vaghezza serba,
sempre ignuda di pelo, e sempre fresca,
sì tien con la statura il tempo occulto,
che ti parrà bambin, quantunque adulto.
214. Or tu, che de’ piacer sei dispensiera,
tu, che pur madre sei, che sei prudente,
vorrai ritrosa ognor dunque e severa
spiar gli affari suoi sì sottilmente ?
Chi fìa che non t’appelli ingiusta e fiera,
se tu, che seminando in fra la gente
a tutte Tore vai fiamme ne’ cori,
vuoi da la casa tua scacciar gli amori ? »
254
LA NOVELLETTA
215. Così parlando a mio favor le due
scusan la colpa, e prendon l’ira a gioco
temendo lor non sia, come già fue,
ferito il petto di pungente foco.
Ella sdegnando che l’ingiurie sue
passino in riso, e sien curate poco,
le lascia, ed a sfogar la rabbia altrove
velocissimamente i passi move.
216. Intanto Psiche mia per varie strade
inquieta d’errar già mai non cessa,
e discorsi or di sdegno, or di pietade
volge incerta e dubbiosa in fra se stessa.
Or dal grave timor battuta. ''ade,
or le sorge nel cor la speme oppressa.
Teme, spera, ama, brama, e si consuma
come a fervido Sol gelida bruma.
217. Di me novelle investigando invano
quasi smarrita e saettata Cerva
fugge per boschi a più poter lontano
de l’orgogliosa Dea l’ira proterva.
Vorria, punita sol da la mia mano,
titol, se non di sposa, almen di serva,
e l’amaro addolcir, ch’io chiudo in seno,
se non con vezzi, con ossequii almeno.
218. Tempio, che d’arte ogni edificio avanza,
sovra la sommità d’un monte mira;
e vaga di saver se v’abbia stanza
l’occulta Deità per cui sospira,
tosto lo stanco piè, da la speranza
rinvigorito, a quella parte gira,
e ’n su la cima dopo l’erta strada
trova fasci di gran, mucchi di biada.
CANTO QUARTO
2 55
219. In quella guisa che dopò la messe
ventilate e battute alcun l'ha viste
giacer su l’aia, accumulate e spesse
stavan sossovra le mature ariste;
e falci, e rastri, e vomeri con esse,
e vanghe e marre in un confuse e miste,
e pale, e zappe, e cribri, e quanti arnesi
usa il Cultor ne’ più cocenti mesi.
220. Devota allor con umiltà profonda
sceglie, compon, dispon le sparse spiche,
quando si mostra a lei la Dea feconda,
« Che fai » dicendo « o poverella Psiche ?
Tu qui spargi oziosa e vagabonda
in vane cure inutili fatiche;
e Citherea, che morte ti minaccia,
va con cupida inchiesta a la tua traccia.
221. Innanzi al divin piede allor si stende,
e con larghe fontane il lava tutto,
e col bel crin, che fin a terra scende,
scopando a un punto il suolo, il rende asciutto.
« Deh per le cerimonie » a dir le prende
« e i lieti riti del tuo biondo frutto,
per gli occulti secreti e venerandi
de Tauree ceste, onde i tuoi semi spandi:
222. per le rote volanti e per le faci,
per gli Dragoni che ’l tuo carro imbriglia,
per le glebe fruttifere e feraci
onde Sicilia ancor si meraviglia,
per la rapina de’ destrier fugaci,
per gli oscuri imenei de la tua figlia,
e per quant’altre cose umile ancora
ne’ suoi sacri silenzii Eieusi onora:
LA NOVELLETTA
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223. sovien’ prodiga Dea (pregoti) a questa
perseguitata e misera, sovieni.
Sotto le spiche de la folta testa
sol tanto ascosa per pietà mi tieni
che di colei, che le mie paci infesta,
passi alquanto il furor, l'ira s’affreni,
e con breve quiete almen ristori
le membra stanche da sì lunghi errori ».
224. Mover potea con questi preghi un scoglio,
ma da Cerer però trovossi esclusa,
che non osando inacerbir l'orgoglio
de l’altera cognata, alfin si scusa.
Onde doppiando al cor tema e cordoglio,
quindi dal suo sperar parte delusa;
né ben scorge il camin, sì spesso e tanto
le piove agli occhi e l'abbarbaglia il pianto.
223. Vede un’altra non lunge eccelsa mole,
che par che fin al Ciel s’estolla ed erga.
Sciillc mostrali su l’uscio auree parole
del Nume il nome, che là dentro alberga.
Per supplicar la Dea ch’ivi si cole
s’asciuga i fiumi onde la guancia verga,
e poi che dentro s’avicina e passa,
gli occhi solleva, e le ginocchia abbassa.
226. Ed abbracciando reverente e china
l’altar di sacro sangue ancor fumante,
« O » dice « de le Dee degna Reina,
germana e moglie del sovran Tonante;
o che Samo t’accolga, a cui bambina
désti i primi vagiti ancor lattante,
o di Cartago la beata sede,
che spesso assisa in su ’l Leon ti vede:
CANTO QUARTO
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227. o che d’Inaco pur tra i verdi chiostri
cerchi di Giove l’amorose frodi,
o che ’ntesa a guardar dal Ciel ti mostri
le mura Argive, ond’hai tributi e lodi,
tu, che Lucina sei detta da’ nostri,
ch’alma con alma in maritaggio annodi,
deh propizia a’ miei voti or me ritogli
al vicin rischio, e ’n tua magione accogli ».
228. Giunon, mentr’ella prega e l’ara abbraccia,
Tappare in vista umana e mansueta;
ma per non consentir cosa che spiaccia
a la motrice del gentil Pianeta,
le nega albergo, e con tal dir la scaccia:
« Servo fugace ricettar si vieta ».
A quest’altra repulsa aspra e severa
di sua salute in tutto ella despera.
229. Con cor tremante, e con tremante piede
fugge la tapinella, e non sa dove.
In ciò che ’ntorno ascolta, in ciò che vede,
vede di novo orror sembianze nove.
Lieve arboscel, cui debil aura fiede,
lieve augellin, che geme o che si move,
lieve foglia, che cade o che si scote,
di terror doppio il dubbio cor percote.
230. E per deserti inospiti fuggendo,
così co’ suoi pensier tra sé discorre:
« Or qual suffragio in sì grand’uopo attendo,
se ’l Cielo istesso i miei lamenti aborre?
Se la forza divina, ancor volendo,
aiutar non mi può, chi mi soccorre ?
Chi mi difenderà, s’anco gli Dei
non mi sanno schermir contro costei ?
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58
LA NOVELLETTA
231. In qual grotta sì fosca o sì profonda
chiuder mi deggio? o dove andar sì lunge
ch’agli occhi inevitabili m’asconda
di Citherea, che ’n ogni parte giunge?
Fia dunque il meglio, ch’ai destin risponda,
e ’l corso affretti ov’ei mi sferza e punge.
Che tardo? un franco ardir tronchi ogn’indugio,
e l’altrui crudeltà sia mio refugio.
232. Colà n’andrò dov’ella alberga e regna
in prigion volontaria a farmi ancella.
Forse quell’ira alfin del Cielo indegna
pietosa deporrà, sì come bella.
Forse ancor ha ch’ivi trovar m’avegna
chi m’aventò nel cor fiamme e quadrella;
e che con lieta, o con infausta sorte
o m’impetri perdono, o mi dia morte ».
233. Mentr’ella in guisa tal s’aggira ed erra,
drizzando i passi ove di gir propone,
e per ottener pace a tanta guerra
gli argomenti tra via studia e compone;
stanca Ciprigna di cercarla in terra,
i rimedi del Ciel tentar dispone.
Rivolge il carro invèr le stelle, e poggia
su i chiostri empirei, ove il gran Giove alloggia.
234. Quivi Mercurio con preghiere astringe
che la bandisca, e sappia ove si cela.
Gli narra la cagion ch’a ciò la spinge,
promette premiar chi la rivela,
dichiara il nome e le fattezze pinge,
aggiungendo gl’indizii a la querela:
acciò che s’egli avien ch’alcun la trovi,
scusa poi d'ignoranza altrui non giovi.
CANTO QUARTO
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235. L'una a casa ritorna, e l’altro piomba
veloce in terra a promulgar l’editto.
Qualsivoglia mortale » a suon di tromba
publicato per lui dice lo scritto
♦ Psiche degna di carcere e di tomba,
rubella e rea di capitai delitto,
fia ch’a Venere bella accusi e scopra,
ricompensa ben degna avrà de l’opra.
236. Venga là tra le piagge a lei dilette,
dove il Tempio de’ mirti erge Quirino,
ché da la Dea benigna avrà di sette
baci soavi un guiderdon divino;
e più dolce fra gli altri un ne promette
in cui lingueggi il tenero rubino,
in cui labro con labro il dente stringa
e di nèttare e mèl si bagni e tinga ».
237. Questo grido tra’ popoli diffuso
alletta tutti a la mercé proposta,
onde non trova alcun loco sì chiuso
che non v’entri a spiar se v’è nascosta.
Ella con piè smarrito e cor confuso
già de la Diva a la magion s’accosta,
da le cui porte incontr’a lei s’avanza
una ministra sua, ch’è detta Usanza.
238. (« Pur ne venisti » ad alta voce esclama
« schiava sfacciata, ove il castigo è certo !
O non t’è forse ancor giunta la fama
di quanto in te cercando abbiam sofferto?
Giungi a tempo a pagarlo, e già ti chiama
giustissimo supplicio al proprio merto.
Tra le fauci de l’Orco alfin pur désti,
perché l’orgoglio tuo punito resti! »
LA NOVELLETTA
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239. Così parlando, le cacciò le mani
de’ capei d’oro entro le bionde masse,
e con motti oltraggiosi, e con villani
scherni, volesse o no, seco la trasse.
Giunta a la Dea, da tanti strazii strani
rotta, con viso chino e luci basse
le ginocchia abbracciolle, innanzi al piede
le cadde a terra, e le gridò mercede.
240. Con un riso sprezzante a lei rivolta
dice Venere allori «Se’ tu colei
ch’a le Dee ili beltà la gloria hai tolta?
ch’ai domo il domator degli altri Dei?
Ecco pur la tua Socera una volta
degnata alfìn di visitar ti sei!
O vien’ forse a veder l’egro marito,
ch’ancor per tua cagion langue ferito?
241. Or io ti raccorrò (vivi secura)
come buona raccor nuora conviene.
Sù suso ancelle mie. Tristezza e Cura,
date a costei le meritate pene! »
E tosto a far maggior la sua sventura
ecco duri flagelli, aspre catene:
battendola con rigide percosse
la fiera coppia ad ubbidir si mosse.
242. La rimenano avante al suo cospetto
poi ch’ambedue l'han tormentata forte,
spettacol da commovere ogni petto,
se non di lei, che la disama a morte.
Di corruccio sfavilla, e di dispetto,
e da le luci allor traverse e torte
girando obliquo il guardo a l’infelice,
aspramente sorride, e così dice:
CANTO QUARTO
2 ÓI
243. « E’ par mi voglia ancor col peso immondo
del suo tumido ventre indur pietate,
e mi prometta già, tronco fecondo,
gloriose propagini e beate.
Felicissima me, ch’avola il mondo
m'appellerà ne la più verde etate:
e '1 figlio d’una vii serva impudica
fia che nipote a Venere si dica!
244. Ma perché tanto onor? Di nozze tali
figlio nascer non può, spurio più tosto!
Son illecite, ingiuste, ed ineguali,
fur di furto contratte, e di nascosto;
onde quel che trarrà quindi i natali,
tra gl’infami illeggittimi fia posto:
se però tanto attenderem, ch’ai Sole
esca il bel parto di sì degna prole.
245. No no, far non poss’io che rompre il freno
sofferenza irritata alfin non deggia.
Vo’ di mia man da quel nefando seno
trar l’eterno disnor de la mia reggia.
Pace mai non avrò tanto ch’a pieno
e lei sbranata, e me sbramata io veggia.
Sazia mai non sarò finch’abbia presa
giusta vendetta de l’ingiusta offesa ».
246. 'f ace, e le dà di piglio, e dagl’infermi
membri tutte le squarcia e vesti e pompe.
La misera sei soffre, e non fa schermi,
né pur in picciol gemito prorompe.
Vadan pur fra’ Tiranni i corpi inermi,
l’armi però del cor forza non rompe:
la costanza vini, ch’è ne’ tormenti
lo scudo adamantin degl’innocenti.
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LA NOVELLETTA
247. Poi di vari granelli accolti insieme
confuso un monte, a la fanciulla impera
che prenda a separar seme da seme,
e sia l’opra spedita innanzi sera.
Vassene a la gran cena, e fuor di speme
sola la lascia, e pensa in qual maniera
Psiche potrà nel tempo a lei concesso
agevolarsi il gran lavor commesso.
248. Psiche atterrita dal crudel comando,
stupisce, e tace, e d’ubbidir diffida,
ché 1’assegnato cumulo mirando,
non sa come lo scelga o lo divida.
Tenta indarno ogn’industria, e paventando
la rigorosa Dea, che non l’uccida,
di non poter distinguere si dole
quella incomposta inestricabil mole.
249. Quando in soccorso suo corse veloce
l’agricoltrice e provida Formica,
quella che suol quando più l’aria coce
da’ campi aprici depredar la spica.
Questa biasmando de la Dea feroce
l’atto, e mossa a pietà di sua fatica,
da le vicine allor valli e campagne
tutto il popol chiamò de le compagne.
250. Concorre tosto in numerose schiere
con sollecita cura e diligente
rigando il verde pian di linee nere
il lungo stuol de la minuta gente;
e la mistura, ove l’uman savere
manca, e per cui la donna è si dolente,
con sommo studio e con mirabil arte
ordinata e partita, alfin si parte.
CANTO QUARTO
La notte intanto i rai d’Apollo spense,
e già con l’ombre Harpocrate sorgea,
e i balli suoi per balte logge immense
tra le Ninfe del Ciel Cinthia traea;
quando tornò da le celesti mense
di balsamo e di vin colma la Dea.
e tutta cinta d’odorate rose,
terminate trovò l’imposte cose.
«• Non tua, né di tua man (se non m'inganno)
fu già quest’opra, o scelerata » disse:
« opra fu di colui che per tuo danno
di te volse il destin che s’invaghisse.
Ma godi pur, ch’a l’un e l’altra stanno
le devute da me pene prefisse ».
E partendo da lei, poi c’ha ciò detto,
consente al sonno, e si ritragge in letto.
Ne l’ora poi, che fa dal mar ritorno
l’Alba, e colora il ciel di rosa e giglio,
e ’n su l’aureo balcon che s’apre al giorno
rasciuga al primo Sole il vel vermiglio,
dal ricco strato e di bei fregi adorno
la pigra fronte e ’l sonnacchioso ciglio
sollevando Ciprigna, a la Donzella
sdegnosa tuttavia cosi favella:
« Vedi quel bosco, le cui ripe rode
precipitoso e rapido ruscello.
Pecorelle colà senza custode
pascon lucenti di dorato vello.
Io vo’ veder se pur con nova frode
t’ingegnerai di ritornar da quello!
Vattene dunque, e de le spoglie loro
recami incontanente un fiocco d’oro ».
2Ò4
LA NOVELLETTA
255. Risoluta di cedere al destino
va Psiche per sommergersi in quell’onde;
ma verde Canna, che del rio vicino
vive su le palustri e fresche sponde,
animata da spirito divino,
e mossa da leggiere aure seconde,
ode con dolce e musico concento
sussurrar questo suon tremulo e lento:
256. « O da tanti travagli e sì diversi
essercitata per sì lunghe vie,
deh non volere i bei cristalli tersi
macchiar col sangue tuo de Tacque mie;
né contro i Mostri andar crudi e perversi,
ch’abitan queste spiagge infami e rie:
fere, c’han di fin or la pelle adorna,
ma sasso hanno la fronte, acciar le corna.
257. Tocche dal Sol, qualor più forte avampa,
entrano in rabbia immoderata orrenda,
dal cui dente crudel morte non scampa
chiunque il morso avelenato offenda.
Aspetta pur, che la piu chiara lampa
a mezo ’l cielo in su ’l meriggio ascenda:
nel centro allor de l’ampia selva ombrosa
la greggia formidabile si posa.
25S. E tu di quel gran platano nascosta
sotto i frondosi e spaziosi rami,
fin che Tira dormendo abbia deposta,
potrai tutto esseguir quantunque brami,
e secura carpir quindi a tua posta
de l’auree lane i preziosi stami,
che rimangon negli arbori che tocca
implicati e pendenti a ciocca a ciocca ».
CANTO QUARTO
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259. Con questi accenti il Calamo sonoro
Psiche gentil di sua salute informa,
che ben instrutta, e ’ntesa al bel tesoro,
attende ch’ogni pecora si dorma;
e poi c’ha da que’ tronchi il sottil oro
rapito alfìn de la lanosa torma,
con esso in grembo a Citherea sen riede,
che veggendola viva, a pena il crede.
260. Con torvo ciglio e grosso cor la mira,
né cessa l’odio, anzi s’avanza e poggia,
e vie più cresce essacerbata l’ira,
sì come in calce suol foco per pioggia.
A nova occas'ion la mente gira,
e d’affligerla pensa in altra foggia.
« So ben l’autor » dicea « di questa prova,
ma vo’ vederne esperienza nova.
261. Da quell’alpestra e ruvida montagna
ch’ai raggio orientai volge le spalle,
nume, che d’acque brune i sassi bagna,
scorrer vedrai ne la vicina valle.
Questo senza sboccar ne la campagna
esce di Stige per occulto calle,
e ’n quella nera e fetida palude
dopo lungo girar s’ingorga e chiude.
262. Se spavento il tuo petto or non occupa,
ed hai pur (come mostri) animo ardito,
là nel più alto colmo, onde dirupa
l’acqua, hai tosto a salir con piè spedito;
e da la scaturigine più cupa
del fonte, che rampollo è di Cocito,
tentando il fondo de l’interna vena,
trarmi di sacro umor quest’urna piena ».
266
LA NOVELLETTA
263. Dopo questo parlar la fronte crolla
intorbidando de’ begli occhi il raggio,
né ben di perseguirla ancor satolla,
par la minacci di più grave oltraggio.
Presa da lei la cristallina ampolla
Psiche al gran monte accelera il viaggio,
sperando pur, ch’a tante sue ruine
un mortai precipizio imponga fine.
264. Ma come arriva a le radici prime
del poggio altier, che volge al Sol la schiena,
vede l’erta sì aspra, e sì sublime,
che volarvi gli augei possono a pena.
Inaccessi recessi, aguzze cime,
dove non tuona mai, né mai balena,
poi ch’ai verno maggior le nubi e '1 gelo
gli fan dal mezo in giù corona e velo.
263. Lubrico è il sasso, e da le fauci aperte
vomita il fiume oscuro in viva cote,
che per latebre tortuose incerte,
e per caverne concave ed ignote
serpe, e tra pietre rotto ispide ed erte
con rauchi bombi i margini percote.
Caduto stagna, e si diffonde in laghi,
dove fischiano intorno orridi Draghi.
266. Raccoglie la vallea de l’acqua Stigia
tutta la piena nel suo ventre interno.
Riga l’onda il terren pallida e bigia,
orribil sì, che poco è più l’Inferno.
Quivi raro uman piè segnò vestigia,
né la visita mai raggio superno ;
anzi le nevi in su ’l bollir de l’anno
a dispetto del Sol sempre vi stanno.
CANTO QUARTO
267
267. Quel fiume (ancor che crudo) ebbe pietate
di veder spenti sì sereni rai,
e parea dir con Tonde innamorate
« Fuggi, mira ove sei, guarda che fai !
Deh non lasciar perir tanta beltate,
torna tórnati indietro, ove ne vai ?
È follia più che senno, e più che sorte,
senza riscossa alcuna esporsi a morte ».
268. Psiche presso la foce, onde deriva
il torrente infernal, di sasso muto
resta quasi cangiata in statua viva,
quel giogo insuperabile veduto:
sì d’ogni moto, e d’ogni senso priva,
che ’l conforto del pianto anco ha perduto.
Ma qual cosa mortale è che non scerna
il tuo grand’occhio, o Providenza eterna?
269. Spiegò l’Augel reai dal Ciel le penne,
forse ingrato al mio Nume esser non volse,
ché de l’antico ossequio gli sovenne,
quando il Frigio Coppier tra l’unghie accolse.
Questi rapidamente a lei ne venne,
e ’n sì fatto parlar la lingua sciolse:
« Spera dunque, o malcauta, il tuo desio
stilla attigner già mai di questo rio?
270. Fatale è il rio che vedi, e son quest’acque
a Giove istesso orribili e temute,
e i giuramenti suoi fermar gli piacque
inviolabilmente in lor virtute.
Ma dammi pur cotesto vetro ». E tacque,
e preso il vaso entro le grinfe acute,
volando sovra l’apice del monte,
l’empiè de Tonda del Tartareo fonte.
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LA NOVELLETTA
271. Ciò fatto, la guastada in man le porge,
e toma al Ciel per via spedita e corta.
Psiche, che del licor colma la scorge,
volentier la riprende, e la riporta;
e fra tante sciagure in lei risorge
speme, che la rinfranca, e la conforta:
c’ha sotto ignudo petto armato core,
forte, se non di ferro, almen d’amore.
272. Chi può dir ciò che disse, e ciò che feo
la Diva allor di Pafo e d’Amathunta ?
Non freme sì dal Cacciator Rifeo
barbara Tigre saettata e punta,
o dagli Austri sferzato il vasto Egeo,
come mormora e sbuffa a la sua giunta.
Non sa come sfogar l’astio crudele,
e le si gonfia di gran rabbia il fiele.
273. « Ben ti mostri » dicea « com'esser devi,
di malizie maestra, e di malie,
poi che sapesti in tante imprese grevi
sì ben tutte adempir le voglie mie.
Far certo un tal miracolo potevi
sol per arte d’incanti e di magie:
ma cosa non minor forse di questa,
bella mia pargoletta, ancor ti resta.
274. Prendi questo vasel ch'io t’appresento,
discendi a Dite, e sùbito ritorna,
là dove a comandar pena e tormento
la Reina de l’Herebo soggiorna.
Di’ che mi mandi del suo fino unguento,
che la pelle ammollisce e ’l viso adorna.
Ma convienti spacciar tosto la via,
perch’al pasto di Giove a tempo io sia ».
CANTO QUARTO
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275. Psiche senza far motto, a terra fissi
tien que' bei lumi ond’io sospiro e gemo,
ché ben s’accorge, andando invèr gli Abissi,
d’esser mandata a l’infortunio estremo.
Pensa qual mi fess’io, qual mi sentissi,
quando solo in narrarlo ancor ne tremo!
Vederla astretta allor col proprio piede
a girne in parte, ond’uom già mai non riede.
276. Poco oltre va, che trova eccelsa rocca,
e là rivolge desperata i passi,
perché pensa tra sé, s’indi trabocca,
poter girne in tal guisa ai regni bassi.
La Torre (oh meraviglia) apre la bocca,
e discioglie la lingua ai muti sassi.
Che non potrà chi potè ’l cor piagarmi,
se può dar senso agl’insensati marmi ?
277. Lascio di raccontar con qual consiglio
scese d’Abisso a le profonde conche,
con quai tributi senz’alcun periglio
passò di Pluto a l’intime spelonche,
e de’ mostri d’A verno al fiero artiglio
le forze tutte rintuzzate e tronche,
per via che ’ndietro mai non riconduce,
ritornò salva a riveder la luce.
278. E taccio come poi le venne audace
di quel belletto d’Hecate desio,
indi il pensier le riuscì fallace,
ché ’l Sonno fuor del bossoletto uscio;
onde d’atra caligine tenace
le velò gli occhi un repentino oblio,
e da grave letargo oppressa e vinta
cadde immobile a terra, e quasi estinta.
LA NOVELLETTA
27 O
279. Io sano già de la ferita, e molto
da sì lunga prigion stancato ornai,
per un picciol balcon libero e sciolto
fuor de la chiusa camera volai;
e vago pur di riveder quel volto
bramato, amato, e sospirato assai,
parvi battendo le veloci piante
stella cadente, o folgore volante.
280. Là dove senza mente e senza moto
giace mi calo, ed a’ begli occhi volo;
ne tergo il Sonno, e ne l’avorio vóto
di novo il chiudo, e ben n’ha sdegno e duolo
Con l’aurea punta de lo strai la scuoto,
pria la riprendo, e poi la riconsolo.
Tal che con lieta speme al cor concetta
porta il dono infernale a chi l’aspetta.
281. Giunse le palme umile in atto, e fuori
tai note espresse: « Andai sotterra, e venni,
eccomi fuor de’ sempiterni orrori,
e ’l licor di Proserpina n’ottenni.
Imponimi pur difficoltà maggiori,
nulla ricuserò di quanto accenni;
ch’una devota affezzi'on tutt’osa,
e fa potere ogn’impossibil cosa.
282. Ma non fia mai quel dì, lassa, ch’io speri
picciola requie a la penosa vita?
quando vedrò di quei begli occhi alteri,
ch’innamorano il Ciel, l’ira addolcita?
Se fermo è pur, ch’io fra tant’odii fieri
d’ogni calamità sia calamita,
fa’ di tua man che ’l fiato, ond’oggi io spiro,
sia de la morte il precursor sospiro.
CANTO QUARTO
271
283. Deh donde aviene, o Dea pietosa e santa,
che tu meco in tal guisa incrudelisca?
Se pur è ver, che ’n questa che m’ammanta
spoglia mortai, qualche beltà fiorisca,
già non è in me temerità cotanta
che d’emularti o di sprezzarti ardisca.
Dèi tu, che reggi l’amorosa stella,
odiarmi perché ’l Ciel mi fece bella ?
284. Perfida io già non fui. Se forse errai,
colpevol son d’involontario errore.
Un scusabil fallir perdona ornai,
se pur fallo può dirsi amar Amore:
colui da le cui forze (e tu tei sai)
difendersi non vale ardito core.
Dunque t’adirerai perch’abbia amato
quel che pur del tuo grembo al mondo è nato?
285. L’amo (noi nego) e fia che ’n me si scioglia
prima il nodo vital, che l’amoroso.
E se ben fui pur dianzi al vento foglia,
ond’al cospetto suo tornar non oso,
più già mai perder fede o cangiar voglia
non mi vedrà, siami nemico o sposo,
tanto che ’l Sole a questi occhi dolenti
porti l’ultimo dì de’ miei tormenti.
286. Non cheggio il letto suo, né mi si debbe,
so ben, che di tal grazia indegna sono:
ma in quel bel seno, ond’egli nacque e crebbe,
spero trovar pietà, non che perdono ».
Più oltre ancor continovato avrebbe
de le sue note addolorate il suono,
ma la doglia nel cor l’abondò tanto
che diè fine al parlar, principio al pianto.
272
LA NOVELLETTA
287. La Dea l’ascolta, e di stupore impètra,
che ’n tanti rischi indomita la trova.
Ma ’l petto a quel parlar l’apre e penetra
un non so che di tenerezza nova.
Il diamante del cor pietà le spetra,
ond’a forza convien che si commova.
Ella noi mostra, e col suo sdegno ha sdegno,
che cede vinto a l’aversaria il regno.
288. In questo mezo io pur temendo in vero
il minacciato mal, con tanta fretta
rivolo inverso il Ciel, che men leggiero
di mal pieghevol arco esce saetta.
Quivi al Monarca del celeste impero
espongo ogni ragion ch’a me s’aspetta.
Narro di lei gl’ingiusti oltraggi, e come
grava ognor Psiche d’indiscrete some.
289. Prego, lusingo il suo gran Nume eterno,
e gli fo del mio cor la fiamma nota.
Sorrise Giove, e con amor paterno
mi prese il mento e mi baciò la gota.
« Se ben » disse « il tuo ardir con tanto scherno
sovente incontr’a me gli strali arrota,
sì ch’a tòr forme indegne anco m’ha mosso,
a tuoi preghi però mancar non posso ».
290. Gli Dei convoca, e quest’affar consiglia,
e le mie nozze celebrar comanda.
Essorta a contentarsene la figlia,
poscia il suo fido nunzio in terra manda.
Rapita già tra l’immortal famiglia
gusta il cibo divino e la bevanda,
e meco dopo tante aspre fatiche
nel teatro del Ciel sposata è Psiche.
CANTO QUARTO
2 73
201. L’Ore spogliando de’ lor fregi i prati
tutto di rose imporporare il cielo.
Sparser le Grazie aromati odorati,
cantàr le Muse la mia face e ’l telo.
Le corde d’oro e i calami cerati
toccàr lo Dio d'Arcadia, e quel di Deio.
Resse Himeneo la danza, e volse in essa
ballar con l’altre Dee Venere istessa.
202. Così di tanti affanni a riva giunsi,
e per sempre il mio bene in braccio accolsi,
con cui mentre ch’alfin mi ricongiunsi,
tanto mi trastullai, quanto mi dolsi;
né da l’amato sen più mi disgiunsi,
né dal nodo gentil più mi disciolsi;
e del mio seme entro il bel sen concetto
nacque un figliuol, che si chiamò Diletto. —
293. Amor così ragiona, e l’altro intanto
il suo parlar meravigliando ascolta;
e per pietà, d’affettuoso pianto
qualche perla gentil stilla talvolta.
Ma con le faci e le faville a canto
sente avampar nel cor la fiamma accolta,
l^a fiamma, che ’l Pastor con sue vivande
gl’infuse al cor, già si dilata e spande.
18
LA TRAGEDIA
CANTO QUINTO
ALLEGORIA
Per Mercurio, che mettendo Adone in parole, gli persuade
con diversi essempi a ben amar Venere, si dimostra la forza d’una
lingua efficace, e come l’essortazioni de’ perversi Ruffiani sogliono
facilmente corrompere un pensier giovanile. Ne’ favolosi avveni¬
menti di que’ Giovani da esso Mercurio raccontati, si dà per lo
più ad intendere la leggerezza ed incostanza puerile. In Narciso
è disegnata la vanità degli uomini morbidi e deliziosi, i quali non
ad altro intesi che a compiacersi di se medesimi, e disprezzatori
di Eco, ch’è figura della immortalità de’ nomi, alla fine si trasfor¬
mano in fiori, cioè a dire che se ne muoiono miseramente senza
alcun pregio, poi che niuna cosa più di essi fiori è caduca e cor-
rottibile. In Ganimede fatto coppier di Giove, vien compreso il
segno d’Aquario, il qual con larghissime e copiosissime piogge
dà da bere a tutto il mondo. Per Ciparisso mutato in cipresso,
siamo avertiti a non porre con ismoderamento la nostra affez-
zione alle cose mortali, acciò che poi mancandoci, non abbiamo
a menar la vita sempre in lagrime, e in dolori. Pilla (come accenna
l’importanza della voce greca) non vuol dir altro che Selva; ed
è amato da Hercole, perciò che Hercole come cacciatore di mostri,
era solito di frequentar le foreste. Athide infuriato prima, e poi di¬
venuto pino per opera di Cibele, ci discopre quanto possa la rabbia
della gelosia nelle Donne attempate, quando con isproporzionato
maritaggio si ritrovano a giovane sposo congiunte. La rappre¬
sentazione d’Attheone ci dà ammaestramento quanto sia dannosa
cosa il volere irreverentemente, e con soverchia curiosità cono¬
scere de’ secreti divini più di quel che si conviene; e quanto peri¬
colo corra la gioventù di essere divorata dalle proprie passioni,
seguitando gli appetiti ferini.
ARGOMENTO
Entra il Garzon per dilettosa strada
nel bel Palagio in fra delizie nove.
Seco divisa il Messaggier di Giove,
poi con Scene festive il tiene a bada,
1. L’umana lingua è quasi fren, che regge
de la ragion precipitosa il morso.
Timon, ch’è dato a regolar con legge
de la nave de Palma il dubbio corso.
Chiave ch’apre i pensier, man che corregge
de la mente gli errori, e del discorso.
Penna e pennello, che con note vive,
e con vivi color dipinge e scrive.
2. Istromento sonoro, or grati, or gravi,
or di latte, or di mèl sparge torrenti.
Son del suo dire in un fieri e soavi
tuoni le voci, e fulmini gli accenti.
Accoppia in sé de l’Api e gli aghi e i favi,
atti a ferire, a raddolcir possenti.
Divin suggel, che mentr’esprime i detti,
imprime altrui negli animi i concetti.
2So
LA TRAGEDIA
7. Qual meraviglia, se de’ sommi Eroi
l’Interprete immortai, l’astuto Araldo,
possente ad espugnar co' detti suoi
ogni voler più pertinace e saldo,
su ’l fiore, o bell’Adon, degli anni tuoi
il tuo tenero cor rende si caldo ?
Virtù di quel ministro, il qual per prova
ne la casa d’Amor sempre si trova.
S. Somiglia Adone attonito Villano
uso in selvaggio e poverel ricetto,
se talora a mirar vien di lontano
pompa reai di cittadino tetto.
Somiglia il domator de l’Oceano
quando, d’alto stupore ingombro il petto,
vide primiero in region remote
meraviglie novelle, e genti ignote.
9. Volge a tergo lo sguardo, e mira e spia
se calle v’ha per rinvenir l’uscita.
Ma la porta superba, ond’entrò pria,
con sue tante ricchezze è già sparita.
Né sa guado veder, né trovar via
per indietro tornar, che sia spedita;
e quasi Verme di bei stami cinto,
va tessendo a se stesso il labirinto.
10. Tosto ch’egli colà pose le piante,
ben d’Amor prigioniero esser s’accorse,
ma fra delizie sì soavi e tante
da la cara catena il piè non torse;
anzi spontaneo e volontario amante
al ceppo il piede, al giogo il collo porse;
e poi c’ha di tal carcere ventura,
servaggio apprezza, e libertà non cura.
CANTO QUINTO
279
3. Ma come spada, che difende o fère,
s’avien che bene o male oprata sia,
secondo il divers’uso, in più maniere
qualità cangia, e divien buona o ria.
E se dal dritto suo fuor del devere
in malvagio sermon torta travia,
trafige, uccide, e del mordace dente
(ben che tenera e molle) è più pungente.
4. Se ben però, qualor saetta o tocca,
stampa sempre in altrui piaghe mortali,
non fa colpo maggior, che quando scocca
in petto giovenil melati strali.
Versa catene d'or faconda bocca,
che molcendo e traendo i sensi frali,
tesson legame al cor dolce e tenace,
ch’imprigiona e lusinga, e nóce e piace.
5. Un mezano eloquente, un scaltro messo,
Paraninfo di cori innamorati,
che viene, e torna, e patteggiando spesso
de le compre d’Aoioi tratta i mercati,
con le parole sue fa quell’istesso
ne’ rozi petti, e ne’ desir gelati,
che suol ne’ ferri far la cote alpina,
che non ha taglio, e le coltella affina.
6. Oh vi fulmini il Ciel, v’assorba Dite,
infernali Himenei, sozzi Oratori,
Corrieri infami, a l’anime tradite
di scelerati annunzii Ambasciadori ;
che con ragioni essortatrici ardite
di stimulare i semplicetti cori,
corrompendo i pensier con dolci inganni!
Qual ufficio più vii fa maggior danni ?
CANTO QUINTO
28l
11. Non manca quivi a corteggiarlo accinta
di festevoli Ninfe accorta schiera,
né con piuma qual d’oro, e qual dipinta,
vago drappel di Gioventute arciera;
ch’ai bel fanciul, da cui fu presa e vinta
la bella Dea che ’n quell’albergo impera,
stanno in guisa d’ancelle e di sergenti,
diversi uffici a ministrare intenti.
12. Chi d’ambrosia gl’impingua il crin sottile,
chi di rosa l’implica, e chi di persa,
chi di pomposo e barbaro monile
la bella gola e candida attraversa,
altri a l’orecchie di lavor simile
gemma gli appende folgorante e tersa;
tal che tutto si vede intorno intorno
di molli arnesi e feminili adorno.
13. Incantato da’ vezzi, e tutto inteso
a cose Adon sì disusate e nove,
parte d’alto stupor che l’ha sorpreso
vinto, bocca non apre, occhio non move,
parte sovra pensier, seco sospeso
volge suo stato, e con cui siasi, e dove;
e sparso intanto d’un gentil vermiglio
basso tien per vergogna a terra il ciglio.
14. Qui presente d’Atlante era il nipote,
perché non pur la sua natia Cillene
lascia talor, ma da l’eterne rote,
per scherzar con Amor, spesso ne viene.
Questi al Garzon s’accosta, e sì lo scote,
ch’alzar gli fa le luci alme e serene.
Favoleggiando poi dolce il consiglia,
e con modi piacevoli il ripiglia.
282
LA TRAGEDIA
15. — O damigel, che sott’umano velo
di consorzio divin sei fatto degno,
de la tua sorte invidiata in Cielo
ecco ch’io teco a rallegrar mi vegno.
Cosi ’l tuo foco mai non senta gelo,
come a curar non hai del patrio regno,
quando di sé lo scettro, e del suo stato,
la Reina de’ Regi in man t’ha dato.
16. Ma perché muto veggioti, e pensoso,
sia pensier, sia rispetto, o sia cordoglio,
consolar mesto, assecurar dubbioso,
consigliar sconsigliato oggi ti voglio.
Del bel, per cui ne vai forse fastoso,
ah non ti faccia insuperbire orgoglio:
però ch’è fior caduco, e, se noi sai,
fugge, e fuggito poi, non torna mai.
17. E ti vo’ raccontar, se non t’aggrava,
ciò ch’adivenne al misero Narciso.
Narciso era un fanciul, ch’innamorava
tutte le belle Ninfe di Cefiso.
La più bella di lor, che s’appellava
Eco per nome, ardea del suo bel viso,
ed adorando quel divin sembiante
parea fatta idolatra, e non amante.
18. Era un tempo costei Ninfa faconda,
e note sovr’ogni altra ebbe eloquenti:
ma da Giunon crucciosa ed iraconda
le fur lasciati sol gli ultimi accenti.
Pur, se ben la sua pena aspra e profonda
distinguer non sapean tronchi lamenti,
supplia pace chiedendo ai gran martiri
or con sguardi amorosi, or con sospiri.
CANTO QUINTO
283
19. Ma l’ingrato Garzon chiuse le porte
tien di pietate al suo mortai dolore.
Porta negli occhi e ne le man la morte,
de le fere nemico, e più d’Amore.
Arma, crudo non men che bello e forte,
d’asprezza il volto, e di fierezza il core.
Di sé s’appaga, e lascia in dubbio altrui
se grazia o ferità prevaglia in lui.
20. « Amor » dicean le Verginelle amanti
« o da questo sord’Aspe Amor schernito,
dov’è l’arco e la face, onde ti vanti ?
perché non ne rimane arso e ferito?
Deh fa’. Signor, che con sospiri e pianti
ami invan non amato e non gradito.
Come più tant’orgoglio ornai sopporti ?
Vendica i propri scorni, e gli altrui torti! »
21. A quel caldo pregar l’orecchie porse
l'Arcier contro il cui strai schermo vai poco,
e ’l Cacciator superbo un giorno scòrse
tutto soletto in solitario loco.
Stanco egli di seguir Cinghiali ed Orse,
cerca riparo dal celeste foco.
Tace ogni augello al gran calor ch’essala,
salvo la roca e stridula Cicala.
22. Tra verdi colli in guisa di teatro
siede rustica valle e boschereccia.
Falce non osa qui, non osa aratro
di franger gleba, o di tagliar corteccia.
Fonticel di bell’ombre algente ed atro,
inghirlandato di fiorita treccia,
qui dal Sol si difende, e sì traluce,
ch’ai fondo cristallin l’occhio conduce.
284
LA TRAGEDIA
23. Su la sponda letal di questo fonte,
che i circostanti fior di perle asperge,
e fa limpido specchio al cavo monte,
che lo copre dal Sol quando più s’erge,
appoggia il petto e l’affannata fronte,
le mani attuffa, e l’arse labra immerge.
E quivi Amor, mentr’egli a ber s’inchina,
vuol ch’impari a schernir virtù divina!
24. Ferma ne le bell’onde il guardo intento,
e la propria sembianza entro vi vede.
Sente di strano amor novo tormento
per lei, che finta imagine non crede.
Abbraccia l’ombra nel fugace argento,
e sospira e desia ciò che possiede.
Quel che cercando va, porta in se stesso,
miseri, né può trovar quel c’ha da presso.
25. Corre per refrigerio a l’onda fresca
ma maggior quindi al cor sete gli sorge.
Ivi sveglia la fiamma, accende l’ésca,
dove a temprar l’arsura il piè lo scòrge.
Arde, e perché l’ardor vie più s’accresca
la sua stessa beltà forza gli porge;
e ne l'incendio d’una fredda stampa
mentre il viso si bagna, il petto avampa.
26. La contempla, e saluta, e tragge (ahi folle!)
da mentito sembiante affanno vero.
Egli amante, egli amato, or gela, or bolle,
fatto è strale e bersaglio, arco ed arciero.
Invidia a quell’umor liquido e molle
la forma vaga e ’l simulacro altero,
e geloso del bene, ond’egli è privo,
suo rivai su la riva appella il rivo.
CANTO QUINTO
285
27. Mancando alfin lo spirto a l’infelice,
troppo a se stesso di piacer gli spiacque.
Depose a piè de l’onda ingannatrice
la vita, e morto in carne, in fior rinacque.
L’onda, che già l’uccise, or gli è nutrice,
perch’ogni suo vigor prende da Tacque.
Tal fu il destin del vaneggiante e vago
vagheggiator de la sua vana imago.
28. E così fece il Ciel del grave oltraggio
de la sprezzata Ninfa alta vendetta.
Ma tu (credo ben io), se sarai saggio,
aborrir non vorrai quel che diletta,
e sgombro il sen d’ogni rigor selvaggio
godrai l’età fiorita e giovinetta,
Idolo d’una Dea, dal cui bel viso
impara ad esser bello il Paradiso.
29. Di quella Dea, per cui strugger si sente
lo Dio del foco in maggior foco il petto,
e da martel più duro e più possente
batter il cor, d’amore, e di sospetto.
Quella che i danni de l’offesa gente
vendica sol col mansueto aspetto;
ché se ’l folgore suo percote altrui,
un sol guardo di lei trafige lui.
30. Di quella Dea, che può col seno ignudo
vincer l’invitto Dio d’armi guernito,
lo qual non può sì forte aver lo scudo
che non ne resti il feritor ferito,
né di sì salde tempre il ferro crudo
che tempri il mal da que’ begli occhi uscito.
Quella, che può bear l’alme beate,
beltà del Cielo, e Ciel d’ogni beltate.
286
LA TRAGEDIA
31. Giovane il mondo in altra età qual ebbe,
amato mai da Dettate alcuna,
e qual cotanto al Cielo in grazia crebbe,
che possa pareggiar la tua fortuna?
Non quegli a te paragonar si debbe
ch’accese il cor de la gelata Luna.
Non l’altro, che ’n su ’l bel carro fiorito
lu da la bionda Aurora in Ciel rapito.
32. Mille di mille Dee, di mille Dei,
che quaggiù di lassù spiegaro il volo,
amori annoverar qui ti potrei,
ma lascio gli altri, e te ne sceglio un solo.
Oso di dir, che più felice sei
di quel che piacque al gran Rettor del polo.
Non so se ti sia nota, o forse oscura,
del Troiano donzel l’alta ventura.
33. Dal sovrano balcon rivolto avea
il Motor de le stelle a terra il ciglio,
quando mirò giù ne la valle Idea
del Re di Frigia il giovinetto figlio.
Mirollo, e n’arse. Amor, che l’accendea,
l’armò di curvo rostro e curvo artiglio,
gli prestò l’ali, e gli destò vaghezza
di rapir la veduta alta bellezza.
34. La maestà d’un sì sublime amante
bramoso d’involar corpo sì bello,
de la ministra sua prese sembiante,
ché non degnò cangiarsi in altro augello.
Però che tutto il popolo volante
più magnanimo alcun non n’ha di quello,
degno da che portò tanta beltate
d’aver di stelle in Ciel l’ali gemmate.
CANTO QUINTO
287
35. Bello era, e non ancor gli uscìa su ’l mento
l’ombra ch’aduggia il fior de’ più begli anni.
Iva tendendo a roze prede intento
ai cervi erranti insidiosi inganni.
Ed ecco il predator, che ’n un momento
falcate l’unghie, e dilatati i vanni,
in alto il trasse, e per lo ciel sostenne
l’amato incarco in su le tese penne.
36. Mira da lunge stupido e deluso
10 stuol de’ servi il vago augel rapace.
Seguon latrando, e risguardando in suso,
i cani la volante ombra fugace.
11 volo oblia d’alto piacer confuso
Giove, e di gioia e di desir si sface,
gli occhi fiso volgendo, e le parole,
Aquila fortunata, al suo bel Sole.
37. « Eanciul » dicea «che piagni? a che paventi
cangiar col Cielo (ahi semplicetto) i boschi ?
con l’auree sfere, e con le stelle ardenti
le tane alpestri, e gli antri ombrosi e foschi ?
e con gli Dei benigni ed innocenti
le fere armate sol d’ire e di toschi?
fatto, mercé di lui, che ’l tutto move,
di rozo Cacciator Coppier di Giove?
38. Son Giove istesso. Amor m’ha giunto a tale,
non prestar fede a le mentite piume.
Aquila fatto son; ma che mi vale,
s’Aquila ancor m’abbaglio a tanto lume?
lo quel, quell’io, che col fulmineo strale
tonar sovra i Giganti ho per costume,
sì son pungenti i folgori che scocchi,
saettato son già da’ tuoi begli occhi.
LA TRAGEDIA
2 88
39. Qual prò ti fia per balze e per caverne
seguir de’ mostri orribili la traccia ?
Vienne vien’ meco a le delizie eterne,
maggior preda fia questa, e miglior caccia.
E s’avien che colà ne le superne
piagge i bei membri essercitar ti piaccia,
trarrai per le stellate ampie foreste
dietro a l’Orse del polo il Can celeste.
40. Lascia ornai più di ricordar, rivolto
a le selve, agli armenti, Ida né Troia.
Sei celeste, e felice; avrai, raccolto
tra gli eterni conviti, eterna gioia.
L ne l’aspra stagion, quand’Austro sciolto
l’aria, la terra e '1 mar turba ed annoia,
visitata dal Sol, lucida e bella
scintillerà la tua feconda stella ».
41. Così gli parla, e ’ntanto al sommo regno,
de la gente immortai patria serena,
non però senza scorno e senza sdegno
de la gelosa Dea, lo scòrge e mena,
dove del nobil grado il rende degno
che sempre in ogni prandio, in ogni cena
a mensa in cavo e lucido diamante
porga il nèttare eterno al gran Tonante.
42. Hebe e Vulcan, che poco dianzi quivi
de la gran tazza il ministero avieno,
già rifiutati, e de l’ufficio privi,
cedono al novo aventurier terreno.
Ei l’ama sì, ch’innanzi a Dive e Divi
quando il sacro teatro è tutto pieno,
ancor presente la ritrosa moglie,
da Ganimede suo mai non si scioglie.
CANTO QUINTO
289
43. Non gli reca il Garzon già mai da bere
che pria noi baci il Re che 'n Ciel comanda,
e trae da quel baciar maggior piacere
che da la sua dolcissima bevanda.
Talvolta a studio, e senza sete avere,
per ribaciarlo sol, da ber dimanda.
Poi gli urta il braccio, o in qualche cosa intoppa,
spande il licore o fa cader la coppa.
44. Quando torna a portar l’amato paggio
il calice d’umor stillante e greve,
rivolti in prima i cupid’occhi al raggio
de’ bei lumi ridenti, egli il riceve,
e col gusto leggier fattone un saggio,
il porge a lui, ma mentr’ei poscia il beve,
di man gliel toglie, e le reliquie estreme
cerca nel vaso, e beve, e bacia insieme.
45. Ma che? Tu sovra questo, e sovra quanti
più pregiati ne furo unaua tra noi
darti ben a ragion titoli e vanti
d’aventuroso e fortunato puoi,
poi che ’l più bel de’ sette lumi erranti
hai potuto invaghir degli occhi tuoi,
e por te stesso in signoria di quella,
ch’influisce ogni grazia, amica stella.
46. E però ti consiglio, e ti ricordo,
che di tanto favor ringrazii il fato.
Non esser al tuo ben cieco, né sordo.
Sappi gioir di sì felice stato.
Né cagion lieve, o van desire ingordo
partir ti faccia mai dal fianco amato;
perché cose s’incontrano sovente
onde, quando non vale, altri si pente.
19
2QO
LA TRAGEDIA
47. La fanciullesca età tenera e molle
è quasi incauta e semplice fanciulla,
lo cui desir precipitoso e folle
corre a ciò che l’alletta e la trastulla.
Or piange, or ride, e mentr'ondeggia e bolle,
suole immenso dolor tragger di nulla,
e procacciar non senza gravi affanni
da leggieri accidenti eterni danni.
48. Troppo talvolta a vani oggetti intenta
quel che rileva più, sprezza ed oblia,
e così pargoleggia, e si lamenta
s’avien che perda poi ciò che desia.
Un essempio n’avrai, se ti rammenta,
degno ch’a mente ognor certo ti sia,
per cui l’alma anzi tempo uscì divisa
d’una spoglia leggiadra, odi in che guisa.
49. Vezzoso Cervo si nutriva in Cea,
di cui più bel non fu Daino, né Damma,
sacro a la casta e boschereccia Dea,
più vivace e leggier che vento o fiamma.
Quando a pena lasciato il nido avea,
d’una Capra poppò l’ispida mamma,
onde conforme a l’alimento ch’ebbe
qualità prese, e mansueto crebbe.
50. È canuto qual cigno, e ’l pelo ha bianco
più che latte rappreso o neve alpina;
sol di purpuree macchie il petto e ’l fianco
sparso a guisa di rose in su la brina.
Con le Ninfe conversa, e talor anco,
in udir chiamar Cinthia, egli s’inchina,
pur come a reverir nome sì degno
umano spirto il mova, umano ingegno.
CANTO QUINTO
291
51. Tra Fauni e Driadi il di spazia e soggiorna
in aperta campagna o in chiuso ovile,
che per fregiargli le ramose corna
van de le pompe sue spogliando Aprile.
D’oro l’orecchie, e d’or la fronte adorna,
gli circonda la gola aureo monile,
ch’un tal breve contien: “ Ninfe e Pastori,
di Diana son io, ciascun m’onori
52. Le Ninfe fontaniere e le montane
ne la stagion ch’ai Cervo il corno casca,
onde povero ed orbo ei ne rimane
per più corsi di Sol pria che rinasca,
gli componeano in mille forme estrane
su la vedova fronte ombrosa frasca,
e con bell'arte il rifacean cornuto:
quel che già per natura avea perduto.
53. Tra quanti il favorirò e l’ebber caro
fu Ciparisso, un pellegrin donzello,
per cui languiva il gran Signor di Claro
che non vide già mai viso più bello.
L’età con la bellezza iva di paro,
ch'era degli anni ancor su ’l fior novello,
e del suo bel mattin l’Alba amorosa
le guance gli spargea di fresca rosa.
54. Questo fanciul, da’ cui begli occhi acceso
più che da’ propri raggi ardeva Apollo,
sempre a seguirlo, a custodirlo inteso
in pregio l'ebbe, e sovr’ogni altro amollo.
(ili avea di propria man fatto ed appeso
di squillette d’argento un serto al collo,
perché qualor da lunge il suon n’udiva
lo potesse trovar, se si smarriva.
292
LA TRAGEDIA
55. Erra il giorno con lui, la sera riede
là ’ve d’erbe e di fior letto 1’accoglie.
Spesso in braccio gli corre, in grembo siede,
e prende di sua mano or acque, or foglie.
Orgoglioso ei ne va, che lo possiede,
umil l’altro ubbidisce a le sue voglie,
e con serico fren pronto e leggiero
si lascia maneggiar, come un destriero.
56. Era nel tempo de le bionde spiche,
quando il Pianeta fervido di Deio
i raggi a piombo in su le piagge apriche
non vibra no, ma fulmina dal cielo.
11 bel Garzon fra molte querce antiche,
che tessean di folt’ombra un verde velo,
dopo lungo cacciar stanco ne venne,
e ’1 domestico suo dietro gli tenne.
57. Or mentre il Cervo pasce, ed egli porge
riposo ai membri in mezo a la foresta,
erger vago Fagian non lunge scorge
fuor d'una macchia la purpurea testa
Prende l’aico pian pian, da l’erba sorge,
e ’l miglior strai de la faretra appresta.
Tende prima la corda, indi l’allenta,
e la canna ferrata innanzi aventa.
58. Dove l’Arcier l’invia, lo strai protervo,
ma dov’ei non vorrebbe, i vanni affretta.
Dopo quel cespo il suo diletto Cervo
erasi posto a ruminar l’erbetta.
Onde scagliato dal possente nervo,
il fianco inerme al misero saetta.
Pensati tu, s’a la mortai ferita
cade, e ’n vermiglio umor versa la vita!
CANTO QUINTO
293
59. V’accorre il suo Signor, volgendo dritto
verso il flebil muggito il guardo pio.
E quando vede (ahi Cacciatore afflitto!)
in cambio de l’augel, quel che ferio,
e gemer sente il poverel trafitto,
che par gli voglia dir « Che t’ho fatt’io ? »,
stupisce, e trema, e da gran doglia oppresso
vorria passarsi il cor col dardo istesso.
60. Scende colà lo Dio chiomato e biondo
dal suo carro lucente ed immortale,
e gli dimostra con parlar facondo
come quel che l’afflige è picciol male.
Ma nessuna ragion che porti al mondo
a consolar lo sconsolato vale.
Del cadavere freddo il collo amato
abbraccia, e bacia, e vuol morirgli a lato.
61. Sfoga con l’innocente arco infelice
il suo rabbioso e desperato sdegno.
Spezza l’empie quadrella, ed « Ornai » dice
« non suggerete voi sangue men degno!
àia te del fiero colpo essecutrice
mano ingrata e crude], perché sostegno?
Perché, s’hai con lo strai commesso errore,
non l’emendi col ferro in questo core?
62. Poi che perfido io stesso, e malaccorto,
di propria man d’ogni tesor m’ho privo,
e perduta ogni gioia, ogni conforto,
lieti oggetti e giocondi aborro e schivo,
fa’ (prego) o Ciel, senza il mio ben, ch’è morto,
ch’io fra tanto dolor non resti vivo.
Fa' ch’io non senta almeno, e che non miri,
se non feretri, e lagrime, e sospiri ».
294
LA TRAGEDIA
63. A pena egli ha vigor d’esprimer questo,
che la pelle gl’indura, e ’I busto ingrossa.
Sorge piramidal tronco funesto,
rozo legno si fan le polpe e Tossa.
Verdeggia il crin frondoso, e quanto al resto
tutta da lui l’antica forma è scossa.
Funeral pianta e tragica diviene,
e quant’uom desiava, arbore ottiene.
64. S’un amante divin, più ch’una fera,
(come ragion chiedea) curato avesse,
forse non avria questi in tal maniera
dato campo al destin che poi Toppresse.
Or tu non far ch’occasion leggiera
t’involi a lei che suo Signor t’elesse,
perché lontan da chi n’ha zelo e cura
scompagnata beltà non va secura.
65. So che sovente per le selve errando,
dove strani animali hanno ricetto,
di girne ardito e ’ntrepido cacciando
o con spiedo o con strai prendi diletto.
Deh non voler, tanto piacer lasciando,
tra i perigli de’ boschi entrar soletto.
S’al viver tuo troncar non vuoi le fila,
sovengati talor del caso d’Hila.
06. Era scudier del generoso Alcide
Hila, il vago figliuol di Theodamante.
Più bei crin, più begli occhi il Sol non vide,
più bel volto già mai, più bel sembiante.
Con la tenera man Tarmi omicide
spesso stringea del bellicoso amante,
e de Timinensa e smisurata clava
fedelmente Tincarco in sé portava.
CANTO QUINTO
29
67. Quando al fier Gerì'on, quando ad Anteo
tolse il forte Campion la vita e l’alma,
quando de l’Hidra e del Leon Xemeo,
del Cinghiale e del Tauro ebbe la palma,
fu sempre a parte d’ogni suo trofeo,
né lasciar volse mai la cara salma,
seguendo pur con pronte voglie amiche
de l’invitto Signor balte fatiche.
68. S’arinaro intanto per portar de l'oro
la ricca preda i Naviganti audaci,
del primo sprezzator d’Austro e di Coro,
quando a Coleo passò, fidi seguaci.
V’andàr di Leda i figli, andò con loro
Theseo, andovvi il Cantor de' boschi traci;
e fra gli altri guerrier de lo stuol greco
il gran figlio d’Almena, ed Hila seco.
69. Sorse di Misia, da buon vento scòrta,
tra i verdi lidi la famosa nave,
dove ferma su l’àncora ritorta
depose de’ suoi duci il peso grave.
Procaccia qui la gioventute accorta
per l’amene campagne ombra soave.
Chi le mense apparecchia in su le sponde,
chi fa letto o sedil d’erbe e di fronde.
70. Hila dal caldo e da la sete adusto
cerca ov’empir di gelid’onda un vaso,
onde d’urna dorata il tergo onusto
colà s’imbosca, ove lo porta il caso.
Crescer l’ombre fa già del folto arbusto
il Sol, ch’ornai declina invèr l’Occaso;
ed ei per tutto spia se d’acqua sente
alcuna scaturigine cadente.
296
LA TRAGEDIA
71. Ed ecco giunge ove di musco e felce
tutta vestita, e d’edera selvaggia,
pendente costa di scabrosa selce
gran parte adombra de l’aprica spiaggia.
Quinci l’orno e la quercia e l’alno e l’elce
scacciano il Sol, qualor più caldo irraggia,
spargendo intorno da la chioma oscura
opacata di fronde alta frescura.
72. Quasi cor de la selva, un fonte ombroso,
mormorando nel mezo, il prato aviva,
ed offre al peregrin fresco riposo,
chiuso dal verde, a la stagione estiva.
Dal sen profondo del suo fondo erboso
spira spirto vital d’aura lasciva,
e porge a l’erbe, agli arboscelli, ai fiori
per cento vene i nutritivi umori.
73. Sotto questa fontana a chiome sciolte
su ’l bel fitto meriggio aveano usanza
le Napee del bel loco in cerchio accolte
vaghe carole essercitare in danza.
Com’Hila in lor le luci ebbe rivolte,
d’infiammarle tra Tacque ebbe possanza,
onde nel vivo e lucido cristallo
rotto nel mezo abbandonaro il ballo.
74. Come stella nel mar divelta cade
da l’azurro seren del cielo estivo,
o qual strisciando per oblique strade
fende il notturno vel raggio festivo,
così la rara e singoiar beltade
rapita in giù dentro quel gorgo vivo,
precipitando tra le chiare linfe
trovossi in braccio a le gelate Ninfe.
CANTO QUINTO
297
75. De le vezzose Dee l’umida schiera
consolandolo a prova, in sen l’asconde;
Driope, Egeria, Nicea, Nisa, Neera
gli asciugan gli occhi con le trecce bionde.
Ei la perduta libertà primiera
piagne, e col pianto amaro accresce Tonde.
Ahi che disse? ahi che fe’ per doglia insano
de’ mostri intanto il domator tebano?
76. Lungo il Pontico mar con piè veloce
cerca e ricerca ogni riposto calle.
Tien la gran mazza ne la man feroce,
la libica faretra ha da le spalle.
« Hila Hila » tre volte ad alta voce,
« Hila » chiamò per la solinga valle ;
né fuor ch’un mormorio debile e basso,
gli fu risposto dal profondo sasso.
77. Poscia che ’ndarno il suo ritorno attese,
gemiti desperati al Ciel disciolse,
di rabbiosi sospiri il bosco accese,
de le stelle, d'Amor, di sé si dolse.
Tifi, poi che le vele a l’aura tese,
gl’incliti Eroi su l’alta poppa accolse.
Hercol restò con dolorosi stridi,
tapino amante, ad assordare i lidi.
78. Fra tante istorie, ch’io ti narro, e tante,
un punto principal non vo’ tacere.
Non esser in amor foglia incostante,
ch’ai primo soffio è facile a cadere.
Non esser alga in mar lieve e tremante,
che pieghi or quinci or quindi il tuo volere.
Stabile ai venti, a Tonde, in te raccogli
la fermezza de’ tronchi, e degli scogli.
2 t)S
LA TRAGEDIA
70. \'ago è del bello, e di leggier s’accende
di duo begli occhi un giovanetto core.
Agitato vacilla, or lascia, or prende,
quasi Camaleonte, ogni colore.
Il pianeta volubile che splende
tra le fredd’ombre del notturno orrore,
tante forme non cangia incontro al Sole,
quant’egli in sé stampar sempre ne suole.
80. So che ’1 ben si diffonde, e si diletta
communicarsi altrui per sua natura.
Ma chi giunge a goder beltà perfetta
non dev’ésca cercar di nova arsura.
Alma gentile in nobil laccio stretta
di publico giardin frutto non cura,
perché vulgare e prodiga bellezza
posseduta da molti, è vii ricchezza.
81. Cosa non è che tanto un core irriti,
quando Amor da ragion vinto si sdegna,
quanto il vedersi i suoi piacer rapiti
da mano ingrata, e per cagion men degna.
Tu gli altrui dolci e lusinghieri inviti
fuggir (s’hai senno) a più poter t’ingegna,
perché di te non faccia Citherea
quel che d’Atide fece un’altra Dea.
82. Cibele degli Dei madre feconda
fu d'Ati un tempo innamorata assai,
e degna n’era ben l’aria gioconda
del viso, ch’avea bel, come tu l'hai.
Avea bocca purpurea, e chioma bionda,
e sotto oscure ciglia ardenti rai,
né de le prime lane ancor vestita
la guancia vermiglietta e colorita.
CANTO QUINTO
Poscia che degno il fe’ ch’egli salisse
de la scala d’Amor su ’l grado estremo,
«Tu vedi ben » più volte ella gli disse
« sì com’io sol per te languisco e gemo.
Non far torto a lo strai che mi trafisse,
sol perché troppo t’amo, io troppo temo.
A la giurata fé non far inganno,
se non vuoi che ’l favor ti torni in danno ».
« No no » dicea ’l Garzon « beltà non veggio,
che mi possa adescar ne’ lacci suoi.
Dal dì ch’aveste in questo core il seggio,
per altr’occhi languir non seppi poi.
Qualunque, ovunque io siami, esser non deggio
altro già mai che vostro, altro che voi.
Arderò, v’amerò (così prometto)
fin ch’avrò sangue in vena, anima in petto ».
Non molto andò, che per riposte vie,
vago di refrigerio e di quiete,
mentre ne la più alta ora del die
cercava umor per ammorzar la sete,
stelle il guidaro insidiose e rie
in certe solitudini secrete,
dove ombraggio cadea gelido e fosco
dal folto crin d’un taciturno bosco.
Tra discoscese e solitarie piagge
volge gran rupe al Sol le spalle alpine.
Ombran la fronte sua piante selvagge,
quasi de l’aspra testa ispido crine.
Per l’occhio d’un canal distilla e tragge
lagrime innargentate e cristalline.
Apre un antro le fauci a piè del fonte
quasi gran gola, e fa la bocca al monte.
300
LA TRAGEDIA
87. Quivi a seder Sangarida ritrova,
un’Amadriade assai vezzosa e bella.
L’aviso de la Dea poco gli giova,
la contempla furtivo, e non favella.
Scender si sente al cor dolcezza nova,
e gli lampeggia il cor com’una stella:
or avampa, or agghiaccia, e trema come
de’ vicini arboscei treman le chiome.
88. A l’ombra del suo bel tronco natio,
che tempesta di fior le piove in grembo,
steso su ’l verde margine del rio
la vaga Ninfa ha de la gonna il lembo,
ed ogni altro pensier posto in oblio,
coglie dal prato quel fiorito nembo,
dal prato, a cui più che la man non prende,
con larghissima usura il guardo rende.
89. Mentre a l’errante crin tenero freno
di fior bianchi innanella, e di vermigli,
si specchia, e con l’umor chiaro e sereno
par che tacitamente si consigli.
Ma co’ fior del bel viso e del bel seno
perdon le rose assai, perdono i gigli;
e i fiati de la bocca aventurosa
vincon l’odor del giglio e de la rosa.
90. Ciò fatto, ne le pure onde tranquille
poi c’ha tre volte e quattro il volto immerso,
per le labra innaffiar di fresche stille
fa del concavo pugno un nappo terso.
Ahi che sugge ella umori, Ati faville,
quantunque abbiano in ciò fonte diverso.
Da la mano e dagli occhi a poco a poco,
mentre ch’ella bev’acqua, ei beve foco.
CANTO QUINTO
3»I
91. Fuor del boschetto alfine il passo ei spinse,
e dal centro del cor trasse un sospiro:
un sospir, che lo spirto in aura strinse
e fu muto Orator del suo martiro.
L’una allor si riscosse, e l’altro tinse
la pura neve del color di Tiro.
Volea parlar, ma quasi ghiaccio al Sole,
venia meno la voce a le parole.
92. A la leggiadra Vergine da presso
si fe’ pur sospirando, e pur gemendo,
con sì caldo desio nel volto espresso
che ne’ sospiri suoi chiedea tacendo,
ma così reverente, e sì dimesso,
che ne’ gemiti suoi tacea chiedendo,
e spargea mille d’aurei strali armati
fuor de’ begli occhi spiritelli alati.
93. Tosto ch’a quella luce il volto volse,
arse di pari ardor la Giovinetta.
Depose i fiori, ed ei quel fior si colse
ch’ai seguaci d’Amor tanto diletta.
Quando in letto odorifero gli accolse
la fresca molle e rugiadosa erbetta,
ne sussurrar, ne bisbigliar le fronde,
e dolce mormorio ne fu tra Tonde.
94. Ma la gelosa Dea, che ’l fallo ascolta
di quel suo disleal, che l’ha tradita,
tosto a le Furie infuriata e stolta
ricorre, e ’ncontr’al Giovane rinàta.
Già di squallide serpi il crine involta
vibra le faci sue d’Averno uscita,
e con foco e con tosco ecco ch’Aletto
gli coce il core, e gli flagella il petto.
LA TRAGEDIA
Ferve d’insana ed arrabbiata voglia
di Tartaree fiammelle Atide acceso,
spuma, freme, il piè scalza, il manto spoglia,
sì lo strugge il velen che ’l cor gli ha preso.
La feconda radice ond’uom germoglia,
e l’un e l’altro suo pendente peso,
rei del suo mal, da gran furore indutto,
miseri, di propria man si tronca in tutto.
Testimonio pietoso al caso tristo
fu di Sinade allora il vicin colle,
che d’ognintorno rosseggiar fu visto
del sangue del Garzon rabbioso e folle.
Del sangue bel, che con la rupe misto
tutto il sasso lasciò macchiato e molle,
onde Frigia dipinti ancor ritiene
i marmi suoi di preziose vene.
Per trarsi poscia a precipizio, ascende
ripida cima d’aspro monte alpino;
ma mentre in giù trabocca, e in aria pende
co’ piedi in alto, e con la fronte al chino,
la Dea, che l’ama ancor, pietosa il prende,
l’affige in terra, e lo trasforma in pino.
Fd or da quel di pria cangiato tanto
in tenace licor distilla il pianto. —
Con queste fole e favolette avea
del sommo Giove il messaggier sagace
persuaso il Garzon; né qui ponea
freno al garrir, novellator loquace.
Ma troncando il cianciar, stese la Dea
la man di neve al foco suo vivace;
e parve il cor con un sospiro aprisse,
mentre queste parole ella gli disse:
CANTO QUINTO
3«3
99. — Adon cor mio, mio core, ornai serena
la mente ombrosa, e lascia ogni altra cura.
O tre volte mio cor, deh (prego) affrena
quel desio di cacciar ch’a me ti fura.
Non far (se m’ami) ch’acquistata a pena
perdano gli occhi miei tanta ventura.
Non voler dato a me, da me disgiunto,
e ricca farmi e povera in un punto.
100. Non sottopor de’ boschi ai duri oltraggi
le dilicate membra e giorno e notte.
Lascia a più rozi cori, e più selvaggi,
de le fere il commercio e de le grotte.
Che ti giova menar tra l’elci e i faggi
spezzati i sonni, e le vigilie rotte?
e in ozio travagliato e faticoso
inquieta quiete, aspro riposo?
joi. Che ti vai la faretra ognor di strali,
e di mostri la selva impoverire ?
De le Dive celesti ed immortali
bastiti co’ begli occhi il cor ferire,
senza voler de’ rigidi animali
con tuo danno, e mio duol, Torme seguire.
Perché di questo sen denno le selve,
e di me più felici esser le belve?
102. Soffrir dunque poss’io, che da le braccia
rapita (oimè) mi sia tanta bellezza,
per darla a tal, che con l’artiglio straccia,
e col dente ferisce, e la disprezza ?
O crude fere, o maledetta caccia,
o ricetti d’orrore e di fierezza,
indegne di mirar luci sì pure,
contumaci del Sol, foreste oscure!
3»4
LA TRAGEDIA
103. Possiate sempre le rabbiose strida
e i furori sentir d’Euro baccante.
Fiero fulmine i rami a voi recida,
sfrondi il crin, sfiori i fior, spianti le piante.
Rigorosa secure in voi divida
da l’amato arboscel l’arbore amante,
sì come voi spietatamente il mio
dividete da ine, dolce desio.
104. Sovra tutto il timor m’agghiaccia e coce
de la triforme Dea, ch’è donna anch’ella;
e se ben tanto incrudelì feroce
ne la misera sua già ninfa, or stella,
(lascio il suo loco al ver) corre pur voce
che non fu sempre al mio figliuol rubella,
e coprendo il piacer con la vergogna,
sa goder, e tacer quando bisogna.
103. Ma siasi pur, qual i mortali sciocchi
la fanno a punto, e santa e casta ed alma.
Che fia, s’egli averrà che ’l sen le tocchi
quello strai che di me porto ia paima?
Fiamma di questo cor, Sol di quest’occhi,
vita de la mia vita, alma de l’alma,
sappi ch’un raggio sol de’ tuoi sembianti
può romper marmi, e calcinar diamanti. —
106. Risponde Adone: — O caramente cara,
certo a me, quanto cara, ingrata sei,
se creder puoi che possa (ancor che rara)
altra beltà di me portar trofei.
Il Sol degli occhi tuoi sol mi rischiara,
occhi più cari a me che gli occhi miei.
Là si gira il mio fato e la mia sorte,
essi son la mia vita, e la mia morte.
IO?.
108.
109.
1 io.
CANTO QUINTO
Ben che tutto di luci il Ciel sia pieno,
solo il Sole è però, che '1 mondo alluma.
Non ha più face Amor per questo seno,
sarò qual sono al foco ed a la bruma:
di sì dolce fontana esce il veleno
che dolcissimamente nu consuma.
Giunga il mio corso a riva o presto, o tardo,
vivrò qual vivo, ed arderò com’ardo.
Ma se costume, e naturale instinto,
che di fere affrontar mi dà baldanza,
da la beltà che m’ha legato e vinto
talor di desv'iarmi avrà possanza,
non te ne caglia no, ch’a ciò son spinto
sol da l’antica e dilettosa usanza;
né sdegnar te ne dèi, ché chi ben ama
il piacer del su’ amor seconda e brama.
Non sia prodigo Amor, perché talora
suole il cibo aborrir sazio appetito.
Passa l’uso in disprezzo, e spesso ancora
frequentato diletto è men gradito.
Né sì aspettato e desiato fora
s’April d’ogni stagion fusse fiorito.
Sempre quel ch’è vietato, e quel ch’è raro,
più n’invoglia il desire, e più n’è caro.
Non ch’io d’amarti o fastidito o stanco
possa aver mai di te l’anima sgombra;
anzi quando il tuo Sol mi verrà manco,
sarò qual ciel cui fosca notte adombra:
senz'occhi in fronte, e senza core al fianco,
senz’alma un corpo, e senza corpo un’ombra.
Ma se questo è destili, porta il devere
che quel che vole il Ciel, vogli volere. —
305
20
3°6
LA TRAGEDIA
in. Soggiunse allor Ciprigna: — Assai di questo
il saggio Dio del Nilo oggi t’ha detto.
Ma per darti a veder più manifesto
che non fuor di ragione è il mio sospetto,
vo’ che tu miri il guiderdon funesto
che dà Diana a ciascun suo soggetto.
Molto move l’essempio, e per la vista
maggior che per l’udir, fede s’acquista. —
112. Qui tace, e poi di quella torta scala,
che di mezo al cortil gli archi distende,
gli eburnei gradi, onde si monta e cala,
preme, e col bell'Adone in alto ascende.
Qui per cento finestre immensa sala
di polito cristallo il giorno prende,
e in un bel quadro di mosaico terso
la figura contien de l’Universo.
113. Per quattro porte a’ quattro vènti esposte
s’entra, e tutte son d’òr schietto e forbito.
Ha quattro mura, le cui ricche croste
del fondo interior celano il sito.
Ne le facciate tra se stesse opposte
l’ordin degli elementi è compartito:
ed ha ciascun ne la sua propria sfera
ogni pesce, ogni augello, ed ogni fera.
114. In ogni spazio v’ha quel Dio ritratto
che di quell’elemento ha sommo impero,
e ciascuno elemento è sculto e fatto
d’una materia somigliante al vero.
Vermiglio il foco è d’un rubino intatto,
ceruleo l’aere è d’un zaffìr sincero,
di smeraldo ridente e verdeggiante
fatta è la terra, e l’acqua è di diamante.
CANTO QUINTO
307
115. Occupa il campo poi del pavimento
la regi'on del Tartaro profondo,
ch'a fogliami di gitto ha un partimento
fatto d’òr fino, e dilatato in tondo;
e quivi in atto tal, che dà spavento,
vedesi il Re del tenebroso mondo.
Seco ha Torride Dee di Flegetonte,
cui fa pompa di serpi ombra a la fronte.
116. Ne l’ampio tetto un Ciel sereno è finto,
opra maggior non lavorò Ciclopo.
Appo tante e tai gemme, ond’è distinto,
povero è l’Indo, e scorno ha TEthiòpo.
l utto di smalto, in mezo è di giacinto,
dove in forma di Sol raggia un piropo.
Di crisoliti intorno, e di baiassi,
splendon di stelle in vece alti compassi.
117. Veder si può d’ogni lumiera ardente
il fermo stato, e ’1 peregrino errore.
Y’ha quel co’ mostri suoi torto e serpente,
che tre cerchi contien, cerchio maggiore.
Y’ha l’un e l’altro Tropico lucente,
che del lume e de l’ombra adeguan Tore.
Y’ha gli altri duo, che girano congiunti
co’ duo fissi de Torbe estremi punti.
118. Y’ha l’Equator, la cui gran linea eguale
tra le quattro compagne in mezo è posta,
di cui Testreme due l’una a l’Australe,
l’altra al confin di Borea è troppo esposta.
Ravvi degli alti Dei la via reale,
di spesse stelle e picciole composta,
lo cui candor, che ’l Ciel per mezo fende,
da’ Gemelli al Centauro il tratto stende.
3°8
LA TRAGEDIA
119. Nel centro de la sala un vasto Atlante
tutto d’un pezzo di diaspro fino
sostien la volta, e ferma ambe le piante
sovra un gran piedestallo adamantino:
e sotto l’alta cupula pesante
stassi con tergo curvo, e volto chino.
Tutto quel Ciel, che si ripiega in arco,
appoggia a questo il suo gravoso incarco.
120. La Notte intanto al rimbombar de’ baci
invida quasi in Ciel fece ritorno;
e portata da lievi Ore fugaci,
e di tenebre armata, uccise il giorno.
Il feretro del Sol con mille faci
le stelle amiche accompagnaro intorno;
e ’l mondo pien di nebbie, e d’ombre tinto,
parea fatto sepolcro al lume estinto.
121. Erano i cari amanti entrati a pena
l’un l’altro a braccio, in quella sala altera,
quand’ecco aprirsi una dorata Scena,
ch’emula al giorno illuminò la sera.
Fora di luce e d’or meri ricca e piena,
se s’aprisse (cred’io) la quarta sfera.
Selve, statue, palagi agli occhi offerse
la cortina reai quando s’aperse.
122. Spettacolo gentil Mercurio in questa
presentar vuole al fortunato Adone.
Mercurio è quei che i personaggi appresta,
ed essercita e prova ognTstrione;
e ciascun d’essi in lieta parte o mesta
secondo l’attitudine dispone.
Né seco già di recitar consente
turba vulgar di mercenaria gente.
CANTO QUINTO
309
123. L’Invenzion, la Favola, il Poema,
e l’Ordine e ’l Decoro e l’Armonia
de la Tragedia sua stendono il tema,
la Facezia, e l’Arguzia, e l’Energia.
L’Eloquenza è l’artefice suprema,
sovrastante con lei la Poesia.
Seco il Numero, il Metro, e la Misura
si prendon de la Musica la cura.
124. Dansi a la coppia bella i seggi d’oro,
donde quanto si fa tutto si sceme;
ed ecco il primo uscir di tutti loro
il portator de l’ambasciate eterne,
ch’a spiegar l’argomento in stil canoro
mostra venir da le magion superne;
e ’l suggetto proposto e persuaso
è d’Attheone il miserabil caso.
123. Ed Attheone al Prologo succede,
che vien con archi e dardi e cani e corni,
e da molti scudier cinto si vede
di spiedo armati, e nobilmente adorni;
e mentre ch’ei de le selvagge prede
parte d'essi a spiar manda i soggiorni,
e squadra i passi, ed ordina la traccia,
con diverse ragion loda la Caccia.
126. Ed ecco ad un squillar d’avorio torto
sbucar repente da cespugli e vepri
di mansuete Fere Adone ha scorto
più d'uno stuol tra mirti e tra ginepri;
e dal Palco saltar con gran diporto
Damme e Camozze e Cavriuoli e Lepri,
e parte de la Dea fuggirsi al lembo,
e parte a lui ricoverarsi in grembo .
310 LA TRAGEDIA
127. Ma poco stante, si dilegua a volo
la caccia, e nova effigie il Palco prende,
perché, librato in un volubil polo,
se stesso in su quel cardine sospende,
lo qual in giro, e ben confitto al suolo,
volgesi agevolmente, or poggia, or scende,
e ’l mobil peso suo portando intorno
viene alfine a serrar corno con corno.
128. Come congiunti in un sol globo il Mondo
duo diversi Hemisperi insieme lega,
per l’Orizonte, che dal sommo al fondo
la rota universal per mezo sega:
così l’ordigno che si gira in tondo
vari teatri in un teatro spiega;
se non che dove quel n’abbraccia duo,
questo più ne contien nel cerchio suo.
129. Sì che quantunque volte un novo gioco
agli occhi altrui rappresentar si vole,
fa mutar faccia in un instante al loco
l’orbicolare e spaziosa mole,
ch'entro concava vite a poco a poco
senza strepito alcun mover si suole,
e con tanto artificio or cala, or sorge,
che l'occhio spettator non se 11’accorge.
130. Reggon l’opra maggior vari sostegni,
e correnti e pendenti ed asse e travi,
e di bronzo ben saldo armati legni,
dure catene, e grossi ferri e gravi,
e con argani mille, e mille ingegni,
del medesmo metallo e chiodi e chiavi;
e questo ordine a quel sì ben risponde,
che nel numero lor non si confonde.
CANTO QUINTO
311
131. Ed or che per cacciar dal verde prato
il Tebano Garzone il piè ritira,
tosto che su ’1 gran vertice forato
il ferrato baston mosso si gira,
cangia sito la scena, e l’apparato
in altro aspetto trasformar si mira;
ed al cader de la primiera tela
differenti apparenze altrui rivela.
132. Spelonche opache v’ha, foreste amene,
piagge fresche, ombre fosche, e chiari fonti.
Vivi argenti colà sparge Hippocrene,
qui Parnaso bicorne erge due fronti.
Con le sue dotte e vergini Sirene
discende Apollo da que’ verdi monti,
imitando quaggiù vaghe e leggiere
le danze che lassù fanno le sfere.
133. Ciascuno accorda a l'organo che tocca
i passi e i salti in un, gli atti e le note,
e con la inan, col piede, e con la bocca
l’aure a un punto, e le corde, e ’l suol percote.
Finito il ballo, in un momento scocca
il magistero de l’occulte rote,
e volgendosi il perno a cui s’appoggia,
riveste il Palco di novella foggia.
134. Dopo il primo Intermedio un’altra volta
videsi il bosco, e quivi Cinthia apparse,
che venne stanca a la verd’ombra e folta
de la valle Gargafìa a rinfrescarse ;
e d’ogni spoglia sua discinta e sciolta,
lavò le membra affaticate ed arse;
e tra le pure e cristalline linfe
si stette a divisar con l’altre Ninfe.
312
LA TRAGEDIA
135. Gira la Scena, e in un balen girando
di Centauri guerrier piena è la piazza;
chi d’acuto trafier la destra armando,
chi d’asta lieve, e chi di grave mazza.
Salvo in braccio lo scudo, in armeggiando
non han, che copra il resto, elmo o corazza.
Grida la tromba in bellicosi carmi
« A la guerra a la guerra, a l’armi a l'armi ».
136. Già par che con furor l'un l’altro assaglia,
già già par che di sangue il suol si sparga.
Armonica e per arte è la battaglia,
or s’intreccia, or fa testa, ed or s’allarga.
E mentre contra quel questo si scaglia,
fan cozzar clava a clava, e targa a targa,
e battendosi a tempo or tergo, or petto,
fan di mezo a l’orror nascer diletto.
137. Mentre Adone al bel gioco è tutto intento,
Amor pietoso a rinfrescarlo viene,
e gli reca una d’oro, una d’argento
coppe d'ambrosia e nèttare ripiene.
Ei quanto basta al debito alimento
n’assaggia sol per ristorar le vene:
ch’altr’ésca, onde maggior gusto riceve,
pasce con gli occhi, e per l’orecchie beve.
138. Ne l’Atto terzo in su ’l girevol fuso
la machina versatile si volve,
e ritorna Attheon sparso e diffuso
il volto di sudor tutto e di polve;
onde di dar al Veltro ed al Seguso
alquanto di quiete alfin risolve.
Coglie le reti, e ne l’ombrosa e fosca
selva per riposar solo s’imbosca.
CANTO QUINTO
313
139. Or tra i confin di questo e de l’altr’Atto
non men bel si frapon novo intervallo.
Ondeggiar vedi un mar, non so se fatto
di zaffiro, o d’argento, o di cristallo,
e le sponde vestir tutte in un tratto
d’alga e di limo e d’ostro e di corallo:
e tremar Tonde con ceruleo moto,
e Delfini guizzar per entro a nuoto.
140. E quinci e quindi per l’instabil campo
spiegar turgide vele antenne alate,
urtar gli sproni e con rimbombo e vampo
venir in pugna due possenti armate.
Di Giove intanto il colorato lampo
listando il fosco ciel di linee aurate,
fa per l’aria vibrar con lunghe strisce
mille lingue di fiamma oblique bisce.
141. Folgora il cielo, e folgoran le spade,
gonfiansi Tonde tempestose e nere,
ed acqua e sangue per l’ondose strade
piovon le nubi, e piovono le schiere.
Chi fugge il ferro, e poi nel foco cade,
chi fugge il foco, e poi ne l’acqua pére,
chi di sangue, e di foco, e d’acqua asperso
more ucciso in un punto, arso, e sommerso.
142. Tale è la guerra, e la procella, e ’1 gelo,
ch’agguagliato è quel ch’ò, da quel che pare.
Ma in breve poi rasserenarsi il cielo
vedi, e in un punto implacidirsi il mare,
ed Iri il suo dipinto umido velo
stender per l’aure rugiadose e chiare.
Spariscon le galee, svanisce il flutto,
struggesi l’arco, e si dilegua il tutto.
314
LA TRAGEDIA
143. Ciò fatto, il bel teatro ancor si chiude,
poi si vede sgorgar vaga fontana,
dove tra molte sue seguaci ignude
stassi Attheone a vagheggiar Diana.
Ed ella con le man leggiadre e crude
gli toglie dopo il cor la forma umana.
Con pelo irsuto, e con ramose corna
il miser Cacciator Cervo ritorna.
144. Nel fin di questo in un azurro puro
a l’improviso il ciel si discolora,
e fregiando d’argento il campo oscuro,
con le stelle la Luna ecco vien fora.
Poi dando volta il neghittoso Arturo,
col giorno a mano a man sorge l’Aurora.
Vero il Sol crederesti, e vera l’Alba,
che le nebbie rischiara, e l’ombre inalba.
145. S’alza il Palco di sotto a un tempo istesso,
e mezo Anfiteatro in giro spande.
Prospettiva superba appare in esso
con ricca mensa e sontuosa e grande:
e v’ha de’ sommi Dei tutto il consesso
con tal pompa d’arnesi e di vivande,
tanto tesor, tanto splendor disserra,
che sembra a punto il Ciel calato in terra.
146. Concerto allor di musici concenti
da basso incominciò, d’alto e da lato,
e concordi s’udir vari istromenti,
qual da man, qual da gamba, e qual da fiato,
ed acuti e veloci, e gravi e lenti
alternar versi al pasteggiar beato,
e rispondersi insieme in molti cori
mute di Ninfe, e sinfonie d’Amori.
CANTO QUINTO
3L5
147. La Notte il sesto grado avea fornito
de la scala onde poggia a l’Orizonte,
quando da Cani e Cacciator seguito
comparve il Cervo, attraversando il monte.
Ma più non potè Adone instupidito
sollevar gli occhi, o sostener la fronte:
onde in grembo a colei che gli è vicina,
sovravinto dal sonno, il capo inchina.
148. In quella guisa che dal primo Sole
tocco talor Papavero vermiglio
piegar la testa sonnacchiosa suole,
e tramortire in fra la rosa e ’l giglio;
abbassa in braccio a lei, che non si dole
di tal incarco, addormentato il ciglio;
né certo aver potea questa né quello
peso più dolce, né guancial più bello.
149. Questa fu la cagion, che non poteo
de la tragica strage il fin sentire,
né con che strazio doloroso e reo
venne sbranato il Giovane a morire,
né d’Autonoe i lamenti e d’Aristeo,
né de l’antico Cadmo i pianti udire;
ché la pietosa Dea, che ’n sen l’accolse,
infino al novo dì destar noi volse.
150. Già richiamava i corridori alati
al giogo, al morso il portator del lume,
e già desta dal suon de’ freni aurati,
e serena e ridente oltre il costume,
la Nutrice bellissima de’ prati
sorta era fuor de le purpuree piume
ad allattar de’ suoi celesti umori
herbe e le piante, e ne le piante i fiori,
LA TRAGEDIA
3*6
151. quando svegliossi Adone, e sì s’accorse
che già chiaro i balconi il Sol feriva.
Si terse i lumi col bel dito, e sorse
da Mercurio invitato, e da la Diva.
La bella Citherea la man gli porse,
e per la via che ne la corte usciva,
menollo in un Giardin, presso il cui verde
degli Elisi beati il pregio perde.
IL GIARDINO DEL PIACERE
CANTO SESTO
AI.LEGORI A
Sotto la figura del Giardino ci vien rappresentato il Piacere.
Nelle cinque porte si sottointendono i cinque sentimenti del
corpo. Nel cristallo e nel zaffiro della prima Porta si significa la
materia dell'occhio, ch’è l'organo della vista. Nel cedro della se¬
conda il senso dell’odorato. Nella favoletta del Pavone si dinota
la maravigliosa labrica del fermamente. Ama la Colomba, perciò
che, sì come in effetto questi due uccelli (secondo i Naturali) si
amano insieme, così tutte le luci superiori sono mosse e regolate
dal divino amore. È trasformato da Giove, perché dal sommo
artefice Iddio ebbe quello (come ogni altro Cielo) la materia e
la forma. Fingesi servo d’Apollo, e da lui gli sono adornate le
penne della varietà di tanti occhi, per essere il Sole vivo fonte
originale di tutta la luce, che poi si communica alle stelle. Ne’
diversi oggetti, passatempi e trattenimenti piacevoli si adombrano
le voluttà sensuali.
ARGOMENTO
Al Giardin del Piacer col Giovinetto
sen va la Dea de l’amorosa luce.
Per le porte de’ sensi indi il conduce
di gioia in gioia a l'ultimo diletto.
1. Armi il petto di gel chi vede Amore
saettar foco e ferir Palme a morte,
e de la rocca fragile del core
difenda pur le malguardate porte;
né del crudele e perfido Signore
v’introduca già mai le fiere scorte,
ch’insidiose a chi non ben le serra
sotto vista di pace apportan guerra.
2. Chi da quest’empio e da la Carne infida
condur si lascia in fra perigli errante,
e qual cieco, che ’l can prenda per guida,
segue del senso le fallaci piante,
s’avien poi ch’egli caggia, o che l’uccida
chi per torto sentier lo scòrse avante,
non si lagni d’altrui che di se stesso,
che ’1 fren d’ogni sua voglia in man gli ha messo.
CANTO SESTO
321
3. È ver, che da sé sola a ciò non basta
nostra natura inferma e ’ndebolita,
quand’anco il gran Dottor, l’anima casta,
de lo spirto di Dio tromba gradita,
per schermirsi da tal che ne contrasta
ebbe mestier di sovrumana aita;
né degli assalti suoi può fedel alma
senza grazia divina acquistar palma.
4. Ma vuoisi ancor con studio e con fatica
schivar quel dolce invito, ésca de’ sensi,
perché de la domestica nemica
sol con la fuga la vittoria ottiensi;
e chi fuggir non sa questa impudica
a rischio va di precipizii immensi,
dove caduta poi l’anima sciocca
d’una in altra follia sempre trabocca.
5. Questa è la Donna ch’importuna e tenta
Adam per far che gusti ésca interdetta,
la meretrice, che ’n prigion tormenta
Giuseppe il giusto, ed a peccar l’alletta.
Questa è colei che Sisara addormenta,
e per tradirlo sol seco il ricetta;
la disleal, che pria lusinga e prega
il malcauto Sansone, e poi lo lega.
6. Questa è la Bersabea, per cui s’inchina
il buon Re d'Israele ad opra indegna.
Questa è di Salomon la concubina,
che follemente idolatrar gl’insegna.
L'infame Circe, la proterva Alcina,
l’Armida, che sviar l’alme s’ingegna;
la Vener, che lontan da la ragione
al Giardin del Piacer conduce Adone.
21
322
IL GIARDINO DEL PIACERE
7 . Infiora il lembo di quel gran Palagio
spazioso Giardin, mirabil Orto.
Miseria mai, né mai v’entrò Disagio,
v’han Delizie ed Amori ozio e diporto.
Colà senza temer fato malvagio
Venere bella il bel fanciullo ha scòrto,
cangiando il Ciel con quel felice loco
che sembra il Cielo, o cede al Ciel di poco.
8. — Non pensar tu, che senza alto disegno —
disse vólto Mercurio al bell’Adone —
fondata abbia Ciprigna entro il suo regno
questa sì vaga e florida magione;
ch’intelletto divin, celeste ingegno
nulla a caso già mai forma o dispone.
Misterioso il suo edificio tutto
a sembianza de l’Uomo è qui costrutto.
9. Del corpo uman la nobile struttura
in se medesma ha simmetria cotanta,
ch’è regola infallibile e misura
di quanto il Ciel con l’ampio tetto ammanta.
Tal fra gli altri animali il fe’ Natura
che solo siede, e sol dritto si pianta;
e come l’alma eccede ogni altra forma,
così d’ogni altro corpo il corpo è norma.
io. Le meraviglie che comprende e serra
non son possenti ad agguagliar parole.
Né nave in onda, né palagio in terra,
né teatro, né tempio è sotto il Sole,
né v’ha machina in pace, ordigno in guerra,
che non tragga il model da questa mole.
Trovano in sì perfetta architettura
il compasso e lo squadro ogni figura.
CANTO SESTO 323
ix. Miraeoi grande, in cui con piena intera
Giove de’ doni suoi versò l’eccesso;
de la divinità sembianza vera,
imagin viva, e simulacro espresso.
Quasi in angusta mappa immensa sfera,
fu l’Universo epilogato in esso.
Tien sublime la fronte, alte le ciglia,
sol per mirar quel Ciel, che l’assomiglia.
12. È distinto in tre parti il maggior Mondo,
l’una è de’ sommi Dei, che ’n alto stassi.
De le sfere rotanti hanno il secondo
loco le belle e ben disposte classi.
Ritien l’ultimo sito e più profondo
la region degli elementi bassi.
E quest’altro minor, c’ha spirti e sensi,
ben di proporzion seco conviensi.
13. Sostien la vece del sovran Motore
nel capo eccelso la virtù che ’ntende.
Stassi a guisa di Sol nel mezo il core,
10 qual per tutto il suo calor distende.
11 ventre ne la sede inferiore
qual corpo sublunar, varia vicende.
Così in governo, e nutrimento, e vita
questa casa animata è tripartita.
14. Son cinque corpi il Cielo e gli elementi,
e pur de’ sensi il numero è sì fatto.
L’orbe stellato di bei lumi ardenti
è de la vista un naturai ritratto.
Son poi tra lor conformi e rispondenti
l'udito a l’aere, ed a la terra il tatto.
Ne par che meno in simpatia risponda
l'odorato a la fiamma, il gusto a l’onda.
IL GIARDINO DEL PIACERE
3 2 4
15. Potea ben la divina Onnipotenza
con quell’istesso suo benigno zelo
con cui pose ne l’uom tanta eccellenza,
donargli ancora incorrottibil velo;
e di quel puro fior di quinta essenza,
onde non misto è fabricato il Cielo,
come simile al Ciel la forma veste,
di materia comporlo anco celeste.
16. Ma però ch’egli a specolare è nato,
e convien ch’ogni specie in lui riluca,
e ch’ai chiaro intelletto, ond’è dotato,
i fantasmi sensibili conduca,
non devea d’altra tempra esser formato
che de l’elementar, ben che caduca,
per far di quanto intende e quanto sente
prima il senso capace, e poi la mente.
17. Di tutto il bel lavor, che con tant’arte
orna de l’uomo il magistero immenso,
sono i nervi istromenti, onde comparte
lo spirto ai membri il movimento e ’l senso.
Altri molli, altri duri, in ogni parte
ciascuno è sempre al proprio ufficio intenso.
Né può senz'essi alcuno atto esseguire
la facoltà del moto o del sentire.
iS. Or tratti avante, e ne vedrai gli effetti,
e dirai ch’a ragion Vener si mosse
a far che ’l loco sacro a’ suoi diletti
de l’essempio del tutto essempio fosse.
Qui tacette Cillenio, e con tai detti
da lo stupore il Giovane riscosse,
che de l’Orto gioioso era in quel punto
già nel primo sogliare entrato e giunto.
CANTO SESTO
325
19. Ne l’Orto in cinque portici diviso
dan cinque porte al peregrin l’entrata,
e da un custode in su la soglia assiso
la porta d’ogni portico è guardata.
S’entra per ogni porta in Paradiso
là dove un Giardinetto si dilata,
tal che di spazio egual tra sé vicini
contiene un sol Giardin cinque Giardini.
20. Cinque Giardin la dilettosa Reggia
ne le sue cinque torri inclusi abbraccia,
sì che da’ suoi balcon lunge vagheggia
differente un Giardin per ogni faccia.
Confine un muro ogni Giardino ombreggia,
che stende linea in fuor di mille braccia.
Questo in quadro si chiude, e in mezo lassa
porte, onde l’un Giardin ne l’altro passa.
2 t . Ciascun canton de’ quattro innanzi sporge
una torre angolare in su la punta,
e la quinta tra lor nel mezo sorge
sì ch’oltre il muro la cornice spunta;
e (come dissi) a dritto fil si scorge
torre da torre egualmente disgiunta;
e con giusta misura arte leggiadra,
i’ non so come, ogni Giardino inquadra.
22. De la porta del portico primiero,
ch’è di cristallo e di zaffir contesta,
vivace e nobil giovane è l’Usciero,
di diverso color sparso la vesta.
Un Avoltoio in pugno, ed un Cerviero
si tiene a piè da quella parte e questa:
un specchio ha innanzi, e ne lo scudo incisa
la generosa che nel Sol s’affisa.
326
IL GIARDINO DEL PIACERE
23. Ai duo felici amanti immantenente
fecesi incontro il Giardinier cortese,
e con sembiante affabile e ridente
Adon raccolse, e per la mano il prese.
— Ben venga — disse — il vivo Sole ardente,
ch’a la nostra Reina il core accese.
Dritto fia ben, che degli alberghi nostri
nulla si celi a lui, tutto si mostri.
24. — Dimmi — al Nunzio di Giove Adon converso
dimmi — disse — ti prego, o cara Scorta,
con ranimal di vaghe macchie asperso
che vuol dir questa guardia, e questa porta ?
Quel famelico augel, quel vetro terso,
e quel vario vestir che cosa importa?
Suo stranio arnese e sua sembianza ignota
i' saprei volentier ciò che dinota. —
25. Risponde l’altro: — Le più degne e prime
parti di tutta la sensibil massa
l'occhio sì come Principe sublime
in gloria eccede, in nobiltà trapassa,
che posto de la rocca in su le cime
ogni membro vulgar sotto si lassa,
e dove il tutto regge e ’1 tutto vede
tra la plebe de’ sensi altero siede.
26. Siede eminente, e d’ogni senso è duce,
e certo il gran Fattor tale il compose
ch’è tra quelli il miglior, sì per la luce,
ch’è tra le qualità più preziose,
sì per la tanta e tal, ch’ognor produce,
varietà di colorate cose,
sì per lo modo ancor spedito e presto
de l’operazlon ch'intende a questo.
CANTO SESTO
3
27. Perché senza intervallo o mutar loco
giunge in instante ogni lontano oggetto,
tal che negli atti suoi si scosta poco
da la perfezzion de l’intelletto;
onde se quel, vie più che vento o foco
rapido e vago, occhio de l’alma è detto,
questo, ch’è di Natura opra sì bella,
intelletto del corpo anco s’appella.
28. Per l’occhio passa sol, per l’occhio scende
qualunque l’alma iinagine riceve,
e di quant’ella vede e quanto intende
quasi l’obligo tutto a l’occhio deve.
L’occhio, com’ape suol, che coglie e prende
i più soavi fior leggiadra e lieve,
scegliendo il bel de la beltà che scorge,
a l’interno Censor l’arreca e porge.
29. Da le fonti del cerebro natie,
ond’hanno i nervi origine e radice,
un sol principio per diverse vie
di duo stretti sentier due linee elice.
Quindi del tutto esploratori e spie
traggono gli occhi ogni virtù motrice;
e quindi avien (come per prova è noto)
che move ambo in un punto un stesso moto.
30. Lubrico, e di materia umida e molle
questo membro divin formò Natura,
perché ciascuna impression che folle
possa in sé ritener sincera e pura.
Perché volubil sia, donar gli volle
orbicolare e sferica figura;
oltre che ’n forma tal può meglio assai
franger nel centro e rintuzzare i rai.
328
IL GIARDINO DEL PIACERE
31. Gli spirti unisce a la pupilla, e spira
da la gemina sfera il raggio vivo,
che ’n piramide aguzza, ovunque il gira,
si stende fuor del circolo visivo.
La specie intanto in sé di quel che mira
ritrae, come suol ombra o specchio o rivo.
Così ne l’occhio, mentre il guardo vago
esce da la potenzia, entra l’imago.
32. Oh quanto studio, oh quanta industria mise
qui l’eterno Maestro, oh quante accoglie
vene, arterie, membrane, e ’n quante guise
sottili aragne, e dilicate spoglie!
Per quanti obliqui muscoli divise
passano e quinci e quindi e fila e foglie!
Quante corde diverse, e quanti e quali
versano l’occhio ed angoli e canali!
33. Di tuniche e d’umori in vari modi
havvi contesto un lucido volume,
ed uva, e corno, e con più reti e nodi
vetro insieme congiunge, acqua, ed albume;
che son tutti però servi e custodi
del cristallo, onde sol procede il lume.
Ciascun questo dilende, e questo aiuta,
organo principal de la veduta.
34. L'immortal providenza, acciò ch’esposto
sia meno ai danni de l’offese esterne,
gli ha dato in un ricovero riposto
sotto l’arco del ciglio ime caverne.
Per siepi e propugnacoli v’ha posto
palpebre infaticabili ed eterne,
sol perché ’l batter lor continuo e ratto
dagli umani accidenti il serbi intatto.
CANTO SESTO
3 2 9
35. Ed a guisa di Sole, acciò ch’aprisse,
emulo a l’altro, al picciol mondo il giorno,
qual corona di raggi, anco v’affisse
sottilissime sete intorno intorno.
Xel curvo globo l’Iride descrisse,
c’ha di smalti celesti un fregio adorno,
e temprati di limpidi zaffiri
vi dipinse nel mezo i sommi giri.
36. Questi de l’alma son balconi e porte,
indici fidi, oracoli veraci,
de la dubbia ragion secure scorte,
e de l’oscura mente accese faci.
Son lingue del pensier pronte ed accorte,
e del muto desir messi loquaci;
geroglifici e libri, ov’altri potè
de’ secreti del cor legger le note.
37. Vivi specchi sereni, onde traspare
quanto il cupo del petto in sé ristringe,
e dove in guise manifeste e chiare
ogni suo affetto l’anima dipinge.
I ridenti piacer, le doglie amare
vi scopre, or d’ira, or di pietà gli tinge;
e (ciò ch’è più) visibilmente in essi
son del foco d’Amor gl’incendii espressi.
38. E perché ’l primo strai ch’aventi l'arco
di quell’alato Arcier dagli occhi viene,
per questo il primo grado, il primo varco
del Giardino d’Amor la Vista ottiene.
Quinci potrai, già d’ogni dubbio scarco,
il mistero (cred’io) comprender bene
del ministro gentil che guarda il vallo,
degli augei, de la fera, e del cristallo. —
33»
IL GIARDINO DEL PIACERE
39. Ciò detto, per incognito sentiero
là dove altrui vestigio il suol non serba,
ma serba il prato entro '1 suol grembo intero
intatto il fiore, inviolata l’erba,
colà dentro lo scòrge, ov’al Verziero
fa corona il gran muro alta e superba,
e di pietre sì lucide la tesse,
che tutto il bel Giardin si specchia in esse.
40. Per lungo tratto a guisa di corona
da ciascun fianco il bel Giardin si spande,
dove in ogni stagion Flora e Pomona
guidano danze, e trecciano ghirlande.
11 muro principal che l’imprigiona
tetto ricopre a meraviglia grande,
sostenuto da un ordine leggiadro
d’alte colonne, e compartito in quadro.
41. Da quattro Galerie per quattro grate,
che cancelli han d’òr fin, s’esce negli orti,
dove prendono ognor schiere beate
di Ninfe e di Pastor vari diporti,
e passando in piaceri un’aurea etate
fanno giochi tra lor di tante sorti,
quante suol forse celebrarne a pena
ne le vigilie sue la bella Siena.
42. Forman parte di lor, sedendo sotto
gran tribuna di fronde, un cerchio lieto,
e l’un’a l’altro sussurrando un motto
dentro l’orecchie taciturno e cheto,
de’ suoi chiusi pensier non interrotto
scopre a chi più gli piace ogni secreto.
Con questa invenzion chieste e concesse
si patteggian d’Amor varie promesse.
CANTO SESTO
331
43. Parte in gioco più strano e più diverso
dispensano del di l’ore serene.
Nel molle grembo il capo in giù converso
vaga Donzella d’un Garzon si tiene.
Ciascun altro la man, ch’egli a traverso
dopo ’I tergo rivolge, a batter viene;
né solleva ei già mai la testa china,
se chi battuto l’ha non indovina.
44. Odesi di lontan scoppio di riso,
quando per legge di colui che regna,
di bella Xinfa perditrice il viso,
che ’n foco avampa, col carbon si segna.
Altri più dolci, e con più saggio aviso
trar dal trionfo suo spoglie s’ingegna,
che con un bacio in bocca o su la gota
vuol che ’l perduto pegno ella riscota.
43. Chi con le carte effigiate in mano
prova quanto Fortuna in terra possa.
Chi le corna agitate in picciol piano
fa ribalzar de le volubil ossa.
Chi con maglio leggier manda lontano
l'eburnea palla ad otturar la fossa.
Chi poi che dal cannel le sorti ha tratte,
su ’l tavolier le tavole ribatte.
46. Yan le Vergini belle a schiera sparte
scalze il piè, scinte il seno, e sciolte il crine.
Roza incoltura in lor, beltà senz’arte
fa de l’anime altrui maggior rapine.
Parte per l’erba va scherzando, e parte
tra le linfe argentate e cristalline.
Parte coglie viole ed amaranti
per farne dono ai fortunati amanti.
332
IL GIARDINO DEL PIACERE
47. Quella danza tra’ fior, questa incorona
di rose il crine al favorito amico.
Questi canta d’Amor, quegli ragiona
con la sua Donna in un boschetto aprico.
Alcun ve n’ha, che scritto in Hehcona
legge amoroso alcun Romanzo antico,
e i versi espone in guisa tal, che quasi
sotto gli essempi altrui narra i suoi casi
48. Altri nel Cavriuol rapido e snello
al veloce Levrier la lassa allenta.
Altri da’ geti sciolto e dal cappello
contro la Garza il Girifalco aventa.
Altri più lieve e più minuto augello
con più sottile insidia ingannar tenta,
tendendo, acciò che preso e’ vi rimagna,
pania tenace, o dilicata aragna.
49. Xé vi manca però fra que’ diletti
chi nel margo palustre, ove si giace,
col cane assaglia, o con lo strai saetti
Anitra opima, o Foliga loquace;
né chi con nasse e vangaiuole alletti
la Trutta pigra e ’l Carp'ion fugace,
né chi tragga da Tacque a cento a cento
Orate d’oro, e Cefali d’argento.
50. Mentre sotto quel ciel, che Soli o piogge
non teme, arda quantunque, o geli Tanno,
tra tali e tante feste in tante fogge
le brigate piacevoli si stanno;
Adone e Citherea per l’ampie logge
lastricate di gemme, intorno vanno
mirando pur di que’ dipinti chiostri
l’artificio smarrito a’ giorni nostri.
CANTO SESTO
333
51. Da tutti quattro i lati in ogni parte
il muro a varie imagini è dipinto.
Ciò che favoleggiar l’antiche carte
degli amori celesti, in esso è finto.
Gl’innamorati Dei mirabil arte
v’ombreggiò sì, che '1 ver da l’ombra è vinto;
e ben che tutti mute abbian le lingue,
il silenzio e ’l parlar vi si distingue.
52. Non son già corrottibili colori
che le belle figure han colorite.
Misture tali incognite a’ Pittori
da macina mortai non fur mai trite.
Son quinte essenze chimiche, e licori
di gemme a lento foco intenerite,
minerali stillati, le cui tempre
mai non perdon vivezza, e duran sempre.
53. Se sì perfetta grana, azur si fino
avesse alcuno artefice moderno,
ben v’ha tal, che poria col legno e ’l lino
far al secol migliore ingiuria e scherno.
Del secondo miracolo d’Arpino
quanto fora più chiaro il nome eterno ?
dico di lui, che con la man far suole
quel che l’altro facea con le parole.
54. Il Ligustico Apelle, il Paggi vanto
sommo e splendor de la città di Giano,
quanto di gloria accrescerebbe, oh quanto
a le fatiche de la nobil mano!
Il mio Castel, che del Conquisto santo
fregia le carte al gran Cantor Toscano,
lasceria forse de’ suoi studi illustri
vie più salde memorie a mille lustri.
334
IL GIARDINO DEL PIACERE
55. E tu Michel, di Caravaggio onore,
per cui del ver più bella è la menzogna,
mentre che Creator più che Pittore
con l'angelica man gli fai vergogna:
e voi Spada e Valesio, il cui valore
fa de’ suoi figli insuperbir Bologna:
e voi, per cui Milan pareggia Urbino,
Morazzone, e Serrano, e Procaccino:
56. e tu, che col pennel vinci gl’intagli,
e i duo vicini sì famosi e noti
di Verona e Cador non pur agguagli,
Palma, ma lor di man la palma scuoti:
e tu Baglion, che con la luce abbagli
de Pombre tue, c’han sensi e spirti e moti,
con assai più lodate opre e pitture
avreste ond’arricchir l’età future.
57. E voi Bronzino e Pasignan, per cui
il prodigio tebano Arno rivede,
poi che gemino lume, e quasi dui
novi Soli d’onor v’ammira e crede:
Caraccio a Febo caro, e tu con lui
Reni, onde ’l maggior Reno a l’altro cede,
alcun non temeria che fusser poi
cancellati dagli anni i lavor suoi.
58. A contemplar la loggia e la parete
il Portier del Giardino Adone invita,
di mute poesie, d’istorie liete
imaginata tutta e colorita:
e del fanciul da l’arco e da la rete
i dolci effetti ad un ad un gli addita,
divisandogli a bocca or quelli, or questi
furtivi amori degli Eroi celesti.
CANTO SESTO
335
59. — Vedi Giove — dicea — là ’ve s’aduna
schiera di Verginelle ir con l’armento.
Vedi che scherza, e la superba Luna
crolla del capo, e sfida a giostra il vento.
Tutto candido il pel, la fronte ha bruna,
dove in mezo biancheggia un Sol d’argento.
Già muggir sembra, e sembra al suo muggito
muggir la valle intorno intorno, e ’l lito.
60. A la Ninfa gentil, che varie appresta
trecce di fiori a le sue trecce d’oro,
s’avicina pian piano, e de la vesta
umil le bacia il vago lembo il Toro.
Ella il vezzeggia, e ’ntesse a l’aspra testa
di catenate rose alto lavoro.
Ed egli inginocchion le terga abbassa,
e da la bella man palpar si lassa.
61. Sovra gli monta la Donzella ardita,
quei prende allor per entro Tacque il corso,
e sì sen porta lei, che sbigottita
volgesi a tergo, e ’nvan chiede soccorso.
Cogliesi tutta, e tutta in sé romita
l’una man stende al corno, e Taltra al dorso.
Su ’l mar piovono i fior nel grembo accolti,
scherzano i biondi crini a l’aura sciolti.
6 2. Solca la Giovinetta il salso regno
sparsa il volto di neve, il cor di gelo,
quasi stanco nocchiero in fragil legno:
il Tauro è nave, e gli fa vela il velo.
Van guizzando i Delfini, e lieto segno
fanno di festa al gran Rettor del Cielo.
Ridendo Amor superbamente il mira
quasi per scherno, e per le corna il tira.
33^
IL GIARDINO DEL PIACERE
63. Le sconsolate e vedove compagne
in atto di pietà stanno in su '1 lido
additando la V'ergine che piagne,
credula (ahi troppo) al predatore infido.
Par che di lor per poggi e per campagne
<< Europa ove ne vai ? » risoni il grido.
Par che l’arena intorno, e l’aura, e l’onda*
« Europa ove ne vai? » mesta risponda.
64. Eccol vestito di canute piume
a bella Donna intorno altrove il miri,
qual di Caistro o di Meandro al fiume,
rotar volando in spaziosi giri,
e gorgogliar sovra ’l mortai costume
canori pianti e musici sospiri,
temer del proprio folgore il baleno,
e comporre il suo nido entro il bel seno.
65. Ecco d’Anfitrion prender la forma
e la casta moglier schernir si vede.
Ecco Satiro poi pasce la torma
con corna in testa e con caprigno piede.
Ecco due volte in Aquila trasforma
la spoglia, inteso a due leggiadre prede.
Ecco converso in foco arde e sfavilla.
Ecco in grandine d’òr si strugge e stilla.
66. Vedi lo schernitor de l’aureo strale,
lo Dio che de la luce è tesoriero,
a cui de l’arti mediche non vale
né de l’erbe salubri aver l’impero,
sì che profonda al cor piaga mortale
non porti alfìn da lo sprezzato Arciero.
Ecco gl’incende il cor d’ardente face
la bella di Peneo figlia fugace.
CANTO SESTO
337
67. Ed ecco, mentre l’amorosa traccia
segue anelante, e giungerla si sforza,
degli occhi amati e de l’amata faccia
repentino rigor la luce ammorza.
Fansi radici i piè, rami le braccia,
imprigiona i bei membri ispida scorza.
Gode egli almen le sue dorate e bionde
chiome fregiar de le già chiome, or fronde.
68. Volgiti poscia al vecchiarei Saturno,
tutto vóto di sangue, e carco d’anni,
come invaghito d'un bel viso eburno
in forma di destrier la moglie inganni.
Mira quel dal cappello e dal coturno,
c’ha nel coturno e nel cappello i vanni.
Quegli è il Corrier di Giove, e ’n terra scende
ché de la Ninfa Maura Amor l’accende.
69. Pon' mente là, dove la Notte ha stese
l’ombre tacite intorno, e ’l mondo imbruna,
come per disfogar sue voglie accese,
le due disciolte trecce accolte in una,
si reca in braccio placida e cortese
al Vago suo l’innamorata Luna,
e fra’ poggi di Lathmo al suo Pastore
addormenta le luci, e sveglia il core.
70. Mira il selvaggio Dio non lunge molto,
ch’uscito fuor d’una spelonca vecchia,
di verdi salci e fresche canne avolto
le corna, i crini, e l’una e l’altra orecchia,
al del leva le luci, e nel bel volto
de la candida Dea s’affisa e specchia,
e par la preghi in sì pietosi modi,
che vi scorgi il pensier, la voce n’odi.
o 2
33»
IL GIARDINO DEL PIACERE
71. L’argentata del Ciel luce sovrana
deposta alfin la lusingata Diva,
a le promesse de la bianca lana
dal suo chiaro balcon scender non schiva.
Vedila (or chi dirà che sia Diana?)
col rozo amante in solitaria riva,
e ’n vece di lassù guidar le stelle,
su 1 frondoso Liceo tonder l’agnelle.
72. Poi vedi Endimi'on da l’altro lato
quindi avampar d’un amoroso sdegno,
e col capo e col dito il Nume amato
di rampognar, di minacciar fa segno.
« Perfida » par le dica in vista irato
«perfida, or ché non celi il lume indegno?
Perfida, avara, e disleale amante,
più volubil nel cor, che nel sembiante *>.
73. De la fiamma gentil che nel mar nacque
ecco poscia arde il mare, arde l’Inferno.
Arder quel Dio si vede in mezo l'acque
che de l’acque e del mar volge il governo.
Arde per la beltà che sì gli piacque
il Tiranno crudel de l’odio eterno.
Strugge ardore amoroso il cor severo
a quel Signor c’ha degli ardori impero.
74. Sì dice l’un, l’altro gli sguardi e l’orme
a le mura superbe intento gira,
e mentre queste ed altre illustri forme,
di cui son tutte effigiate, ammira,
sembra, né sa s’ei vegghia, o pur s’ei dorme,
statua animata, imagine che spira,
anzi più tosto un'insensata e finta
tra figure spiranti ombra dipinta.
CANTO SESTO
339
75. Xon v’è dipinta di Ciprigna e Marte
l’istoria oscena troppo ed impudica,
perché ’l zoppo marito il fece ad arte,
di cui fur quelle volte opra e fatica;
e celar volse le vergogne in parte
del fiero amante e de la bella amica,
per non rinovellar l’onta de’ due,
e ne le gioie lor l’ingiurie sue.
76. Sotto quest’archi, in queste logge ombrose,
che vòlte han le facciate a la verdura,
onde il Giardin le chiome sue frondose
può vagheggiar ne le lucenti mura,
specolando l’imagini amorose
stassene Adon de l’immortal pittura,
mentre colui del Sagittario cieco
va passo passo ragionando seco.
77. Venere allor così gli dice: — O cara
delizia del mio cor, dolce diletto,
deh de’ begli occhi tuoi la luce chiara
tanto ornai non occupi un finto oggetto,
che de’ suoi raggi usurpatrice avara
parte a me neghi del bramato aspetto.
Lascia ch’io possa almeno il foco ond’ardo
sorbir con gli occhi, e depredar col guardo.
78. Non dee la vista tua fermarsi in cose
che sien di te men peregrine e belle.
Vedi, che fai dolenti e tenebrose
a disagio per te languir le stelle.
Non tener più le luci al Sole ascose,
le luci emule al Sol, del Sol gemelle.
Se pitture vuoi pur, vero, e non finto
mira te stesso in questo sen dipinto. —
340
IL GIARDINO DEL PIACERE
79. Qui tace, ed ecco per l’erbosa chiostra
da lor non lunge, emulator del prato,
la di se stesso ambiziosa mostra
l’occhiuto augel di più color fregiato;
e del bel lembo, che s’indora e inostra
di fiori incorrottibili gemmato,
dilettoso spettacolo a chi ’l mira,
un più vago Giardin dietro si tira.
So. Per ventura in quel punto a punto avenne
ch'a le leggiadre sue spoglie diverse
la bella coppia si rivolse, e tenne
per vaghezza le luci in lui converse.
Ond’egli allor de le sue ricche penne
il superbo gemmaio in giro aperse,
ed allargò, quasi corona altera,
de’ suoi tant’occhi la stellata sfera.
81. — Di quest’augel pomposo e vaneggiante —
disse Venere allor — parla ciascuno.
Dicon ch’ei fu Pastor, che ’n tal sembiante
cangiò la forma, e così crede alcuno.
Che la Giovenca de l’infido amante
a guardar con cent’occhi il pose Giuno;
e che quantunque a vigilar accorto,
lu da Mercurio addormentato, e morto.
Se. Contan che gli occhi, onde sen giva altero,
ne le piume gli affisse ancor Giunone;
ed è voce vulgar, che ’l suo primiero
nome fuss’Argo, il qual fu poi Pavone.
Or de la cosa io vo’ narrarti il vero,
diverso assai da questa opinione.
Gli umani ingegni quando più non sanno
favole tali ad inventar si dànno.
CANTO SESTO
34 1
83. Era questi un Garzon superbo e vano,
tutto d’ambiz'ion colmo la mente;
cameriero d'Apollo, e cortigiano,
che l’amò molto, e ’l favori sovente.
Amor, ch’anch’egli è pien d’orgoglio insano,
ferigli il cor con aureo strai pungente,
facendo da’ begli occhi uscir la piaga
d’una donzella mia vezzosa e vaga.
84. Colomba detta fu questa donzella,
la qual veder ancor potrai qui forse,
che fu pur in augel mutata anch’ella
ma per altra cagion questo l’occorse.
Pavon si nominò, Pavon s’appella
costui, ch’amando in folle audacia sorse.
Se ben altro di lui dice la Fama,
Pavon chiamossi, ed or Pavon si chiama.
85. Oltre che di bei drappi e vestimenti
si dilettava assai per sua natura,
per farsi grato a lei ne’ suoi tormenti
s'abbellia, s’arricchia con maggior cura.
Pompe, fogge, livree, fregi, ornamenti
variando ogni dì fuor di misura,
facea vedersi in sontuosa vesta
con gemme intorno, e con piumaggi in testa.
86. Con tuttociò da lei sempre negletto
senza speme languia tra pene e doglie,
perché discorde l’un da l’altro petto
di qualità contraria avean le voglie.
Tutto era fasto e gloria il Giovinetto
ne’ pensieri, negli atti, e ne le spoglie.
L'altra costumi avea dolci ed umili,
mansueti, piacevoli, e gentili.
34 2
IL GIARDINO DEL PIACERE
87. La servìa, la seguia fuor di speranza
con sospir caldi e con preghiere spesse;
e perché, come pien d’alta arroganza,
pensava di poter quanto volesse,
ragionandole un dì prese baldanza
di farle troppo prodighe promesse.
Tutto l’offri ciò che bramasse al mondo
dal sommo giro al baratro profondo.
88. «Poi che tanto» diss’ella «osi e presumi,
voglio accettar la tua cortese offerta,
e del foco ond’avampi e ti consumi
giovami di veder prova più certa.
Recami alquanti de’ celesti lumi,
se vuoi pur eh'ad amarti io mi converta.
Se servigio vuoi far, che mi contenti,
de le stelle del Cielo aver convienti.
89. Grande impresa ha ben quel ch’io ti cheggio,
non difficile a te, s’ardir n’avrai,
poi che presso a colui tieni il tuo seggio
che le raccende con gli aurati rai.
Qualora scintillar lassù le veggio
di tanta luce io mi compiaccio assai;
e bramo alcuna in mano aver di loro
sol per saper, se son di foco, o d’oro ».
90. O volesse fuggir con questa scusa
quell’assalto importun ch'egli le diede,
o forse, per non esserne delusa,
esperienza far de la sua fede,
o perché pur la femina è sempr'usa
ingorda a desiar ciò ch’ella vede,
ed indiscreta altrui prega e comanda,
e le cose impossibili dimanda:
CANTO SESTO
343
91. basta, ch’egli in virtù di tai parole
ogni suo sforzo a cotant'opra accinse.
Aspettò fin che ’l ciel (sì come suole)
di purpureo color l’Alba dipinse;
ed egli uscito in compagnia del Sole,
che la lampa minor sorgendo estinse,
a le luci notturne e mattutine
accostossi per far balte rapine.
92. « Sù mio cor » dicea seco « andianne audaci
l’oro a rubar del bel tesor celeste,
ch’un raggio sol di due terrene faci
vai più che lo splendor di tutte queste.
Di stender non temiam le man rapaci
ne le gemme ch’ai Ciel fregian la veste,
pur che ’n cambio del furto abbiam poi quelle
de le stelle e del Sol più chiare stelle ».
93. Orbe del lume, e de la scorta prive
fuggian le stelle in varie schiere accolte,
e sì come talor per l’ombre estive
quando l’aria è serena, avien più volte,
sbigottite, tremanti, e fuggitive
per fretta nel fuggir ne cadean molte.
Pavone allora il suo mantel distese,
ed un groppo nel lembo alfìn ne prese.
94. Giove, che vide il forsennato e sciocco
Giovane depredar l’auree fiammelle,
sdegnossi forte, e da grand’ira tocco
gli trasformò repente abito e pelle.
L’orgoglioso cimier divenne un fiocco,
e ne la falda gli restàr le stelle.
Febo, che pietà n’ebbe, e l’amò tanto,
per sempre poi gliele stampò nel manto.
344
IL GIARDINO DEL PIACERE
95. Del Ciel l’ambiziosa Iraperadrice
tosto che vide il non più visto augello,
che '1 pregio quasi toglie a la Fenice,
il volubil suo carro ornò di quello.
Poi le penne gli svelse, e fu inventrice
d’un istromento insieme utile e bello,
ond’a le mense estive han le sue serve
cura d’intepidir l'aura che ferve.
96. Ed io, che soglio ognor qualunque imago
scacciar dagli orti miei difforme e trista,
d'averlo ammesso qui godo e m’appago,
ché grazia il loco e nobiltà n’acquista;
perché Natura in terra augel più vago
non credo, ch’offerir possa a la vista,
né so cosa trovar fra quanti oggetti
invaghiscano altrui, che più diletti.
97. Vedilo là, ch’a’ più bei fior fa scorno,
e ben d’altra pittura i chiostri onora,
con quanta maestà rotando intorno
di mirabil ghirlanda il palco infiora!
Perché crediam, che si si mostri adorno,
se non per allettar chi l’innamora?
e per aprire a la beltà, che mille
fiamme gli aventa al cor, cento pupille ?
98. Or che far dee, dolcissimo ben mio,
gentil petto, alto core, e nobil voglia ?
Qual da sì dolce universal desio
anima fia, che si ritragga, o scioglia ?
Ma che mirar? ma che curar degg’io
del bel Pavon la ben dipinta spoglia,
s’aprono agli occhi miei le tue bellezze
altri fregi, altre pompe, altre ricchezze ?
CANTO SESTO
345
99. Così ragiona, e seco il trae pian piano
dove a l’altr'uscio il Guardian l’aspetta,
che con bei fasci di fioretti in mano
e varie ampolle di profumi alletta:
Garzon verde vestito: e non lontano,
esplorator de la fiorita erbetta,
scaltro Seguso, e d’odorato acuto,
tutto dovunque va cerca col fiuto.
100. Inestinguibilmente a piè gli bolle
infuso un misto d’odorate cose.
Con sangue di Colombe, e con midolle
di Passere stemprò liquide rose,
e col puro Storace e l’Ambra molle
il Muschio dentro e l’Aloè vi pose.
V’ha di Cirene il Belgioin natio,
il Cito Egizzio, e ’l Mastice di Chio.
101. v ista costui da lunge avea la bella
coppia, ch'agli orti suoi Torme volgea,
onde sùbito a sé Zefiro appella,
che ’n curva valle e florida sedea.
— O genitor de la stagion novella —
dice —, vago Forier di Citherea,
che con volo lascivo e lieve fiato,
passeggiando il mio cielo, infiori il prato:
102. non vedi tu la graziosa prole
del gran Motor, che su le stelle regna,
come col vivo suo terreno Sole
le nostre case d’onorar si degna?
Sù sù, studio a raccorla usar si vole,
tu tanta Dea d’accarezzar t’ingegna.
Con la virtù che da' tuoi semi avranno,
figli la Terra, e pargoleggi Tanno.
346 IL GIARDINO DEL PIACERE
103. Quanto essalan di grato Hibla e Pancaia,
quanto l’Hidaspe di lontan ne spira,
quanto 11’accoglie giunto a la vecchiaia
l’Arabo augel ne l'odorata pira,
tutto qui spargi, acciò che degno appaia
di lei ciò ch’ella sente, e ciò che mira.
Fa’ ch’animate di fiorita messe
godan del tuo favor le selci istesse.
104. lutto per questi piani e questi poggi
prodigo il tuo tesor diffondi e sciogli,
e qual rupe più sterile fa’ ch’oggi
a’ tuoi fecondi spiriti germogli;
nude, non ch’ella volentier v’alloggi,
ma d'ordirvi ghirlande anco s’invogli:
e i nostri fior da que’ celesti diti
possano meritar d’esser carpiti. —
103. Scote a quel dir le piume a più colori
tutto di fresco nèttare stillante
de la vezzosa e leggiadretta Clori,
sorto dal seggio suo, l’alato amante:
Clori Ninfa de’ prati e Dea de’ fiori,
de’ lidi Canopei grata abitante.
Spargendo fior da la purpurea stola
sempre il segue costei, dovunque ei vola.
106. La gonna che la copre è tutta ordita
d’un drappo che si cangia ad ora ad ora.
De l’augel di Ciprigna il collo imita
quando ai raggi del Sol si trascolora.
Di simil manto comparir vestita
suole agli occhi d’April la bella Flora,
fai fra Tumide nubi il curvo velo
spande a le prime piogge Iride in cielo.
CANTO SESTO
347
107. Volano a prova, e con (lisciolti lembi
scorron del ciel le spaziose strade.
Nubi accoglie quel ciel, gravide i grembi
di fini unguenti e d’ottime rugiade,
onde l’umor soave in puri nembi
da que’ placidi soffi espresso cade.
Cade su l’erba, e fiocca in larga vena
d’aromatici odor pioggia serena.
10.S. Ciò fatto, ei precursore, ella seguace
l’ali battendo rugiadose e molli,
fan maritate con Iunior ferace
le glebe partorir novi rampolli.
S’allarga l’aria in un seren vivace,
e fioreggiano intorno i campi e i colli.
Vedresti, ovunque vanno, in mille guise
Primavera spiegar le sue divise.
109. Tornano al copular di due stagioni
i secchi dumi con stupor vermigli.
Sbucciano fuor de’ gravidi bottoni
de le madri spinose i lieti figli.
Ricca la terra di celesti doni
par ch’a l’ottavo Ciel si rassomigli.
Par che per vincer l’Arte abbia Natura
applicato ogni studio a la pittura.
no. Qual di splendor sanguigno e qual d’oscuro
tingonsi i fiori in quelle piagge e ’n queste,
qual di fin oro, e qual di latte puro,
qual di dolce ferrugine si veste.
Adone intanto nel secondo muro
con l’altro di beltà Mostro celeste
per angusto sportel passa introdotto,
ch’è di cedro odorato ed incorrotto.
34 8
IL GIARDINO DEL PIACERE
ni. Mercurio incominciò: — Tra quante abbraccia
maggior delizie il cerchio de la Luna
cosa non ha, di cui più si compiaccia
Venere, o ’l figlio suo, che di quest’una.
Né trov’io che più vaglia, o che più faccia
lusingamento, o tenerezza alcuna,
che la soavità de’ molli odori,
molto possenti ad allettar gli amori.
ii 2. Ostie crudeli e sacrifici infausti,
miseri 'l'ori ed innocenti Agnelle
offre la gente al Ciel, tanto ch’essausti
restan gli armenti ognor di questi e quelle;
e sol per far salir d’empi olocausti
un fumo abominevole a le stelle,
aggiunto il foco a le svenate strozze,
arde agli eterni Dei vittime sozze.
113. E crede stolta ancor, che questi suoi
di sangue vii contaminati altari
aborriti lassù non sien da noi,
che siam pur sì pietosi, anzi sien cari;
com’uopo abbian di pecore e di buoi
cittadini del Ciel beati e chiari,
o le dolcezze lor sempre immortali
deggian cangiar con immondizie tali.
114. Doni i più preziosi, i più graditi,
che possan farsi a quegli eccelsi Numi,
di naturai simplicità conditi
son frutti e fiori, aroma ti e profumi.
Ma sovra quanti mai più reveriti
rotano i raggi in ciel celesti lumi,
Adon, la bella Dea, con cui tu vai,
di queste offerte si diletta assai.
CANTO SESTO
349
1x5. E per questa cagion qui, dove torna
ella per uso ad albergar talora,
di tutto il bel, che l’Universo adorna,
scelse quanto diletta, e quanto odora.
Or s’è ver, ch’a colei che qui soggiorna,
ed a tutti gli Dei che ’1 mondo adora,
soglion tanto piacer gli odori sparsi,
quanto denno dagli uomini pregiarsi ?
116. Ben tirato un profìl nel mczo a punto
scolpì del volto uman la man divina,
che quindi con le ciglia ambe è congiunto,
e col labro sovran quinci confina.
E perché di guardarlo abbia l’assunto,
d’osso concavo e curvo armò la spina,
che qual base il sostenta, e tutto il resto
di molli cartilagini è contesto.
117. E perché, se vien pur sinistro caso
una a turar de le finestre sue,
l’altra aperta rimanga, ed abbia il naso
onde i fiati essalar, ne formò due.
E posta in mezo a l’un e l’altro vaso
terminatrice una colonna fue
tenera, ma non fral, sì che per questa
le sue piogge stillar possa la testa.
118. Ma ben che, oltre il decoro, e l’ornamento,
ed oltre ancor ch’ai respirare è buono,
vaglia a purgar del capo ogni escremento,
pur l’odorato è principal suo dono.
E consiste nel moto il sentimento
di due mammelle, che da’ lati sono,
e movon certi muscoli a l’entrata
de’ quali un si ristringe, un si dilata.
350
IL GIARDINO DEL PIACERE
119. Quindi s’apre la porta e lo spiraglio
del senso interno a l’ultime radici,
là dove a guisa di forato vaglio
una parte sovrasta a le narici.
L’altra è spugnosa, e con sottile intaglio
è destinata a necessari uffici,
che qual pomice o fongo avendo i fóri,
rompe l’aere alterato entro 1 suoi pori.
120. È la spugna del cranio umida, e tale
che d’ogni arida cosa assorbe i fiati,
traendo a sé la qualità reale
degli oggetti soavi ed odorati.
Passa il caldo vapore, e in alto sale
ai ventricoli suoi per duo meati,
che non si serran mai, tal che con esso
l’aere insieme e lo spirto han sempre ingresso.
121. Ma tra risi e piacer fra por non deggio
di severa dottrina alti sermoni,
però ch’a la tua Dea su i fianchi io veggio
di pungente desio fervidi sproni;
e del mio dir questo fiorito seggio
soggiungerà la prova a le ragioni.
Senti auretta che spira. — In cotal guisa
l’arguto Dio col belLAdon divisa.
122. De’ fioriti viali in lunghi tratti
mirando van le prospettive ombrose,
ne’ cui margini a fil tirati e fatti
miniere di rubini apron le rose.
Stan disposti ne’ quadri i fiori intatti
con leggiadre pitture ed ingegnose,
e di forme diverse e color vari
con mille odori abbagliano le nari.
CANTO SESTO
351
123. Trecce di canne, e reti, e gelosie
a le ben larghe alèe tesson le coste,
e dagli erbai dividono le vie
compassate a misura, e ben composte,
le cui fabriche egregie e maestrie
la Dea del loco addita al suo bell’oste,
movendo seco per quel suolo i passi,
fatto a musaico di lucenti sassi.
124. Amor con meraviglie inusitate
semplice qui conserva il suo diletto,
perché pon ne le piante innamorate
ogni perfezzi'on senza difetto;
e con foglie più spesse e più odorate,
quando la rosa espone il bel concetto,
o candida, o purpurea, o damaschina,
nascer fa solo il fior senza la spina.
125. Ciò c’han di molle i morbidi Sabei,
gl’indi fecondi o gli Arabi felici,
ciò che produr ne sanno i colli Hiblei,
le piagge Hebalie, o l’Attiche pendici,
quanto mai ne nutriste orti Panchei,
prati d’Himetto, e voi campi Corici,
con stella favorevole e benigna
tutto in quegli orti accumulò Ciprigna.
126. Vi suda il Gatto Ethiope, e ben discosto
lascia di sua virtù traccia per l’aura,
né vi manca per tutto odor composto
di pasta ispana, o di mistura inaura.
Casia, Amaraco, Amomo, Aneto e Costo,
e Nardo e Timo ogni egro cor restaura.
Abrotano, Serpillo ed Helicriso,
e Citiso, e Sisimbro, e Fiordaliso.
352
IL GIARDINO DEL PIACERE
127. Havvi il Bàccare rosso, in piaggia aprica
nato a spedir le membra in lieve assalto.
Havvi la Spina Arabica e la Spica
che più groppi di verghe estolle in alto.
D’Ethiopia il Balan qui si nutrica,
colà di Siria il virtuoso Asfalto.
Spunta mordace il Cinnamomo altrove,
e la Pontica Noce a piè gli piove.
128. Tra i più degni germogli il Panaceo
le sue foglie salubri implica e mesce;
e ’1 Terebinto col Dittamo Ideo,
da cui medico umor distilla ed esce;
e col Libico Giunco il Nabatheo,
e d’india il biondo Calamo vi cresce.
Chi può la serie annoverar di tante,
ignote al nostro ciel, barbare piante?
129. Fumante il sacro Incenso erutta quivi
d’alito peregrin grati vapori.
Scioglie il Balsamo pigro in dolci rivi
i preziosi e nobili sudori.
Stilla in tenere gomme, e 'n pianti vivi
i suoi viscosi e non caduchi umori
Mirra, del belFAdon la madre istessa:
e ’l bel pianto raddoppia, or ch’ei s’appressa.
130. Non potè far che del materno stelo
non compiangesse il figlio il caso acerbo.
— Siati sempre — gli disse — amico il Cielo,
tronco che ’n mezo al cor piantato io serbo.
Le tue chiome non sfrondi orrido gelo,
le tue braccia non spezzi Austro superbo;
e quando ogni altra pianta i fregi perde,
in te verdeggi il fior, fiorisca il verde. —
CANTO SESTO
353
131. Sì parla, ed ella la cangiata spoglia
dal sommo crine a la radice estrema
per la memoria de l’antica doglia
tutta crollando allor, palpita e trema.
Com’abbracciar co’ verdi rami il voglia,
se stessa inchina, e par languisca e gema,
e sparsi de’ suoi flebili licori
fa lagrimar gl’innamorati fiori.
132. Ne’ fior ne’ fiori istessi Amor ha loco,
amano il bel Ligustro e l’Amaranto,
e Narciso e Giacinto, Aiace e Croco,
e con la bella Clizia il vago Acanto.
Arde la Rosa di vermiglio foco,
l’odor sospiro, e la rugiada è pianto.
Ride la Calta, e pallida ed essangue
tinta d’amor la V ìoletta langue.
133. Ancor non eri, o bell’Adone, estinto,
ancor non eri in novo fior cangiato.
Chi diria che di sangue (oimè) dipinto
dèi di te stesso in breve ornare il prato ?
Presago già, ben che confuso e vinto,
d’un tanto onor, che gli destina il fato,
ciascun compagno tuo t’onora e cede,
t’ingemman tutti il pavimento al piede.
134. Havvi il vago Tulippo, in cui par voglia
quasi in gara con l'Arte entrar Natura.
Qual d’un bel riccio d’or tesse la foglia,
ch’ai broccati di Persia il pregio fura,
qual tinto d’una porpora germoglia
che degli ostri d’Arabia il vanto oscura.
Trapunto ad ago, o pur con spola intesto,
drappo non è, che si pareggi a questo.
23
3.54
IL GIARDINO DEL PIACERE
135. Ma più d’ogni altro ambizioso il Giglio,
qual Re sublime, in maestà sorgea,
e con scorno del bianco e del vermiglio
in alto il gambo insuperbito ergea.
Dolce gli arrise, indi di Mirra al figlio
segnollo a dito, e ’l salutò la Dea.
— Salve — gli disse — o sacra, o regia, o degna
del maggior Gallo, e fortunata insegna.
136. Ti vedrà con stupor l’età novella
chiara quanto temuta e gloriosa.
Ma quante volte di dorata e bella
diverrai poi purpurea e sanguinosa ?
Non sol negli orti miei convien ch’anch'ella
ti ceda ornai la mia superba Rosa,
ma fregiato di stelle anco il tuo stelo
merita ben che si traspianti in Cielo. —
137. Non so se v’era ancor la Granadiglia,
ch’a noi poscia mandò l’Indica piaggia,
di Natura portento e meraviglia,
e ceda ogni altra pur stirpe selvaggia.
Al no più tosto il mio pensier s’appiglia,
né deve altro stimarne anima saggia,
ché star non può, né dee puro e sincero
tra l’ombre il Sol, con le menzogne il vero.
138. Disse alcun, ch’a narrar le glorie e l’opre
del sempiterno lor sommo Fattore
le stelle, onde la Notte il manto copre,
son caratteri d’oro e di splendore.
Or miraeoi maggior la terra scopre,
quasi bei fogli apre le foglie un Fiore,
Fiore, anzi libro, ove Gesù trafitto
con strane note il suo martirio ha scritto.
CANTO SESTO
355
139. Benedicati il Cielo e chi lo scrisse,
o sacro Fior, che tanta gloria godi ;
e i fiori, in cui de’ Regi i nomi disse
leggersi antica Musa, or più non lodi.
Chi vide mai, che ’n prato alcun fiorisse
Primavera di spine, e lance, e chiodi ?
e che tra mostri al Redentor rubelli
pullulasser co' fiori i suoi flagelli ?
140. In India no, ma ne’ giardin celesti
portasti i primi semi a’ tuoi natali
tu, che del tuo gran Re tragici e mesti
spieghi in picciol teatro i funerali.
Xe l’orto di Giudea (credo) nascesti
da que’ vermigli e tepidi canali,
che gli Olivi irrigaro, ov’egli essangue
angosciose sudò stille di sangue.
141. Ahi qual pennello in te dolce e pietoso
trattò la man del gran Pittore eterno?
e con qual minio vivo e sanguinoso
ogni suo strazio espresse, ed ogni scherno?
di quai fregi mirabili pomposo
al Sol più caldo, al più gelato verno
dentro le tue misteriose foglie
spieghi l’altrui salute, e le sue doglie?
142. Qualor bagnato da’ notturni geli
con muta lingua, e taciturna voce,
anzi con liete lagrime riveli
de’ tuoi fieri trofei l’istoria atroce,
e rappresenti ambizioso ai Cieli
l’aspra memoria de l’orribil Croce,
per gran pietate il tuo funesto riso
dà materia di pianto al Paradiso.
356
IL GIARDINO DEL PIACERE
143. Vivi, e cresci felice. Ove tu stai
Sirio non latri, ed Aquilon non strida,
né di profano Agricoltor già mai
vii piè ti calchi, o falce empia t’incida.
Ma con chiar’onde e con sereni rai
ti nutrisca la terra, il ciel t’arrida.
Favonio ognor con la compagna Clori
de la bell’ombra tua gli odori adori.
144. Te sol l’Aurora in Oriente ammiri,
tue pompe invidii, e tua beltà vagheggi.
In te si specchi, a te s’inchini e giri
stupido il Sol da’ suoi stellanti seggi.
Ma né questi né quella al vanto aspiri
che di luce o color teco gareggi,
ché sol la vista tua può donar loro,
qual non ebber già mai, porpora ed oro.
143. Lagrimette e sospir calde e vivaci
d’aure in vece ti sieno, e di rugiade.
Angeli sien del Ciel l’Api predaci
che rapiscali I unior che da te cade;
e mille in te stampando ardenti baci
di devota dolcezza, e di pietade,
dal fiel che ti dipinge amaro e grave
traggano a’ nostri affanni il mèl soave.
146. Tutto al venir d'Adon par che ridenti
rivesta il bel Giardin novi colori.
Umili in atto intorno e reverenti
piegan la cima i rami, èrgonla i fiori.
Vezzose l’aure, e lusinghieri i venti
gli applaudon con sussurri adulatori.
Tuttutti a salutarlo ivi son pronti
gli augei cantando, e mormorando i fonti.
CANTO SESTO
357
147. Con l’inteme del cor viscere aperte
ogni germe villan fatto civile,
gli fa devoto affettuose offerte
di quanto ha di pregiato e di gentile.
Dovunque il volto gira o il piè converte
presto si trova a corteggiarlo Aprile.
Aranci, e cedri, e mirti, e gelsomini
spiran nobili odori e peregrini.
148. Qui di nobil Pavon superba imago
il crespo bosso in ampio testo ordiva,
che nel giro del lembo altero e vago
ordin di fiori in vece d’occhi apriva.
Quivi il lentisco di terribil Drago
l’effigie ritraea verace e viva,
e l’aura sibilando intorno al mirto
formava il fischio, e gl’infondea Io spirto.
149. Colà l’edra ramosa intesta ad arte
capace tazza al naturai fìngea,
dove il licor de le rugiade sparte
ufficio ancor di nèttare facea.
Con verdi vele altrove e verdi sarte
fabricava il limon nave o galea,
su la cui poppa i vaghi augei cantanti
l’essercizio adempìan de’ naviganti.
150. La Gioia lieta e la Delizia ricca,
l’accarezza colei, costei l’accoglie.
La Diligenza i fior dal prato spicca,
l’Industria i più leggiadri in grembo toglie;
e la Fragranzia i semplici lambicca,
e la Soavità sparge le foglie;
l’Idolatria tien l’incensiero in mano,
la Superbia n’essala un fumo vano.
3ó8 il giardino del piacere
131. La Morbidezza languida e lasciva,
la Politezza dilicata e monda,
la Nobiltà, che d’ogni lezzo è schiva,
la Vanità, che d’ogni odore abonda,
la Gentilezza affabile e festiva,
la Venustà piacevole e gioconda,
e con l’Ambizion gonfia di vento
il Lusso molle, e 1 Barbaro Ornamento:
132. venner questi Fantasmi, ed a man piene
su ’l bel viso d’Adon spruzzando stille
d’odorifere linfe, entro le vene
gl'infuser sottilissime faville.
Poi con tenaci e tenere catene,
ch’ordite avean di mille fiori e mille,
trasser legati il Giovane e la Diva
là dove a l’Ozio in grembo Amor dormiva.
153. O fusse degli odor l’alta dolcezza
la quale il trasse a quel beato loco,
o pur che vinto alfin da la stanchezza
schermo cercasse da l’estivo foco,
quivi colui che l’Universo sprezza
e de l’altrui languir si prende gioco,
con un fastel di fior sotto la fronte
crasi addormentato a piè d’un fonte.
134. La pesante faretra e l’arco grave
sostiene un mirto, e ne fa scherzo al vento.
L’ali non move già, ché ferme l’have
un sonno dolce, a lusingarlo intento.
Ma ’1 sonno lieve, e ’I venticel soave
fan con moto talor lascivo e lento
vaneggiar, tremolar, qual onda in fiume,
le belle chiome, e le purpuree piume.
CANTO SESTO
359
155. Quando la madre il cattivai ritrova,
ch’ai sonno i lumi inchina, e i vanni piega,
tosto pian pian pria che si svegli o mova,
per l’ali il prende, e con la benda il lega.
Amor si desta, e di campar fa prova,
e si scusa, e lusinga, e piagne e prega.
Non l’ascolta Ciprigna, e se ben scherza,
simulando rigor, stringe la sferza.
156. — Tu piagni — gli dicea — tu crudo e rio,
che di lagrime sol ti pasci e godi ?
e pur dianzi dormivi, e pur (cred’io)
sognavo ancor dormendo insidie e frodi!
Tu, che turbi i riposi al dormir mio,
e m’inganni e schernisci in tanti modi,
tu, che ’l sonno interrompi ai mesti amanti,
dormivo forse al mormorar de’ pianti ? —
157. Cosi dice, e '1 minaccia, e da’ bei rai
folgora di dispetto un lampo vivo.
Ma ’l suo vezzoso Adon, che non sa mai
il bel volto veder se non giolivo,
corre a placarla, e — Serenate ornai
quel sembiante — le dice — irato e schivo.
Vorrò veder, s’ad impetrar son buono
dal vostro sdegno il suo perdono in dono. —
158. Come, veduto il pasto, in un momento
mordace can la rabbia acquetar suole,
o come innanzi al più sereno vento
si dileguan le nubi, e riede il Sole;
così de l’ira ogni furore ha spento
Venere a le dolcissime parole.
— Piace — risponde — a me, poi ch’a te piace,
per maggior guerra mia, dargli la pace.
IL GIARDINO DEL PIACERE
360
159. Arbitro è il cenno tuo del mio consiglio,
quanto puoi ne l’amor, puoi ne lo sdegno.
E che curar degg’io di cieco figlio?
Tu se’ il mio caro e prezioso pegno.
Porta Amor l’arco in man, tu nel bel ciglio;
tende Amor il lacciuol, tu se’ il ritegno;
Amor ha il foco, e tu dài l’ésca; Amore
111’uscì del seno, e tu mi stai nel core.
160. Ma sappi, anima mia, che quale il vedi,
quel ch'or ti fa pietà, povero infante,
volge il mondo sossovra, e sotto i piedi
ha con tutti i Celesti il gran Tonante.
Ben te n'accorgerai, se tu gli credi,
ma non gli creda alcun accorto amante!
Scelerato, fellon. Furia, non Dio,
sì partorito mai non l’avess’io.
161. È cieco sì, non perché già gli strali
se ferir vuol non veggia ove rivolga,
ch’ascoso il cor nel petto de’ mortali
trovar ben sa, senza che ’1 vel si sciolga.
Cieco ei s’infinge sol negli altrui mali,
né gli cal ch’altri pianga, o che si dolga;
e cieco è sol, però ch'accieca altrui
per dar la morte a chi si fida in lui.
162. Fiero accidente e rapido volere,
desio che ’nchina a partorir nel bello.
Scende al cor per la vista, e vuol godere:
cerca il diletto, e sol s’acqueta in quello.
Ma poi che lusingato ha col piacere,
ai più fidi e devoti è più rubello.
Gli altri affetti de l’alma, a pena entrato
scaccia, e s’usurpa quel che non gli è dato.
CANTO SESTO
361
163. Sotto la sua vittoriosa insegna
piangon mill’alme afflitte i propri torti.
Mansueto e feroce, ama e disdegna,
prega e comanda, or pene, or dà conforti.
Leggi rompe, armi vince, e mentre regna,
piega i saggi egualmente, e sforza i forti.
Risse e paci compone, ordisce inganni,
sa far lieti i dolori, utili i danni.
164. Tenero come ortica, e come cera
è duro, umil fanciullo, e fier Gigante.
11 disprezzo lo placa, e la preghiera
più terribile il rende, e più arrogante.
Qual Protheo, ha qualità varia e leggiera,
in tante forme si trasforma e tante.
Ha l’entrata ne’ cor pronta e spedita,
faticosa e difficile l’uscita.
165. Ha faci, e reti, e lacci, ed arco, e dardi:
quant'ha, tutto è veleno, e tutto è foco.
Mostra viso benigno e dolci sguardi,
or salta, or vola, e non ha stabil loco.
Forma falsi sospir, detti bugiardi,
spesso s’adira e volge in pianto il gioco.
Quel che giova non cura, o quel che lice,
né teme genitor, né genitrice.
166. La spada a Marte e la saetta a Giove
toglie di mano, e sì l’aventa e vibra!
Repentino e furtivo assalti move,
né con scarse misure i colpi libra.
Fa piaghe inevitabili, e là dove
passa, attosca gli spirti in ogni fibra.
v a per tutto, e per tutto or cala, or poggia,
ma sol ne’ cori, e non altrove alloggia.
IL GIARDINO DEL PIACERE
3 6 -
167. Ciò che del mentitor l’arte richiede,
ciò ch’ai furti de l’alme oprar bisogna,
da lo Dio de l’astuzie e de le prede
ne lo studio imparò de la menzogna.
Non conoscer giustizia, e romper fede,
schernir pietate, e non stimar vergogna,
tutto apprese da lui ; ué scaltro e destro
il discepoi fu poi men del maestro.
16S. Consiglier disleal, guida fallace,
chiunque il segue di tradir si vanta.
Astuto Uccellator, Mago sagace,
1 sensi alletta, e gl’intelletti incanta.
Indiscreto furor, tarlo mordace,
rode la mente, e la ragion ne schianta.
Passion violenta, impeto cieco,
tosto si sazia, e ’l pentimento ha seco.
169. Ceda del mar Tirren la Fera infida
e del fiume d’Egitto il perfid’Angue,
che forma a danni altrui canto omicida,
e piange l'uom, poi che gli ha tratto il sangue.
Questi toglie la vita, e par che rida,
ferisce a morte, e per pietà ne langue.
In gioconda prigion di vita incerto
tiene altrui preso, e mostra l'uscio aperto.
170. Non ebbe il secol mai moderno o prisco
mostro di lui più sozzo, o più difforme:
ma perch’altri non fugga il laccio e ’l visco,
non si mostra già mai ne le sue forme.
Medusa a l’occhio, al guardo è Basilisco,
nel morso a la Tarantola è conforme.
Ha rostro d’Avoltoio orrido e schifo,
man di Nibbio, unghia d’Orso, e piè di Grifo.
CANTO SESTO
3^3
171. Non giova a fargli schermo arte o consiglio,
poi che per vie non conosciute offende.
Pere, ma non fa piaga il crudo artiglio,
o se pur piaga fa, sangue non rende:
se rende sangue pur, non è vermiglio,
ma stillato per gli occhi in pianto scende:
e così lascia in disusata guisa,
senza il corpo toccar, l’anima uccisa.
172. Chi non vide già mai Serpe tra rose,
mèle tra spine, o sotto mèl veleno;
chi vuol veder il ciel di nebbie ombrose
cinto quand’è più chiaro e più sereno;
venga a mirar costui, che tiene ascose
le grazie in bocca, e porta il ferro in seno.
Lupo vorace in abito d’agnello,
fera volante, e corridore augello.
173. Lince privo di lume, Argo bendato,
vecchio lattante e pargoletto antico,
ignorante erudito, ignudo armato,
mutolo parlator, ricco mendico.
Dilettevole error, dolor bramato,
ferita cruda di pietoso amico,
pace guerriera, e tempestosa calma:
la sente il core, e non l’intende l’alma.
174. Volontaria follia, piacevol male,
stanco riposo, utilità nocente,
desperato sperar, morir vitale,
temerario timor, riso dolente,
un vetro duro, un adamante frale,
un’arsura gelata, un gelo ardente,
di discordie concordi Abisso eterno,
Paradiso infernal, celeste Inferno.
364
IL GIARDINO DEL PIACERE
175. Era a gran pena dal mio ventre al Sole
questo seme di vizii uscito fora,
né ’l fianco a sostener la grave mole
de la faretra avea ben fermo ancora,
quando del fiero ingegno, acerba prole,
maturò le perfidie innanzi l’ora;
e se ben l’ali ancor non gli eran nate,
con la malizia avantaggiò retate.
1 76. Iva a la scola, a quella scola, in cui
virtù s’impara, ed onestà s’insegna;
e piangea ne l’andar, come colui
che si fatte dottrine aborre e sdegna.
E coni'è stil de’ coetanei sui,
perché ’l digiuno a ristorar si vegna,
pien di poma portava un picciol cesto,
che di fronde di palma era contesto.
177. Perché non si smarrisse, o smarrit’anco
fusse ai tetti materni almen ridutto,
sospeso gli avev’io su ’l tergo manco
di breve in forma un titolo costrutto.
Eravi affiso un pergamene bianco,
di minio e d’òr delineato tutto,
e scritto v’era di mia propria mano:
“ Questi è di Vener figlio, e di Vulcano ”.
17S. Poco tardò, che di trovar gli avenne
la Vigilanza, ch'attendea tra via.
Con l’Importunità l’Audacia venne,
poi la Consuetudine seguia.
Costoro in guisa tal, ch’ebro divenne,
l’abbeveràr del vin de la Follia.
Ebro il tennero a bada, in fin che tutti
del suo panier si divoraro i frutti.
CANTO SESTO
365
179. Or dov’altri donzelli in varie guise
de’ primieri elementi apprendean l’arte,
il malvagio scolar giunto s’assise
ne la più degna ed onorata parte.
Quindi poi sorto, a recitar si mise
la lezzion su le vergate carte,
e quasi pur con indice o puntale,
la tabella scorrea con l’aureo strale.
180. Ma però che non ben del suo dettato
seppe le note espor, con scorni ed onte
ne fu battuto, ond’ei con l’arco aurato
al Senno precettor ruppe la fronte.
Così fuggissi, ed a l’albergo usato
non osando tornar, calò dal monte,
e con la turba insana e fanciullesca
venne in desio d’essercitar la pesca.
18 r. E mancandogli corda, agli aurei crini
svelle una ciocca, e lungo fil ne stende,
e questo immerso entro i zaffir marini
in vece d’asta, ad una freccia appende.
Gittan lo stame ancor gli altri Amorini,
perde il tempo ciascuno, e nulla prende.
Solo il mio figlio a strana preda inteso
tragge carco il lacciuol di ricco peso.
18>. Guizzava a punto in quella istessa riva,
dove i dolci de’ cor Tiranni e Ladri
intendeano a pescar, Ninfa lasciva,
cui pari altra non ebbe occhi leggiadri.
Mentre perle costei cogliendo giva
dal cavo sen de le cerulee madri,
vide folgoreggiar per entro l’onda
del pargoletto Dio la treccia bionda
366
IL GIARDINO DEL PIACERE
183. A la luce de l’ór, ch’alletta e ’nganna,
s’accosta incauta, e vi s’involve e gira.
Tosto che sente Amor tremar la canna,
con l’aita degli altri a sé la tira.
Presa è la Ninfa, e di dolor s’affanna,
giunge a l’arena, e si dibatte e spira.
A pena a l’aura è fuor de Tacque uscita,
che ’n acquistando il Sol, perde la vita.
184. Tra questi indugi ecco la notte oscura,
ch’imbruna il cielo, e discolora il giorno.
Allor ramingo, e pien d’alta paura
vassi lagnando, e non sa far ritorno.
Ma pur, riconosciuto a la scrittura,
è ricondotto al mio divin soggiorno.
Io per punirlo allor la verga prendo,
ed ei si scusa, e supplica piangendo.
183. «Pietà» diceami « affrena Tira alquanto,
pietà (madre) mercé, perdono, aiuto,
ch’anco sta man, non senza affanno e pianto,
dal severo maestro io fui battuto!
È fors’egli miracolo cotanto,
che sia per poco un fanciullin perduto?
Anco in più ferma età (né meraviglia)
perde per sempre Cerere la figlia.
186. Se questa volta il rio flagel deponi,
vo' che novo da me secreto impari.
Insegnerotti, pur che mi perdoni,
a pescar cori, i quai ti son si cari.
Sappi, che non si fan tai pescagioni
senza l’ésca de l’ór ne’ nostri mari.
Pon’ Toro in cima pur degli ami tuoi,
e se ne scampa alcun, battimi poi.
CANTO SESTO
367
187. Nel mar d'Amor ciascun amante pesca
per trarre un cor fugace al suo desio.
Ma però che de’ cori è cibo ed ésca
l’ór, che del vulgo già s’è fatto Dio,
chi vuol che ’1 suo lavor ben gli riesca,
usi quest’arte, che ti scopro or io.
Qualor uom ch’ama a bella preda intende,
se l’ésca non è d'òr, l’amo non prende ».
188. Con queste ciance, del suo fallo stolto
campò la pena il lusinghier crudele.
Ma per altra follia non andò molto
ch’a me tornò con gemiti e querele.
Vassene in un querceto ombroso e folto
ne’ giardini di C-nido a coglier mèle,
e seco a depredar gli aurei fialoni
van gli alati fratelli in più squadroni.
189. E perché ’l dolce de’ licor soavi
Orso o Mosca non è che cotant’ami,
cerca de’ faggi opachi i tronchi cavi,
spia de’ frassini annosi i verdi rami.
E nel pedal d’un’elce ecco duo favi
vede coverti di pungenti essami.
Vulgo d’Api ingegnere accolto in quella
sta sussurrando a fabricar la cella.
190. Chiama i compagni, e lor la cova addita
che la ruvida scorza in sé ricetta.
Corre dentro a ficcar la destra ardita,
ma la ritira poi con maggior fretta.
Folle chi cani attizza, o vespe irrita,
che non si sdegnan mai senza vendetta.
Pecchia d’acuta spina armata il morse,
ond’ei forte gridando a me ricorse.
368
IL GIARDINO DEL PIACERE
19 r. E de la guancia impallidito l’ostro,
di timor, di dolor palpita e langue.
« Madre madre » mi dice « un picciol mostro »
e mi scopre la man tinta di sangue
« un, che quasi non ha dente né rostro,
e sembra d’oro, e punge a guisa d’angue,
minuto animaletto, alata Serpe
hammi il dito trafitto in quella sterpe ».
192. lo, che '1 conosco, e so di che fier’aghi
s’armi sovente, ancor che vada ignudo,
mentre che i lumi rugiadosi e vaghi
gli asciugo, e la ferita aspra gli chiudo,
« Che d’anima] sì picciolo t’impiaghi »
rispondo « il pungiglion rigido e crudo,
da pianger, figlio, o da stupir non hai.
E tu fanciullo ancor che piaghe fai ? »
193. L’Occasion, ch’è nel fuggir sì presta,
vide un giorno per l’aria ir frettolosa.
Suora minor de la Fortuna è questa,
e tien le chiavi d’ogni ricca cosa.
L’ali ha su ’l tergo, e di vagar non resta
sempre andando e tornando, e mai non posa.
Lungo, diffuso e folto il crine ha, salvo
verso la coppa, ov’è schiomato e calvo.
104. Per poterla fermar, l’occhio e ’l pensiero
molto attento ed accorto aver conviene,
ch’animai non fu mai tanto leggiero,
e vuol gran senno a custodirla bene.
Frutto di suo sudor non gode intero
chi la prende talor né la ritiene.
Egli appostolla, e tante insidie tese,
che mentr’ella volava, alfin la prese.
CANTO SESTO
369
195. Ma poi ch’ai laccio suo la giunse e colse,
e la chioma fugace ebbe distretta,
di lentisco una gabbia intesser volse
per tenervela poi chiusa e soggetta.
Oh poco cauto! intanto ella si sciolse:
così perde piacer chi tempo aspetta.
Mentr’era intento a que’ pensieri sciocchi,
gli uscì di mano, e gli svanì dagli occhi.
196. Quante da indi in poi colpe diverse
da lui commesse, io qui trapasso e celo?
Taccio quando di neve il sen s’asperse,
e si stracciò di su la fronte il velo.
Lassa, allor per mio mal le luci aperse,
allor fu l’ardor suo misto di gelo!
L’iniqua Gelosia, che ’1 tolse in braccio,
gli sbendò gli occhi, e l’attuffò nel ghiaccio.
197. Fuggì tremando assiderato e molle,
tutto stillante il sen pruine e brume,
al cieco albergo, ove lo Sdegno folle
tien di torbida fiamma acceso lume;
e però ch’appressar troppo si volle,
riscaldando le membra, arse le piume.
Quindi tacito e mesto a casa venne
con la fascia squarciata, e senza penne.
198. L’insolenza e l’ardir contar non voglio,
quando sotto le piante Onor si pose,
al cui saggio ammonir crebbe in orgoglio
con ingiurie villane ed oltraggiose.
E perché la Ragion, che ’n alto soglio
siede Reina a giudicar le cose,
citollo al tribunal del suo governo,
ricusando ubbidir, la prese a scherno.
24
37«
IL GIARDINO DEL PIACERE
199. Anzi un regno per sé solo e diviso
a dispetto fondò de la Ragione.
Volse anch’egli il suo Inferno e ’l Paradiso
in disprezzo di Giove e di Plutone.
Ne l’un pose diletto, e gioia, e riso,
ma beate suol far poche persone.
1/altro tutto colmò di fiamme ardenti,
dove i dannati suoi stanno in tormenti.
200. De le più chiare e più famose lodi
del mio Folletto hai qualche parte intesa ;
ma del gran fascio di cotante frodi
sappi, che quel ch’io narro, il men non pesa.
Di sue prodezze intempestive or odi
un’altra egregia e segnalata impresa.
La misera Speranza un giorno batte,
balia che lo nutrì del proprio latte.
201. Indi da me scacciato, e facciatinto
del color de la porpora e del foco,
c da la Rabbia e dal Furor sospinto,
che l’accompagnan sempre in ciascun loco,
prese a giocar con l’Interesse, e vinto
l’arco perdette e le quadrella in gioco.
Costui, ch’ogni valor spesso gli toglie,
viriselo, e trionfò de le sue spoglie.
202. Ma di nov’arco e di quadrella nove
poi ch’arciera Peltà l’ebbe fornito,
sen gìo ventura a ricercare altrove
insopportabilmente insuperbito.
E mentre inteso a far l’usate prove
scorrea l'onda e l’arena, il monte e ’l lito,
tra 1 sepolcri di Menfi infausta sorte
guidollo a caso ad incontrar la Morte.
CANTO SESTO
371
203. Quel teschio scarno e nudo di capelli,
quella rete di coste e di giunture,
de le concave occhiaie i vóti anelli,
del naso monco le caverne oscure,
de le fauci sdentate i duo rastelli,
del ventre aperto Torride fessure,
de’ secchi stinchi le spolpate fusa
Amor mirar non seppe a bocca chiusa.
204. Non si seppe tener che non ridesse,
vólto a schernirla, il garruletto audace:
onde pugna crudel tra lor successe,
vibrando ella la falce, egli la face.
Ma si frapose, e quel furor ripresse
componendogli insieme amica Pace;
e quella notte in un medesmo tetto,
abitanti concordi, ebber ricetto.
203. Levati la diman, Tarmi scambiando,
l’un si prese de l’altro arco e quadrella,
ond’adivenne poi, che saettando
féro effetti contrari e questi, e quella.
L’uno uccidendo, e l’altra innamorando
ancor serban quest’uso ed egli, ed ella:
Morte induce ad amar l'alme canute,
Amor tragge a morir la gioventute.
206. Adon bella mia pena, e caro affanno,
luce degli occhi miei, fiamma del core,
guardati pur da questo rio Tiranno,
ch’alfin non se ne trae se non dolore.
Così parla Ciprigna, e ’ntanto vanno
fuor del boschetto ""e trovaro Amore.
Amor si va le lag tergendo,
e con occhio volpin ride piangendo.
LE DELIZIE
CANTO SETTIMO
ALLEGORIA
L'Argento della terza porta ha proporzione con la materia
dell’orecchio, sì come l’avorio e ’l rubino della quarta si confanno
con quella della bocca. Le due Donne, che nel senso dell’Udito
ritrova Adone, son la Poesia, e la Musica. I versi epicurei cantati
dalla Lusinga, alludono alle dolci persuasioni dì queste due divine
facoltà, qualora divenute oscene meretrici, incitano altrui alla
lascivia. Le Ninfe, che nel senso del Gusto dal mezo in giù riten¬
gono forma di Viti, e abbracciano e vezzeggiano chi loro si accosta,
son figura della Ebrietà, la qual suol essere molto trabocchevole
agl’incentivi della libidine. Il nascimento di Venere, prodotta
dalle spume del mare, vuol dire che la materia della genitura
(come dice il Filosofo) è spumosa, e l’umore del coito è salso.
Il natal d'Amore, celebrato con festa ed applauso da tutti gli
animali, dà a conoscere la forza universale di questo efficacissime;
affetto, da cui riceve alterazione tuttaquanta la Natura. Pasquino,
figlio di Morao e della Satira, che per farsi grato a Venere, le manda
a presentare la descrizzione del suo adulterio, dimostra la pessima
qualità degli uomini maledici, i quali eziandio quando vogliono
lodare, non sanno se non dir male. Vulcano, che fabrica la rete
artificiosa, è il calor naturale, ch’ordisce a Venere e a Marte,
cioè al disiderio dell’umano congiungimento, un intricato ritegno
di lascive e disoneste dilettazioni. Sono i loro abbracciamenti
discoverti dal Sole, simulacro della prudenza, perciò che questa
virtù col suo lume dimostra la bruttura di quell’atto indegno,
e la fa conoscere e schernire da tutto il mondo.
ARGOMENTO
Accenti di dolcissima armonia
ascolta Adon tra suoni e balli e feste.
S’asside a mensa con la Dea celeste,
e le lodi d'Amor canta Thalia.
1. Musica e Poesia son due sorelle
ristoratrici de l’afflitte genti,
de’ rei pensier le torbide procelle
con liete rime a serenar possenti.
Non ha di queste il mondo arti più belle
o più salubri a l’affannate menti;
né cor la Scithia ha barbaro cotanto
(se non è Tigre) a cui non piaccia il canto.
2. Suol talvolta però metro lascivo
l’alte bellezze lor render men vaghe,
e l’onesto piacer fassi nocivo,
e divengon di Dee Tiranne e Maghe.
Né fa rapido strai passando al vivo
tinto di tosco, sì profonde piaghe,
come i morbidi versi entro ne’ petti
van per l’orecchie a penetrar gli affetti.
CANTO SETTIMO
377
3. Elle ingombrando il cor di cure insane
col dolce vin de la Lussuria molle,
quasi del Padre Ebreo figlie profane,
l’infiamman si, che fervido ne bolle.
Instigate da lor le voglie umane
a libertà licenziosa e folle,
dietro ai vani appetiti oltre il prescritto
trascorron poi del lecito e del dritto.
4. Ma s’a la forza magica di queste
incantatrici e perfide Sirene
ad aggiungere ancor per terza peste
il calor de la Crapula si viene,
che non può ? che non fa ? quante funeste
ululare per lei tragiche scene ?
Toglie di seggio la ragion ben spesso,
l’anima invola al cor, l’uomo a se stesso.
5. Lupa vorace, ingordo Mostro infame,
lo cui cupo desir sempre sfavilla,
che sol per satollar l’avide brame
brami collo di Gru, ventre di Scilla,
sì ch’ésca ornai bastante a tanta fame
la terra o l’acqua non produce o stilla,
e da la gola tua divoratrice
a pena scampa l’unica Fenice:
6. dolce velen, che d'uinor dolce e puro
irrigando il palato, innebri l’alma,
dal tuo lieto furor non fu securo
chi pria t’espresse con la roza palma.
Del tuo sommo poter, fra quanti furo
oppressi mai di così grave salma,
Herode, e Baldassare, ed Oloferne
han lasciate tra noi memorie eterne.
37 »
LE DELIZIE
7. Ma vie più ch’alcun altro, Adone è quello
che ne fa chiara prova, espressa fede.
Eccolo là, che verso il terzo ostello
con la madre d’Amor rivolge il piede.
E ’l Portinaio ad ospite sì bello
aperto il passo e libero concede;
e per via angusta e flessuosa e torta
d’un in altro piacer fassi sua scorta
8. Stava costui con pettine sonoro
sollecitando armonico stromento.
Un Cinghiale in disparte, un Cervo, un Toro
teneano a quel sonar l’orecchio intento.
Ma deposta la lira, al venir loro
te' su '1 cardin croccar l’uscio d’argento.
D’argento è l’uscio, e certe conche ha vote,
che s’odon tintinnir quando si scote.
9. — De la bella armonia — di Mirra al figlio
disse il figlio di Maia — è questi il Duce;
anch’ei de la tua Dea servo e famiglio
al piacer de l’udire altrui conduce.
Né fatto è senza provido consiglio,
ch’alberghi con Amor chi Amor produce,
poi che non è degli amorosi metri
cosa in Amor, che maggior grazia impetri.
io. Chi d’eburnea testudine eloquente
batter leggiadra man fila minute,
sposando al dolce suon soavemente
musica melodia di voci argute
sente talor, né penetrar si sente
di que’ numeri al cor l’alta virtute,
spirto ha ben dissonante, anima sorda,
che dal concento universal discorda.
CANTO SETTIMO
379
11. Fe’ quel senso Natura, acciò che sia
di tal dolcezza al ministerio presto;
e ben ch’entrar per la medesma via
soglia ciascun ne l’uomo abito onesto,
poscia ch’ogni arte e disciplina mia
non ha varco ne l’alma altro che questo,
una è sol la cagion, vario l'effetto:
l’uno ha riguardo al prò, l’altro al diletto.
12. Perché sempre la voce in alto monta,
però l’orecchia in alto anco fu messa,
e d’ambo i lati, emula quasi, affronta
degli occhi il sito in una linea istessa.
Né men certo è de l’occhio accorta e pronta,
né minor che ne l’occhio ha studio in essa:
in cui tanti son posti, e ben distinti
aquedotti, e recessi, e labirinti.
13. Picciole sì, se pareggiarsi a quelle
denno d’altro animai vile e vulgare,
ma più formarsi ed eccellenti e belle
già non potean, né più perfette e rare.
Sempre aperta han l’entrata, e son gemelle
per la necessità del loro affare.
Proprio moto non hanno, e fatte sono
d’un’asciutta sostanza, acconcia al suono.
14. 11 suono oggetto è de l’Udito, e mosso
per lo mezo de l’aere al senso viene.
Da l’esterno fragor rotto e percosso
l’aere del suon la qualità ritiene;
da cui l’aere vicin spinto e commosso,
come in acqua talor mobile aviene,
porta ondeggiando d’una in altra sfera
a l’uscio interior l’aura leggera.
3 S °
LE DELIZIE
15. Scorre là dov’è poi tesa a quest’uso
di sonora membrana arida tela;
quivi si frange e purga, e quivi chiuso
agitando se stesso, entro si cela,
e tra quelle torture erra confuso
fin ch’ai senso commun quindi trapela,
de la cui region passando al centro,
il caratter del suon vi stampa dentro.
16. Concorrono a ciò far d’osso minuto
ed incude, e triangolo, e martello,
e tutti son nel timpano battuto
articolati ed implicati a quello;
ed a quest’opra lor serve d’aiuto
non so s’io deggia dir corda o capello,
sottil così che si distingue a pena
se sia filo o sia nervo, arteria o vena.
17. Vedi quanto impiegò l’Amor superno
in un fragil composto ingegno ed arte
sol per poter del suo diletto eterno
aimen quaggiù communicargii parte!
Ha sotto umane forme alma d’inferno
chi sprezza ingrato il ben, ch’ei gli comparte.
E qui fine al suo dir facondo e saggio
pose degli alti Numi il gran messaggio.
18. Aprir sentissi Adone il cor nel petto,
e gli spirti brillar d’alta allegria,
quando di tanti augei, ch’avean ricetto
in quell’albergo, udì la sinfonia.
Qual vagabondo e libero a diletto
per le siepi e su gli arbori salia.
Qual, perché troppo alzar non si potea,
intorno a Tacque e sovra i fior pascea.
CANTO SETTIMO
3 81
19. Uopo non ha, ch’industre man qui tessa
di ben filato acciar gabbia o voliera
acciò che degli augei la turba in essa
senza poter fuggir stia prigioniera:
spaziosa uccellaia è l’aria istessa,
che fa Ior sempre Autunno e Primavera,
ed a la libertà d’ogni augellino
carcere volontario è il bel giardino.
20. Né rete né cancel rinchiude o serba
il pomposo Fagian, l’umil Pernice.
Il verde Parlator scioglie per l’erba
lingua del sermon nostro imitatrice.
V’ha di zaffiri e porpore superba
la sempiterna e singoiar Fenice.
V'ha quel, che ’n sé sospeso eccelse strade
tenta, e d’aure si nutre, e di rugiade.
21. L’Aquila imperiale il Sol vagheggia,
col rostro il petto il Pelican si fère,
va il Picchio a scosse, e l’Aghiron volteggia,
la Gru le sue falangi ordina in schiere,
lo Smeriglio e ’l Terzuol seguon l’Acceggia,
l’Oche in fila di sé fanno bandiere,
e la Gaza tra lor menando festa
erge la coda, e l’Upupa la cresta.
22. La Colomba or nel nido a covo geme,
or bacia il caro maschio, or tutta sola
rade l’aria con l’ali, or per l’estreme
cime d’un arboscel vola e rivola.
Or col Pavone innamorato insieme
ingemma al Sol la variabil gola,
del cui ricco monil Ciri fiorita
la corona del Vago in parte imita.
LE DELIZIE
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23. E le sovien, mentre dispiega l’ale,
de la leggiadra sua prima sembianza ;
e tra que’ fior, da cui nacque il suo male,
ancor di diportarsi ha per usanza.
Ed or di chi cangiolla in forma tale
rinova più la misera membranza
veggendo in compagnia del caro Adone
la bella Dea del suo dolor cagione.
24. La qual rivolta allora agli arboscelli,
— Odi — gli dice — odi con quanti e quali
motti amorosi, o fior di tutti i belli,
spiegano i più sublimi il canto e Tali:
Amor, ch’alato è pur come gli augelli,
fa che senta ogni augel gli aurati strali.
Il tutto vince alfin questo Tiranno! —
E qui tacendo, ad ascoltar si stanno.
25. Per far distinto al vago stuol che vola
con lingua umana articolar sermone,
maestro qui non si richiede o scola,
qual trovò poi la vanità d’Annone:
ogni semplice accento era parola,
che parlando di Venere e d'Adone,
in spedita favella alto dicea;
« Ecco con l’Idol suo la nostra Dea ».
26. Chiusa tra’ rami d’una quercia antica,
di sua verde magion solinga cella,
la Monichetta de’ Pastori amica
seco invita a cantar la Rondinella.
Orfano tronco in secca piaggia aprica
d’olmo tocco dal Ciel la Tortorella
non cerca no, ma sovra verde pianta
solitaria, non sola, e vive e canta.
CANTO SETTIMO
Saltellando garrisce, e poi s’asconde
il Calderugio in fra i più densi rami.
Seco alterna il Canario, e gli risponde
quasi d’Amor lodando i lacci e gli ami.
Recita versi il Solitario altronde,
e par che '1 Cacciator « perfido! •> chiami.
Fan la Calandra e ’l Verzelin tra loro
e ’l Capinero e ’l Pettirosso un coro.
La Merla nera e ’l Calenzuol dorato
odonsi altrove lusingar l’udito.
La Pispola il Rigogolo ha sfidato,
con l’Ortolan s’è il Beccafico unito.
Contrapunteggian poi da l’altro lato
10 Strillo, e ’l Raperin che sale al dito.
Con questi la Spernuzzola e ’l Frusone,
e lo Sgricciolo ancor vi si frapone.
Con l’Assiuolo il Lugherin si lagna,
col sagace Fringuel lo Storno ingordo.
L’Allodetta la Passera accompagna,
11 Fanello fugace il pigro Tordo.
Straniero augel di selva o di montagna
non s’introduce in sì felice accordo
se (giudice la Dea) non porta in prima
di mille vinti augei la spoglia opima.
Canta tra questi il Musico pennuto,
l’augel che piuma innargentata veste;
quel che con canto mortalmente arguto
suol celebrar l’essequie sue funeste;
quel che con manto candido e canuto
nascose già l’Adultero celeste,
quando da bella Donna e semplicetta
fu la fiamma di Troia in sen concetta.
38 4
LE DELIZIE
31. Del bianco collo il lungo tratto stende,
apre il rostro canoro, e quindi tira
fiato, che mentre invèr le fauci ascende,
per obliquo canal passa e s’aggira.
Serpe la voce tremolante, e rende
mormorio che languisce, e che sospira,
e i gemiti e i sospir profondi e gravi
son ricercate flebili e soavi.
32. Ma sovr’ogni augellin vago e gentile
che più spieghi leggiadro il canto e ’1 volo,
versa il suo spirto tremulo e sottile
la Sirena de’ boschi, il Rossignuolo;
e tempra in guisa il peregrino stile
che par maestro de l’alato stuolo.
In mille fogge il suo cantar distingue
e trasforma una lingua in mille lingue.
33. Udir musico mostro (oh meraviglia),
che s’ode sì, ma si discerne a pena,
come or tronca la voce, or la ripiglia.
or la ferma, or la torce, or scema, or piena,
or la mormora grave, or l'assottiglia,
or fa di dolci groppi ampia catena:
e sempre, o se la sparge, o se l’accoglie,
con egual melodia la lega e scioglie.
34. Oh che vezzose, oh che pietose rime,
lascivetto cantor, compone e detta!
Pria flebilmente il suo lamento esprime,
poi rompe in un sospir la canzonetta.
In tante mute or languido, or sublime
varia stil, pause affrena, e fughe affretta,
ch’imita insieme, e ’nsieme in lui s’ammira,
cetra, flauto, liuto, organo e lira.
CANTO SETTIMO
38.5
35. Fa de la gola lusinghiera e dolce
talor ben lunga articolata scala.
Quinci queU’armonia, che l’aura molce,
ondeggiando per gradi, in alto essala,
e poi ch’alquanto si sostiene e folce,
precipitosa a piombo alfin si cala.
Alzando a piena gorga indi lo scoppio,
forma di trilli un contrapunto doppio.
36. Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra
rapida rota o turbine veloce.
Sembra la lingua, che si volge e vibra,
spada di schermidor destro e feroce.
Se piega e ’ncrespa, o se sospende e libra
in riposati numeri la voce,
spirto il dirai del Ciel, che ’n tanti modi
ligurato e trapunto il canto snodi.
37. Chi crederà, che forze accoglier possa
animetta si picciola cotante ?
e celar tra le vene e dentro Tossa
tanta dolcezza un atomo sonante ?
o ch’altro sia, che da liev’aura mossa
una voce pennuta, un suon volante ?
e vestito di penne un vivo fiato,
una piuma canora, un canto alato?
38. Mercurio allor, che con orecchie fisse
vide Adone ascoltar canto si bello:
— Deh che ti pare — a lui rivolto disse —
de la divinità di quell’augello?
Diresti mai, che tanta lena unisse
in sì poca sostanza un spiritello?
un spiritei, che d’armonia composto
vive in sì anguste viscere nascosto?
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LE DELIZIE
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39. Mirabil arte in ogni sua bell'opra
(ciò negar non si può) mostra Natura ;
ma qual Pittor che ’ngegno e studio scopra
vie più che 'il grande, in picciola figura,
ne le cose talor minime adopra
diligenza maggiore, e maggior cura.
Quest’eccesso però sovra l’usanza
d’ogni altro suo miracolo s’avanza.
40. Di quel canto nel ver miracoloso
una istoria narrar bella ti voglio,
caso in un memorando, e lagrimoso,
da far languir di tenerezza un scoglio.
Sfogava con le corde in suon pietoso
un solitario amante il suo cordoglio.
Tacean le selve, e dal notturno velo
era occupato in ogni parte il cielo.
41. Mentr’addolcia d’Amor l’amaro tosco
col suon, che ’l Sonno istesso intento tenne,
l’innamorato giovane ch’ai bosco,
per involarsi a la città, sen venne,
sentì dal nido suo frondoso e fosco
questo querulo augel batter le penne,
e gemendo accostarsi, ed invaghito
mormorar tra se stesso il suono udito.
4 2 . L’infelice augellin, che sovra un faggio
crasi desto a richiamare il giorno,
e dolcissimamente in suo linguaggio
supplicava l’Aurora a far ritorno,
interromper del bosco ermo e selvaggio
1 secreti silenzii udì dintorno,
e ferir l’aure d’angosciosi accenti
del trafitto d’Amor gli alti lamenti.
CANTO SETTIMO
43. Rapito allora, e provocato insieme
dal suon, che par ch’a sé l’inviti e chiami,
da le cime de l’arbore supreme
scende pian piano in su i più bassi rami;
e ripigliando le cadenze estreme,
quasi ascoltarlo ed emularlo brami,
tanto s’appressa, e vola, e non s’arresta,
ch’alfin viene a posargli in su la testa.
44. Quei che le fila armoniche percote
sente (né lascia l’opra) il lieve peso,
anzi il tenor de le dolenti note
più forte intanto ad iterare ha preso.
E ’l miser Rossignuol quanto più potè
segue suo stile, ad imitarlo inteso.
Quei canta, e nel cantar geme e si lagna,
e questo il canto e ’l gemito accompagna.
45. E quivi l’un su ’l flebile stromento
a raddoppiare i dolorosi versi,
e l'altro a replicar tutto il lamento
come pur del suo duol voglia dolersi,
tenean con l’alternar del bel concento
tutti i lumi celesti a sé conversi,
ed allettavan pigre e taciturne
vie più dolce a dormir l’Ore notturne.
46. Da principio colui sprezzò la pugna,
e volse de l’augel prendersi gioco.
Lievemente a grattar prese con l’ugna
le dolci linee, e poi fermossi un poco.
Aspetta che ’l passaggio al punto giugna
l’altro, e rinforza poi lo spirto fioco,
e di Natura infaticabil mostro
ciò ch’ei fa con la man, rifà col rostro.
3 88
LE DELIZIE
47. Quasi sdegnando il Sonatore arguto
de l’emulazion gli alti contrasti,
e che seco animai tanto minuto
non che concorra, al paragon sovrasti,
comincia a ricercar sovra il liuto
del più diffidi tuon gli ultimi tasti;
e la linguetta garrula e faconda,
ostinata a cantar, sempre il seconda.
48. Arrossisce il maestro, e scorno prende,
che vinto abbia a restar da sì vii cosa.
Volge le chiavi, i nervi tira, e scende
con passata maggior fino a la rosa.
Lo Sfidator non cessa, anzi gli rende
ogni replica sua più vigorosa;
e secondo che l’altro o cala, o cresce,
labirinti di voce implica e mesce.
49. Quei di stupore allor divenne un ghiaccio,
e disse irato: — Io t'ho sofferto un pezzo!
O che tu non farai questa ch’io faccio
o ch’io vinto ti cedo, e ’1 legno spezzo.
Recossi poscia il cavo arnese in braccio,
e come in esso a far gran prove avezzo,
con crome in fuga e sincope a traverso
pose ogni studio a variare il verso.
50. Senz’alcuno intervallo e piglia e lassa
la radice del manico e la cima,
e come il trae la fantasia, s’abbassa,
poi risorge in un punto, e si sublima.
Talor trillando al canto acuto passa,
e col dito maggior tocca la prima.
Talora ancor con gravità profonda
fin de l’ottava in su ’l bordon s’affonda.
CANTO SETTIMO
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51. Vola su per le corde or basso, or alto,
più che l’istesso augel, la man spedita.
Di sù di giù con repentino salto
van balenando le leggiere dita.
D’un fier conflitto e d’un confuso assalto
inimitabilmente i moti imita,
ed agguaglia col suon de’ dolci carmi
i bellicosi strepiti de Tarmi.
52. Timpani e trombe, e tutto ciò che quando
serra in campo le schiere osserva Marte,
i suoi turbini spessi accelerando,
ne la dotta sonata esprime l’arte,
e tuttavia moltiplica sonando
le tempeste de’ groppi in ogni parte;
e mentr’ei l’armonia cosi confonde,
il suo competitor nulla risponde.
53. Poi tace, e vuol veder se l’augelletto
col canto il suon per pareggiarlo adegua.
Raccoglie quello ogni sua forza al petto,
né vuole in guerra tal pace né tregua.
Ma come un debil corpo e pargoletto
esser può mai, ch’un sì gran corso segua ?
Maestria tale, ed artificio tanto
semplice e naturai non cape un canto.
54. Poi che molte e molt'ore ardita e franca
pugnò del pari la canora coppia,
ecco il povero augel, ch’alfin si stanca,
e langue, e sviene, e ’nfievolisce, e scoppia.
Così qual face, che vacilla e manca,
e maggior nel mancar luce raddoppia,
da la lingua, che mai ceder non volse,
il dilicato spirito si sciolse.
LE DELIZIE
55. Le stelle poco dianzi innamorate
di quel soave e dilettevol canto,
fuggir piangendo, e da le logge aurate
s’affacciò l’Alba, e venne il Sole intanto.
Il Musico gentil per gran piotate
l'estinto corpicei lavò col pianto,
ed accusò con lagrime e querele
non men se stesso, che ’l destin crudele.
56. Ed ammirando il generoso ingegno,
Un negli aliti estremi invitto e forte,
nel cavo ventre del sonoro legno
il volse sepelir dopo la morte.
Né dar potea sepolcro unqua più degno
a sì nobil cadavere la Sorte.
Poi con le penne de l’augello istesso
vi scrisse di sua man tutto il successo.
57. Ma chi fu che l’instrusse? il mastro vero
(non so se ’l sai) fu di quest'arte Amore.
Egli insegnò la Musica primiero,
ei fu de’ dolci numeri l’autore,
e del soave ordigno e lusinghiero
volse le corde nominar dal core.
Oh che strana armonia dolce ed amara
ne la sua scola un cor ferito impara!
58. Dica costei che ’l sa, costei che ’l sente,
di questa invenzi'on l’origin vera,
fa’ che l’istesso Amor, ch’è qui presente,
ti narri onde l’apprese, e ’n qual maniera.
Contan ch’un dì ne la fucina ardente,
che d’Etna alluma la spelonca nera,
dove alternano i fabri i colpi in terzo,
l’ingegnoso fanciullo entrò per scherzo.
CANTO SETTIMO
391
59. Ed osservando de’ martelli i suoni
librati in su l’ancudini percosse,
le cui battute a tempo a tempo, e i tuoni
facean parer ch’un bel concerto fosse,
le regole non note, e le ragioni
de le misure a specolar si mosse,
e con stupor del padre e de’ ministri
gl’intervalli trovò de’ bei registri.
60. De la prim'opra il semplice lavoro
fu roza alquanto e maltemprata cetra,
e da compor quell’organo sonoro
la materia gli diè l’aurea faretra.
Per fabricarne le chiavette d’oro
ruppe lo strai, che rompe anco la pietra.
L’arco proprio adoprò d’archetto in vece,
e de la corda sua le corde fece.
61. Apollo il dotto Dio, meglio dispose
l’ordine poi de’ tasti e de’ concenti;
ed io, che vago son di nove cose,
novi studi mostrai quindi a le genti,
e ’n più forme leggiadre e dilettose
d'inventar m’ingegnai vari stranienti,
onde certa e perfetta alfin ne nacque
la bella facoltà che tanto piacque.
62. Piace a ciascun, ma più ch’agli altri piace
agl’inquieti e travagliati amanti,
né trova altro refugio, ed altra pace
un tormentato cor, che suoni e canti.
Egli è ben ver, che ’l suono è sì efficace
che provoca talor sospiri e pianti :
e i duo contrari estremi in guisa ha misti
che rallegra gli allegri, attrista i tristi. —
LE DELIZIE
392
63. Qui tacque il gran Corrier che porta alato
in man lo scettro e di due serpi attorto,
perché mentre Ch’Adone innamorato
per l’ameno giardin mena a diporto,
venir non lunge per l’erboso prato
d’uomini e donne un bel drappello ha scorto,
e due Ninfe di vista assai gioliva
come capi guidar la comitiva.
64. Mostra ignudo il bel seno una di queste,
e tremanti di latte ha le mammelle,
verdeggiante ghirlanda, azurra veste,
ed ali, onde talor vola a le stelle.
Trombe, cetre, sampogne un stuol celeste
di fanciulli le porta, e di donzelle.
Ne la destra sostien scettro d’alloro,
stringe con l’altra man volume d'oro.
65. Di costei la compagna ha di fioretti
amorosi e leggiadri i crini aspersi,
varia la gonna, in cui di vari aspetti
e chiavi e note ha figurate, e versi.
Dietro le tranno ancor ninfe e valletti
misure, e pesi, ed organi diversi,
musici libri, e con ballorie e canti
di vermiglio Lieo vasi spumanti.
66. Soggiunse allor Mercurio: — Ecco di due
Suore d’un parto inclita coppia e degna,
degna non dico de l’orecchie tue,
ma del gran Re che su le stelle regna.
La prima ha del divin ne l’opre sue,
l’altra di secondarla anco s’ingegna,
e con stupore e con diletto immenso
l una attrae l’intelletto, e l’altra il senso.
CANTO SETTIMO
3 <33
67. Quella ch’innanzi alquanto a noi s’appressa,
e più nobil rassembra agli occhi miei,
se ben ritrovatrice è per se stessa,
e l’arte del crear trae dagli Dei,
con la cara gemella è sì connessa
ch’i ritmi apprende a misurar da lei,
e da lei, che le cede, e le vien dietro,
prende le fughe e le posate al metro.
68. Colei però, che accompagnar la suole,
ha de l’aiuto suo bisogno anch’ella,
né sa spiegar, se si rallegra o dole,
se non le passìon de la sorella.
Da lei gli accenti impara e le parole,
da lei distinta a scioglier la favella.
Senza lei fora un suon senza concetto,
priva di grazia, e povera d’affetto.
69. Per queste lor reciproche vicende
sempre unite ambedue n’andranno al paro,
e con quel lume, onde virtù risplende,
risplenderan nel secolo più chiaro.
I primi raggi lor la Grecia attende,
cui promette ogni grazia il Cielo avaro,
la Grecia, in cui per molti e molti lustri
le terranno in onor Spiriti illustri.
70. Col tempo poi diverran gioco e preda
e de le genti barbare e degli anni :
colpa di Marte, a cui convien che ceda
ogni arte egregia, e colpa de’ Tiranni.
Sola l’Italia alftn fia che possieda
qualche reliquia degli antichi danni,
ma la bella però luce primiera
si smarrirà de la scienza vera.
394
LE DELIZIE
71. Ben ch’alloggino or qui le mie dilette,
non son già queste le lor stanze usate.
Là nel mio Ciel con altre giovinette
abitan, come Dee, sempre beate.
Se mai lassù venir ti si permette,
ti mostrerò gli alberghi ove son nate.
Qui con Amore a trastullarsi intente
da l’eterna magion scendon sovente. —
72. Vennero al vago Adon strette per mano
tutte festa il sembiante e foco il volto
queste due belle, e con parlar umano
poi che 'n schiera tra lor l’ebbero accolto,
n’andaro, ove s’aprì nel verde piano
di lieta gente un largo cerchio e folto,
ch’invitandolo seco al bel soggiorno
gli fe’ corona, anzi teatro intorno.
73. Non so se vere o vane, avean sembianze
tutti di damigelle e di garzoni.
Alternavan costor mute e mutanze,
raddoppiavan correnti e ripoloni,
lascivamente a le festive danze
dolci i canti accordando, ai canti i suoni.
Cetre, e salteri, e crotali, e taballi
ivan partendo in più partite i balli.
74. Forati bossi e concavi oricalchi,
e rauche pive e pifferi tremanti
mostrano altrui come il terren si calchi
regolando con legge i passi erranti.
Per l’ampie logge e su i fioriti palchi
miransi cori di felici amanti
tagliar canari, essercitar gagliarde,
menar pavane, ed agitar nizzarde.
CANTO SETTIMO
395
75. Precede lor la prima coppia, e questa
con piante maestrevoli e leggiere
guidatrice del ballo e de la festa
carolando sen va fra quelle schiere,
sì gaia in vista, e sovra’ piè sì presta,
che forse al suon de le rotanti sfere
soglion lassù men rapide e men belle
per le piazze del Ciel danzar le stelle.
76. Dicean tutti cantando: — O Dea beata,
o bella universal madre e nutrice,
con l’istessa Natura a un parto nata,
di quanto nasce originai radice,
per cui genera al mondo, e generata
ogni stirpe mortai vive felice;
felice teco in queste rive arrivi
quella beltà, per cui felici vivi.
77. Al tuo cenno le Parche ubbidienti
tiran le fila in vari stami ordite.
Dal tuo consiglio, in tua virtù crescenti
Natura impara a seminar le vite.
Per legge tua di sfere e d’elementi
stansi le tempre in bel legame unite.
Se non spirasse il tuo spirto fecondo,
i nodi suoi rallenterebbe il mondo.
78. Tu Ciel, tu terra, e tu conservi e folci
fiori, erbe, piante, e ne le piante il frutto.
Tu crei, tu reggi, e tu ristori e molci
uomini, e fere, e l’Universo tutto,
che senza i doni tuoi giocondi e dolci
solitario per sé fora, e distrutto;
ma mentre stato varia, e stile alterna,
la tua mercede, il suo caduco eterna.
396
LE DELIZIE
79. Lumiera bella, che con luce lieta
de le tenebre umane il fosco allumi,
da cui nasce gentil fiamma secreta,
fiamma, onde i cori accendi e non consumi :
d’ogni mortai benefattor Pianeta,
gloria immortai de’ più benigni Numi,
ch’altro non vuoi ch’a prò di chi l’ottiene
godere il bello, e possedere il bene.
So. Commessura d’Amor, Virtù ch’innesti
con saldi groppi di concordi amplessi
e le cose terrene, e le celesti,
e supponi al tuo fren gli Abissi istessi:
per cui con fertil copula contesti
vicendevol desio stringe duo sessi,
sì che, mentre l’un dona, e l’altro prende,
il cambio del piacer si toglie e rende. —
81. Con quest’inno devoto e questo canto
venne la turba a venerar la Dea
ballando sempre: e fatto pausa alquanto
al concerto dolcissimo, tacea.
Con Mercurio ed Amore Adone intanto
e con Venere altrove il piè movea,
quand’ecco a sé con non minor diletto
novello il trasse e disusato oggetto.
82. Un fiore, un fiore apre la buccia, e figlia,
ed è suo parto un biondo crin disciolto,
e dopo ’l crin con due serene ciglia
ecco una fronte, e con la fronte un volto.
Al principio però non ben somiglia
il mezo e ’l fin, ma differente è molto.
Vedesi a la beltà, che quindi spunta,
forma di stranio augello esser congiunta.
CANTO SETTIMO
397
83. Tosto che ’n luce a poco a poco uscio
quel fantastico mostro a l’improviso,
non sorse in piè, ma del suo fior natio
restò tra l’erbe e tra le foglie assiso.
Occhio ha ridente, atto benigno e pio,
ha feminile e giovenile il viso.
Veston le spalle e ’l sen penne stellate,
fregian le gambe e i piè scaglie dorate.
84. Serpentina la coda al ventre ha chiusa,
lunata, e qual d'Arpia, l’unghia pungente.
Cela un amo tra’ fiori, onde delusa
tira l’incauta e semplicetta gente.
Tien di nèttare e mèl la lingua infusa,
che persuade altrui soavemente.
Così la bella Fera i sensi alletta,
Fera gentil, che la Lusinga è detta.
85. La Lusinga è costei. Lunge fuggite
o di falso piacer folli seguaci.
Non ha Sfinge o Sirena o più mentite
parolette e sembianze, o più sagaci.
Copron perfide insidie, aspre ferite
abbracciamenti adulatori, e baci.
Vipera e Scorpion, con arti infide
baciando morde, ed abbracciando uccide.
86. La chioma intanto, che ’n bei nodi involta
stringon con ricche fasce auree catene,
dal career suo disprigionata e sciolta
su per le membra a sviluppar si viene;
la qual può, tanto è lunga, e tanto è folta,
le laidezze del corpo adombrar bene;
sì che sotto le crespe aurate e bionde
tutti ì difetti inferiori asconde.
393
LE DELIZIE
87. De l’altrui vista, insidiosa e vaga,
ella o che non s’avide, o che s’infinse;
indi la voce incantatrice e maga
in note più ch’angeliche distinse:
note in cui per far dolce incendio e piaga
Amor le faci e le quadrella intinse.
Uscir dolce tremanti udiansi fuori
i misurati numeri canori.
88 . Tal forse intenerir col dolce canto
suol la bella Adriana i duri affetti,
e con la voce e con la vista intanto
gir per due strade a saettare i petti.
E 'n tal guisa Fiorinda udisti, o Manto,
là ne’ teatri de’ tuoi regii tetti
d’Arianna spiegar gli aspri martiri,
e trar da mille cor mille sospiri.
89. Fermaro il corso i fiumi, il volo i venti,
e gli augelletti al suo cantar le penne.
Fuggì l’arbor di Dafni i bei concenti,
ché del canto d’Apollo a lei sovenne.
Apollo istesso i corridori ardenti,
vinto d’alta dolcezza, a fren ritenne.
E queste fur le lusinghiere e scòrte
voci, ov’accolta in aura era la morte:
90. — Voi che scherzando gite, Anime liete,
per la stagion ridente e giovenile,
cogliete con man provida cogliete
fresca la rosa in su l’aprir d’Aprile,
pria che quel foco, che negli occhi avete,
freddo ghiaccio divegna, e cener vile,
pria che caggian le perle al dolce riso,
e com’è crespo il crin, sia crespo il viso.
CANTO SETTIMO
399
gì. Un lampo è la beltà, l’etate un’ombra,
né sa fermar l’irreparabil fuga.
Tosto le pompe di Xatura ingombra
invida piuma, ingiuriosa ruga.
Rapido il Tempo si dilegua e sgombra,
cangia il pel, gli occhi oscura, il sangue asciuga.
Amor non men di lui veloci ha i vanni,
fugge co’ fior del volto il fior degli anni.
92. De’ lieti di la Primavera è breve,
né si racquista mai gioia perduta.
Vien dopo ’l verde con piè tardo e greve
la Penitenza squallida e canuta.
Dove spuntava il fior, fiocca la neve,
e colori e pensier trasforma e muta,
sì ch’uom freddo in Amor quelle pruine,
ch’ebbe dianzi nel core, ha poi nel crine.
93. Saggio colui, ch’entro un bel seno accolto
gode il frutto del ben che gli è concesso.
Ed oh stolto quel cor, né men che stolto
crudo, né men ch’altrui, crudo a se stesso,
cui quel piacer per propria colpa è tolto,
che vien sì raro, e si desia sì spesso.
Anima in cui d’Amor cura non regna,
o che non vive, o ch’è di vita indegna. —
94. Cigno che canti, Rossignuol che plori,
Musa o Sirena che d’Amor sospiri,
aura o ruscel che mormori tra’ fiori,
Angel che mova il plettro, o Ciel che giri,
non di tanta dolcezza innebria i cori,
lega i sensi talor, pasce i desiri,
con quanta la mirabile armonia
per l’orecchie al Garzone il cor feria.
400
LE DELIZIE
95. Sparse vive faville in ogni vena
gli avea già quella insolita beltade,
quando un raggio di Sol toccolla a pena,
che la disfece in tenere rugiade.
Oh diletto mortai, gioia terrena,
come pullula tosto, e tosto cade!
Vano piacer, che gli animi trastulla,
nato di vanità, svanisce in nulla.
96. In questo mentre a più secreto soglie
già s'apre Adon con la sua bella il varco.
Già di candido avorio uscio l’accoglie,
c'ha di schietto rubin cornice ed arco.
Tien di frutti diversi e fronde e foglie
il ministro che '1 guarda un cesto carco.
Fan de’ sapori, ond’egli ha il grembo onusto,
una Scinda ed un Orso arbitro il gusto.
97. Questi guidando Adon di loggia in loggia,
in una selva sua fa che riesca.
Fiangon quivi le fronde, e stillan pioggia
di celeste licor soave e fresca:
onde l’augel, che tra’ bei rami alloggia,
in un tronco medesmo ha nido ed ésca;
t-d a la cara sua prole felice
quella pianta ch’è culla, anco è nutrice.
98. Con certa legge e sempr’egual misura
qui tempra i giorni il gran Rettor del lume.
Non v’alterna già mai tenor Natura,
né con sue veci il Sol varia costume.
Ma fa con soavissima mistura
gli ardori algenti, e tepide le brume.
Sparsa il bel volto di sereno eterno
ride la State, e si marita al Verno.
CANTO SETTIMO
4OT
99. In ogni tempo, e non arato o culto,
meraviglie il terren produce e serba,
e nel prato nutrisce e nel virgulto
la matura stagion mista a l'acerba;
perché l’anno fanciullo e ’nsieme adulto
dona il frutto a la pianta, il fiore a l’erba;
tal che congiunto il tenero al virile
lussuria Ottobre, e pargoleggia Aprile.
100. Di fronde sempre tenere e novelle
l’orno, l’alno, la quercia il ciel ingombra;
piante sterili sì, ma grandi e belle,
di frutto in vece han la bellezza e l’ombra.
L’allòr non più fugace, opache celle
tesse di rami, e ’n guisa il prato adombra
che per dar agli Amori albergo ed agio
par voglia d’arboscel farsi palagio.
101. Vi fan vaghe spalliere ombrosi e folti
tra purpurei rosai verdi mirteti.
Quasi per mano stretti e ’n danza accolti
ginebri e faggi, e platani ed abeti
si condensan così, ch’ordiscon molti
labirinti e ricovri ermi e secreti;
né Febo il crin, se non talor, v’asconde,
quando l’aura per scherzo apre le fronde.
102. Trionfante la Palma in fra lo spesso
popolo de le piante il capo estolle.
Piramide de’ boschi, alto il Cipresso
signoreggia la valle, agguaglia il colle.
Umidetto d’ambrosia il Fico anch’esso
mostra il suo frutto rugiadoso e molle,
che piangendo si sta tra foglia e foglia
chino la fronte, e lacero la spoglia.
26
LE DELIZIE
402
103. Da la madre ritorta e pampinosa
pende la dolce e colorita figlia,
parte fra’ tralci e fra le foglie ascosa,
parte dal Sole il nutrimento piglia.
Altra di color d’oro, altra di rosa,
altra più bruna, ed altra più vermiglia.
Qual acerba ha la scorza, e qual matura,
qual comincia pian piano a farsi oscura.
104. Scopre il Punico stelo il bel tesoro
degli aurei pomi di rossor dipinti.
Apre un dolce sorriso i grani loro
ne’ cavi alberghi in ordine distinti;
onde fa scintillar dal guscio d’oro
molli rubini, e teneri giacinti,
e quasi in picciol’Iride, commisti
sardonici, baiassi, ed ametisti.
103. Nutre il Sussin tra questi anco i suoi parti,
altri obliqui ne forma, altri ritondi,
quai di stilli' di porpora consparti,
quai d’eben negri, e quai più ch’ambra biond
Men pigro il Moro in sì beate parti
al verme Serican serba le frondi.
Havvi il Mandorlo aprico, ed havvi il Pome
che trae di Persia il suo legnaggio e ’l nome.
106. A l’opra naturai cultrice mano
con innesti ingegnosi aggiunse pregio,
indolcì l’aspro, incivilì l’estrano,
ornò ’l natio di peregrino fregio.
Congiunto al Cornio suo minor germano
fiammeggia il soavissimo Ciregio.
Nasce l’uva dal sorbo, ed adottato
da l’Arancio purpureo è il Cedro aurato.
CANTO SETTIMO
4°3
107. Anzi, virtù d’Amor vie più che d’Arte,
la men pura sostanza indi rimossa,
perché perfetta il frutto abbia ogni parte,
fa che le polpe sue nascan senz’ossa;
e tanto in lor di suo vigor comparte
che ciascun d’essi oltremisura ingrossa.
Il Pero, il Prun prodigioso, e ’l Pesco
vive in ogni stagion maturo e fresco.
108. Mostrando il cor fin ne le foglie espresso
preme il tronco fedel l’Edra brancuta.
Stringe il marito, e gli s’appoggia appresso
la Vite, onde la vita è sostenuta.
Vibra nel gelo Amor, nel vento istesso
la face ardente, e la saetta acuta.
L’acque accese d’Amor bacian le sponde,
e discorron d’Amor 1 ’aure e le fronde.
109. Tra que’ frondosi arbusti Adon sen varca,
e co’ Numi compagni oltre camina,
dove ogni pianta i verdi rami inarca,
quasi voglia abbracciar chi s’avicina;
e di frutti e di fior già mai non scarca,
e del bel peso prodiga, s’inchina.
Piove nèttar l’Olivo, e l’Elce manna,
mèle la Quercia, e zucchero la Canna.
110. Qui son di Bacco le feconde vigne,
dove in pioggia stillante il vin si sugge.
Di candid’uve onusta e di sanguigne
quivi ogni vite si diffonde e strugge;
le cui radici intorno irriga e cigne
di puro mosto un fiumicel che fugge.
Scorre il mosto da l’uve e da le foglie,
e ’n vermiglio ruscel tutto s’accoglie.
LE DELIZIE
4°4
in. S’accoglie in rivi il dolce umore, e ’n fiume
a poco a poco accumulato cresce,
e nutre a sé tra le purpuree spume
di color, di sapor simile il pesce.
Folle chi questo o quel gustar presume,
ché per gran gioia di se stesso n’esce:
ride, e ’1 suo riso è sì possente e forte,
che la letizia alfin termina in morte.
112. Arbori estrane qui (se prestar fede
lice a tanto portento) esser si scrive
Spunta con torto e noderoso piede
il tronco inferior sovra le rive:
ma da la forca in sù quel che si vede
ha forma e qualità di donne vive.
Son viticci le chiome, e i diti estremi
figliano tralci, e gettano racemi.
113. Dafni o Siringa tal fors’esser debbe
in riva di Ladone o di Peneo
quando l’una a Thessaglia e l’altra accrebbe
nova verdura ai boschi di Liceo.
Forse in forma sì fatta a mirar ebbe
sue figlie il Po nel caso acerbo e reo
quando a spegner le fiamme entro il suo fonte,
sinistrando il sentier, venne Fetonte.
114. Sotto le scorze ruvide ed alpestre
sentesi palpitar spirto selvaggio.
Soglion ridendo altrui porger le destre
e s’odon favellar greco linguaggio.
Ma che frutto si colga o fior silvestre
non senza alto dolor soffron l’oltraggio.
Bacian talor, lusingatrici oscene:
ma chi gusta i lor baci ebro diviene.
CANTO SETTIMO
4°5
115. Con pampinosi e teneri legami
stringono ad or ad or quel Fauno e questo,
che non potendo poi staccar da’ rami
la parte genital, fanno un innesto.
Fansi una specie istessa, e di fogliami
veston le braccia e divien sterpo il resto,
verdeggia il crine, e con le barbe in terra
indivisibilmente il piè s’afferra.
116. Quanti favoleggiò Numi profani
l'etate antica, han quivi i lor soggiorni.
Lari, Sileni, e Semicapri, e Pani,
la man di tirso, il crin di vite adorni,
Genii salaci e rustici Silvani,
Fauni saltanti e Satiri bicorni,
e di ferule verdi ombrosi i capi
senza fren, senza vel Bacchi e Priapi.
117. E Menadi e Bassaridi vi scemi
ebre pur sempre, e sempre a bere acconce,
eh'intente or di Latini, or di Falerni
a votar tazze, ed asciugar bigonce,
ed agitate da’ furori interni
rotando i membri in sozze guise e sconce,
celebran l’Orgie lor con queste o tali
Fescennine canzoni e Baccanali:
118. — Or d’ellera s’adornino e di pampino
i Giovani, e le Vergini più tenere,
e gemina ne l’anima si stampino
l'imagine di Libero e di Venere.
Tutti ardano, s’accendano, ed avampino
qual Semele, ch’ai folgore fu cenere:
e cantino a Cupidine ed a Bromio
con numeri poetici un encomio.
qo6
LE DELIZIE
iiq. La cetera col crotalo e con l’organo
su i margini del pascolo odorifero,
il cembalo e la fistula si scòrgano
col zuffolo, col timpano, e col pifero;
e giubilo festevole a lei porgano,
ch’or Hespero si nomina, or Lucifero;
ed empiano con musica che crepiti
quest’isola di fremiti e di strepiti.
120. I Satiri con cantici e con frottole
tracannino di nèttare un diluvio.
Trabocchino di lagrima le ciottole
che stillano Pausilipo e Vesuvio.
Sien cariche di fescine le grottole,
e versino dolcissimo profluvio.
Tra frassini, tra platani, e tra salici
esprimansi de’ grappoli ne’ calici.
121. Chi cupido è di suggere l’amabile
del balsamo aromatico e del pevere,
non mescoli il carbuncolo potabile
col ICnodano, con l'Adige, o col Tevere,
ch’è perfido, sacrilego, e dannabile,
e gocciola non merita di bevere,
ehi tempera, chi ’ntorbida, chi ’ncorpora
co’ rivoli il crisolito e la porpora.
122. Ma guardinsi gli spiriti che fumano,
non facciano del cantaro alcun strazio,
e Canfore non rompano, che spumano,
già gravide di liquido topazio;
che gli uomini ir in estasi costumano,
e s’àltera ogni stomaco ch’è sazio;
e ’l cerebro, che fervido lussuria,
più d’Hercole con impeto s’infuria. —
CANTO SETTIMO
4°7
123. Mentr’elle ivan così con canti e balli
alternando Evoè giolive e liete,
intente tuttavia negl’intervalli,
sgonfiando gli otri, ad innaffiar la sete:
passando Adon di queU’amene valli
ne le più chiuse viscere secrete,
trovò morbida mensa, ed apprestati
erano intorno al desco i seggi aurati.
124. — Qui, bellissimo Adon, depor conviensi
ricominciò Cillenio — ogni altra cura.
Col ristoro del cibo uopo è che pensi
di risarcir, di rinforzar Natura.
E poi che ciascun già degli altri sensi
in queste liete piagge ebbe pastura,
vuoisi il Gusto appagar, però che tocca
del diletto la parte anco a la bocca.
125. La bocca è ver, che de human sermone
(solo ufficio de l’uomo) è nunzia prima.
Concetto alcun non sa spiegar ragione,
che per lei non si scopra e non s’esprima :
Interprete divin, per cui s’espone
quanto nel petto altrui vuol che s’imprima
(e la voce è di ciò mezana ancella)
l’intelletto e ’l pensier di chi favella.
126. Ma serve ancora ad operar, che cresca
l’interno umor, né per ardor s’estingua;
a cui quando talor cibo rinfresca
fa credenziera e giudice la lingua;
né per la gola mai passa alcun’ésca,
ch’ivi prima il sapor non si distingua.
Fatto il saggio ch'ell’ha d’ogni vivanda,
in deposito al ventre alfin la manda.
LE DELIZIE
408
127. E perché l’uom, ch’a le fatiche è lento,
ne l’operazion mai non si stanchi,
e non pascendo il naturai talento,
l'individuo mortai si strugga e manchi;
vuol chi tutto creò, che l’alimento
non sia senza il piacer, che lo rinfranchi,
onde questo con quel sempre congiunto
abbia a nutrirlo, e dilettarlo a un punto.
128. Notasti mai da quante guardie e quali
sia la Lingua difesa e custodita?
Perché da’ soffi gelidi brumali
del nevoso Aquilon non sia ferita,
quasi di torri, o pur d’antemurali
coronata è per tutto, e ben munita.
E perch’altro furor non la combatta,
sotto concavo tetto il corpo appiatta.
129. Da le fauci al palato in alto ascende,
quanto basta e convien, polputa e grossa.
Larga ha la base, e quanto più si stende
s’aguzza in cima, ed è spugnosa c rossa.
Ha la radice, onde deriva e pende,
forte, perch’aggirar meglio si possa.
Volubilmente si ripiega e vibra,
muscolosa, nervosa, e senza fibra.
130. Dico così, che ’l Facitor sovrano
cotale ad altro fin non la costrusse,
se non perché del nutrimento umano,
che dal gusto provien, stromento fusse;
senza il qual uso, inutil fora e vano
quanto di dolce al mondo egli produsse.
E questa del tuo cor fiamma immortale
senza Cerere e Bacco è fredda e frale.
CANTO SETTIMO
4°9
131. Così parla il Signor de l'eloquenza,
indi per mano il vago Adon conduce
là dove pompa di reai credenza
veste i selvaggi orror di ricca luce.
Con bell’arte disposto e diligenza
l’oro e l’elettro in ordine riluce.
Di materia miglior poi vi si squadra
d’altre vasella ancor serie leggiadra.
132. Ma duo fra gli altri di maggior misura
d’un intero smeraldo Adon ne vide,
gemma d’Amor, che cede, e non s’indura
a lo scarpello, e col bel verde ride.
Non so se di sì nobile scultura
oggi alcun’opra il gran Bologna incide,
che i bei rilievi, e i dilicati intagli
qui da Dedalo fatti, in parte agguagli.
133. In un de’ vasi il simulacro altero
de la Diva del loco è sculto e finto,
ma sì sembiante è il simulato al vero,
che Tesser dal parer quasi n’è vinto.
11 sanguigno concetto, e ’l suo primiero
fortunato natal v’appar distinto.
Miracolo a veder, come pria nacque,
genitrice d’Amor, figlia de Tacque.
134. Saturno v’è, ch’ai proprio padre tronca
Toscene membra, e dàlie in preda a Dori.
Dori l’accoglie in cristallina conca,
fatta nutrice de’ nascenti ardori.
Zefiro v’è, che fuor di sua spelonca
batte Tali dipinte a più colori;
e del parto gentil ministro fido
sospinge il flutto leggiermente al lido.
410
LE DELIZIE
135. Vedresti per lo liquido elemento
nuotar la spuma gravida e feconda,
poscia in oro cangiarsi il molle argento
e farsi chioma innanellata e bionda.
La bionda chioma incatenando il vento
serpeggia e si rincrespa, emula a l’onda.
Ecco spunta la fronte a poco a poco,
già Tacque a’ duo begli occhi ardon di foco.
136. Oh meraviglia, e trasformar si scorge
in bianche membra alfin la bianca spuma!
Xovo Sol da l’Egeo si leva e sorge,
che ’l mar tranquilla, e l’aria intorno alluma :
Sol di beltà, ch'altrui conforto porge,
e dolcemente l’anime consuma.
Così Venere bella al mondo nasce,
un bel nicchio ha per cuna, alghe per fasce.
137. Mentre col piè rosato e rugiadoso
il vertice del mar calca sublime,
e con l’eburnea man del flutto ondoso
da Lauree trecce il salso umor s esprime,
gli abitator del pelago spumoso
lascian le case lor palustri ed ime,
e fan seguendo il lor ceruleo Duce
festivi ossequii a l'amorosa luce.
138. Palemon d’un Delfino il curvo tergo
preme vezzoso e pargoletto Auriga,
e balestrando un fuggitivo mergo,
fende i solchi del mar per torta riga.
Quanti Tritoni han sotto Tonde albergo,
altri accoppiati in mansueta biga
tiran pian pian la conca ov’ella nacque,
altri per altro affar travaglian Tacque.
CANTO SETTIMO
4 11
139. Chi de l’obliquo corno a gonfie gote
fa buccinar la rauca voce al cielo.
Chi per sottrarla al Sol che la percote
le stende intorno al crin serico velo.
Chi volteggiando con lascive rote
le regge innanzi adamantino gelo,
e perché solo in sua beltà s’appaghi,
ne fa lucido specchio agli occhi vaghi.
140. Né di scherzar anch’elle in fra costoro
del gran Padre Nereo lascian le figlie,
ch’accolte in lieto e sollazzevol coro
cantano a suon di pettini e cocchiglie ;
e porgendo le van succino ed oro,
candide perle, e porpore vermiglie.
Sì fatto stuol per l’umida campagna
la riceve, la guida, e l’accompagna.
141. Ne l’altro vaso, del suo figlio Amore
il nascimento effigiato splende.
Già la vedi languir, mentre che l'ore
vicine ornai del dolce parto attende,
ne la bella stagion, quand’entra in fiore
la terra, e novell’abito riprende.
Par che l’Alba oltre l’uso apra giocondo
il primo dì del più bel mese al mondo.
142. Sovra molli origlieri e verdi seggi
la bella Dea per partorir si posa.
Par che rida la riva, e che rosseggi
presso il musco fiorito Indica rosa.
Par che l’onda di Cipro a pena ondeggi,
danzano i pesci in su la sponda erbosa.
Con pacifiche arene ed acque chiare
par senza flutto e senza moto il mare.
4 12
LE DELIZIE
143. Per non farsi importuni i Zefiretti
a quelle dolcemente amare doglie,
stansi a dormir, quasi in purpurei letti,
de’ vicini roseti in fra le foglie.
Colgon l'aure lascive odori eletti
per irrigar le rugiadose spoglie,
spoglie bagnate di celeste sangue,
dove tanta beltà sospira c langue.
144. Pria che gli occhi apra al Sol, le labra al latte,
per le viscere anguste Amor saltante
precorre l’ora impetuoso, e batte
il sen materno con feroci piante:
e del ventre divin le porte intatte
s’apre e prorompe intempestivo infante.
Senza mano ostetrice ecco vien fuori,
ed ha fasce le fronde, e cuna i fiori.
145. Fuor del candido grembo a pena esposto,
le guizza in braccio, indi la stringe e tocca.
Pigolando vagisce, e corre tosto
su 1 urna metuca a conficcar la bocca.
Stillan le Grazie il latte, ed è composto
di mèl, qual più soave Hibla mai fiocca.
Parte alternando ancor balia e mammelle,
da le Tigri è lattato, e da l’Agnelle.
146. Stame eterno al bambin le Filatrici
d’ogm vita mortai tiran cantando.
Van mansuete in su que’ campi aprici
le Fere più terribili baccando.
Tresca il Leone, e con ruggiti amici
il vezzoso Torel lecca scherzando.
E con l’unghia sonora e col nitrito
lieto applaude il Destriero al suo vagito.
CANTO SETTIMO
4M
147. Bacia l’Agnel con innocente morso
acceso il Lupo d’amorosa fiamma.
La Lepre il Cane abbraccia, e l’ispid’Orso
la Giovenca si tien sotto la mamma.
L’aspra Pantera in su ’l vergato dorso
gode portar la semplicetta Damma.
E toccar il Dragon, ben che pungente,
del nemico Elefante ardisce il dente.
148. Mirasi Citherea che gli amorosi
scherzi ferini di mirar s’appaga,
e ride ch’animai tanto orgogliosi
sentan per un fanciullo incendio e piaga.
Par che sol del Cinghiai mirar non osi
gioco, festa o piacer, quasi presaga,
presaga che per lui tronca una vita,
ogni delizia sua le fìa rapita.
149. 'fai de’ vasi è il lavoro. Amor s’appiglia
a la maggior de le gemmate coppe,
poscia di quello stuol, che rassomiglia
le Semidee che si cangiaro in Pioppe,
per farne scaturir pioggia vermiglia
ad una con lo strai svena le poppe,
e fa che dal bel sen per cento spilli
odorato licor dentro vi stilli.
150. E tre volte ripiena, ad una ad una
tutte sorbille e propinò ridendo.
JNe bebbe una a Mercurio, a Vener una,
una a colui che la distrugge ardendo.
Così a ciascun ne dedicò ciascuna:
la prima a la Salute offrì bevendo,
l’altro vaso di vin colmo e spumoso
diede al Piacere, e l’ultimo al Riposo.
4M
LE DELIZIE
151. Cento Ninfe leggiadre e cento Amori,
cento Fauni ne l’opra abili e destri
quinci e quindi portando e frutti e fiori
son de la bella imbandigion maestri.
Qui con purpurea man Zefiro e Clori
votan di gigli e rose ampi canestri.
Là Pomona e Yertunno han colmi e pieni
de' lor doni maturi i cesti e i seni.
1 j2. Natura de le cose è dispensiera,
l’Arte condisce quel ch'ella dispensa.
Versa Amalthea, che n'è la Vivandiera,
del ricco corno suo la copia immensa.
Havvi le Grazie amorosette in schiera,
e loro ufficio è rassettar la mensa ;
e vigilante in fra i ministri accorti
1! robusto Custode havvi degli orti.
153. Og™ sergente a prova, ed ogni serva
le portate apparecchia, e le vivande.
Altri di man d’Aracne e di Minerva
su i tronchi e per lo suol cortine spande.
Altri le tazze, acciò che Bacco ferva,
corona d’odorifere ghirlande.
Chi stende in su i tapeti 1 bianchi drappi,
chi vi pon gli aurei piatti, e gli aurei nappi.
154. Così per Hibla a la novella estate
squadra di diligenti api si vede,
che le lagrime dolci e dilicate
di Narciso e d’Aiace a sugger riede.
Poi ne le bianche celle edificate
vanno a ripor le rugiadose prede.
Altra a comporre il favo, ed altra schiera
studia dal mèle a separar la cera.
CANTO SETTIMO
415
155. È tutta in moto la famiglia, or vanno
quei che curano il pasto, or fan ritorno.
Alcuni Amori a ventilar vi stanno
con ali aperte, e sferzan l'aure intorno.
Le quattro figlie del fruttifer Anno
per far in tutto il bel convito adorno
recan d’ogni stagion tributi eletti,
e son diverse d’abiti e d’aspetti.
156. Ingombra una di lor di fosco velo
la negra fronte e la nevosa testa.
Di condensato e cristallino gelo
stringe l’umido crin fascia contesta.
Qual nubiloso e folgorante cielo
minaccia il ciglio torbida tempesta
Copre il rugoso sen neve canuta,
calza il gelido piè grandine acuta.
157. Altra spirando ognor fecondo fiato
ride con giovenil faccia serena.
Un fiorito legame ed odorato
la sparsa chioma e rugiadosa affrena.
La sua vesta è cangiante, e variato
Iri di color tanti ha il velo a pena.
Va di verde cappello il capo ombrosa,
nel cui vago frontal s’apre una rosa.
158. L’altra, che ’ntorno al ministerio assiste,
par che di sete e di calore a vampi.
Ispida il biondo crin d’aride ariste,
tratta il dentato pettine de’ campi.
Secche anelan le fauci, arsicce e triste
fervon le guance, e vibran gli occhi lampi.
Umida di sudor, di polve immonda,
odia sempre la spoglia, ed ama l’onda.
416
LE DELIZIE
159. Circonda il capo a l’ultima sorella,
che quasi calvo è poco men che tutto,
un diadema d’intorta uva novella,
di cedri e pomi e pampini costrutto.
Intessuta di foglie ha la gonnella,
di fronde il cinto, ed ogni groppo è frutto.
Stilla umori il crin raro, e riga intanto
di piovosa grondaia il verde manto.
160. Insieme con la Diva innamorata
Adone a la gran mensa il piè converse.
Amor paggio e scudier l’onda odorata
su le man bianche in fonte d’or gli asperse.
Amor scalco e coppier l’ésca beata
in cava gemma e ’l buon licor gli offerse.
Amor del pasto ordinator ben scaltro
pose a seder l’un Sole a fronte a l’altro.
161. Somigliavan duo Soli ed ella ed egli,
cui non fusser però nubi interposte;
e gìan ne’ volti lor, come in duo spegli,
lampeggiando a ferir le luci opposte.
Dava costei sovente, e rendea quegh
di fiamma e di splendor colpi e risposte,
e con lucida ecclisse, e senza oltraggio
s’incontrava e rompea raggio con raggio.
162. Como Dio del piacer, piacevol Nume,
ch’a sollazzi ed a feste è sempre inteso,
per mitigar di que’ begli occhi il lume,
e del Sole importuno il foco acceso,
con due smaltate e gioiellate piume
di bel Pavon, che tra le mani ha preso,
l’aere agitando in lieve moto e lento
tra i più fervidi ardor fabrica il vento.
CANTO SETTIMO
417
163. Mercurio è quei che mesce, e che rifonde
ne l’auree conche i preziosi vini.
Amor rinfresca con le Iimpid’onde
l’idrie lucenti e i vasi cristallini.
L’un e l’altro gli terge, e poi gli asconde
nel più denso rigor de’ geli alpini,
le vicende scambiando or questo, or quello
nel servire or di coppa, or di coltello.
164. Traboccan qui di liquid’oro, e gravi
di stillato ametisto, urne spumanti.
Tengon gemme capaci i ventri cavi
di rugiada vital colmi e brillanti.
Sangue giocondo, e lagrime soavi,
che non péste versar l’uve pregnanti,
onde di Cipro le feconde viti
soglion dolce aggravar gli olmi mariti.
165. La bella Dea di nèttare vermiglio
rugiadoso cristallo in man si strinse.
Libollo, e con dolce atto, e lieto ciglio
nel bel rubino i bei rubini intinse.
Poi di vergogna, il semplicetto giglio
violando di rosa, il volto tinse,
e l’invitò, póstogli il vaso innanzi,
parte a gustar de’ generosi avanzi.
166. Il bel Garzon, ch’ingordamente assiso
presso quell’ésca, onde la vita ei prende,
tutto dal vago e dilicato viso,
l’altra spesso obliando, intento pende,
e con guardo a nutrir cupido e fiso
men la bocca che gli occhi avido intende,
v’immerge il labro, e vi sommerge il core,
e resta ebro di vin, ma più d’amore.
27
LE DELIZIE
418
167. Mentre son del gran pasto in su ’l più bello,
ecco Momo arrivar quivi si vede,
Homo Critico Nume, arco e flagello,
che gli uomini c gli Dei trafige e fiede.
Ciò ch’egli cerchi, e qual pensier novello
tratto l’abbia dal Ciel, Yener gli chiede;
e perché volentier scherza con esso,
sei fa seder, per ascoltarlo, appresso.
168. — Vo — rispose lo Dio — tra queste piante
de la Satira mia tracciando Torme,
de la Satira mia, che poco avante
ha di me generato un parto informe;
parto ne le fattezze e nel sembiante
sì mostruoso, orribile, e difforme,
che se non fusse il suo sottile ingegno,
lo stimerei di mia progenie indegno.
169. Ma la vivacità mio figlio il mostra
e lo spirto gentil ch’io scorgo in lui,
e quel ch’è proprio de la stirpe nostra,
la libertà del sindicare altrui:
onde meco del par contende e giostra,
che pur sempre del vero amico fui,
e mentir mai non volli, e mai non seppi
chiuder la lingua tra catene e ceppi.
170. La lingua sua vie più che spada taglia,
la penna sua vie più che fiamma coce.
Con acuta favella il ferro smaglia,
e con ardente stil fulmina e nóce;
né contro i morsi suoi morso è che vaglia,
né giova schermo incontro a la sua voce.
Indomito animale, estranio mostro,
ch’altro non ha che ’l fiato, e che l’inchiostro.
CANTO SETTIMO
-H9
171. Non ha piè, non ha stinchi ond’ei si regga,
ha l’orecchie recise e ’l naso monco.
lo non so come scriva e vada e segga,
ch’è storpiato e smembrato, e zoppo e cionco.
Ma ben che così rotto egli si vegga,
che del corpo gli resta a pena il tronco,
non pertanto l’audacia in lui si scema:
poi che sol de la lingua il mondo trema.
172. Tal qual è, senza piante e senza gambe,
ne' secoli futuri e ne’ presenti,
de le man privo e de le braccia entrambe,
l’Universo però fia che spaventi.
Quai piaghe ei faccia, il saprà ben Licambe,
che còlto da’ suoi strali aspri e pungenti,
ili desperato laccio avinto il collo,
darà di propria man l’ultimo crollo.
173. Gran cose ha di costui Febo indovino
e previste e predette agli altri Numi.
Pronosticò che nome avrà Pasquino,
correttor de le genti e de’ costumi :
che per terror de’ Principi il destino
gli darà d’eloquenza e mari e fiumi:
e ch’imitarlo poi molti vorranno,
ma non senza periglio e senza danno.
174. Nemico è de la Fama e de la Corte,
lacera i nomi, e d’adular non usa;
in ferir tutti è simile a la Morte,
s’io lui riprendo, egli me stesso accusa,
con dir che ’l mio dir mal non è di sorte
che la malizia altrui resti confusa.
Che più ? non ch’altri, il gran Monarca eterno
nota, punta, ripicca, e prende a scherno.
LE DELIZIE
42°
175. [ fanciulli rapiti e le donzelle
non sol di rinfacciargli ardisce ed osa,
ma pon ne l’opre sue divine e belle
anco la bocca, e biasma ogni sua cosa.
Trova degli elementi e de le stelle
imperfetta la mole, e difettosa,
ogni parola impugna, emenda ogni atto,
e si beffa taior di quanto ha fatto.
176. Dà menda al mar c’ha i venti e le tempeste,
a la terra, che trema e che vacilla,
a l’aria, che di nuvoli si veste,
ed al foco, che fuma e che sfavilla.
Appone a la gran machina celeste
che maligne influenze infonde e stilla,
ch’altra luce si move, altra sta fissa,
che la Luna è macchiata, e ’l Sol s’ecclissa!
177. E non pur di colui che ’l tutto regge,
ma prende a mormorar de la Natura.
Dice, ch’altrui vii femina dar legge
non dee, né dee del mondo aver la cura.
La detesta, la danna, e la corregge,
e ’1 lavoro de Tuoni tassa e censura,
che non die, ché non fe’, sciocca maestra,
al tergo un occhio, al petto una finestra.
178. Per questo suo parlar libero e schietto
Giove dal Ciel l’ha discacciato a torto.
Gli fe’ com'al tuo sposo, e per dispetto,
se non fusse immortai, l’avrebbe morto.
Precipitato dal superno tetto,
restò rotto e sciancato, e guasto e torto.
Ma perché pur co’ detti altrui fa guerra,
poco meglio che ’n Cielo è visto in terra
CANTO SETTIMO
421
J79. Su le sponde del Tebro, ov’egli meno
credea che ’l vizio e ’l mal regnar devesse,
per dar legge al suo dir, ch’è senza freno,
tra bontate e virtute, albergo elesse.
Ma non cessò di vomitar veleno,
né però più eh'altrove ei tacque in esse;
se ben malconcio, e senza un membro intero,
provò che l’odio alfìn nasce dal vero.
180. Se tu vedessi (o Dea) l’aspre ferite
c’ha per tutte le membra intorno sparte,
diresti che con Hercole ebbe lite,
o ch’a guerra in steccato entrò con Marte!
Ch’o sien vere l’accuse, o sien mentite,
ogni Grande aborrir suol la nostr’arte;
e perdendone alfìn la sofferenza,
non voglion comportar tanta licenza.
181. Alcun ben ve ne fu che se ne rise,
e di suo motteggiar poco gli calse:
però ch’egli è faceto, e ’n varie guise
sa novelle compor veraci e false;
ben che l’arguzie sue già mai divise
non sien da le punture amare e salse.
Lecca talor piacevolmente, e scherza,
nondimen sempre morde, e sempre sferza.
182. Ma costoro ch’io dico, i quali in pace
lo lasciali pur gracchiar quant’egli vole,
sapendo per natura esser loquace,
e che pronte ha l’ingiurie e le parole,
che per rispetto o per timor non tace,
e ch’irritato più, più garrir suole,
son pochi e rari, ed han sinceri i petti,
né temon ch’altri scopra i lor difetti.
4 22
LE DELIZIE
183. E certo io non so già, s’è lor concesso
gli encomii udir d'adulator ch’applaude,
perché non deggian poi nel modo istesso
il biasmo tollerar, come la laude.
E s’ai malvagi è d’operar permesso
ogni male a lor grado, ed ogni fraude,
perché non lice ancor con pari ardire,
come ad essi di fare, altrui di dire ?
184. Io per me (bella Dea) perch’altri offeso
si tenga dal mio dir, scoppiar non voglio;
ma né turbarsi già chi n’è ripreso,
né sentir ne devria sdegno o cordoglio:
perché qualor, pur come foco acceso,
o rasoio crudel, la lingua scioglio,
con pietoso rigor di buon Chirurgo
arder mostro e ferir, ma sano e purgo.
185. Or essendo il meschino in terra e ’n Cielo
per tal cagion perseguitato tanto,
io, che pur l’amo con paterno zelo,
supplico il Nume tuo cortese e santo
ch’appo la Fonte dal gran Re di Deio
de’ Cigni tuoi già consacrata al canto,
là de Tacque immortali in su la riva
ti piaccia acconsentir ch’alberghi e viva.
186. Solo in quell’isoletta amena e lieta,
che d’ogni insidia è libera e secura,
potrà vita menar franca e quieta,
e scriver e cantar senza paura.
Ei se ben non è Cigno, è tal Poeta
che meritar ben può questa ventura
d’esser ascritto in fra que’ scelti e pochi:
ma non sia chi l’attizzi, o chi ’l provochi !
CANTO SETTIMO
4 2 3
1S7. S’egli avien che talor d’ira s’infiammi,
invettive e libelli usa per armi,
iambi talor saetta ed epigrammi,
talor satire vibra ed altri carmi.
Stupir sovente insieme e rider fammi
quando vien qualche versi a recitarmi
contr’un, che celebrar volse il Colombo,
e d’india, in vece d’òr, riportò piombo.
188. Per impetrar da te questa dimanda
d'esser ammesso in quel felice coro,
una fatica sua bella ti manda,
da cui scorger potrai, s’ha stil canoro,
e s’egli degno è pur de la ghirlanda
ch’altrui circonda il crin di verde alloro.
In questo libro, che qui meco ho io,
punge (fuor che te sola) ogni altro Pio.
189. Ogni altro Dio da la sua penna è tocco,
fuor che sol tu, cui sacra il bel presente.
Narra gli onor del tuo marito sciocco,
e qualche prova ancor di quel valente,
che de l’asta malgrado e de lo stocco
so che del cor t’è uscito, e de la mente;
u se non ch’oggi ad altro intenta sei,
leggerne almeno un saggio a te vorrei. —
190. — Qual trastullo maggior — Ciprigna disse —
dar ne potresti in fra quest'ozii nostri,
che farne udir di lor quanto ne scrisse
spirto sì arguto in suoi giocosi inchiostri?
qual cosa che più grata or ne venisse
esser potea de l’opera che mostri?
Ma per meglio ascoltar ciò che tu leggi,
ti vogliam dirimpetto ai nostri seggi. —
4-4
LE DELIZIE
191. Allor tra varia turba ascoltatrice
assiso incontro ai duo beati amanti,
d’oro fregiato l’orlo e la cornice,
si pose Momo un bel volume avanti.
“ Le Vergogne del Cielo ”, il titol dice,
e diviso è il Poema in molti Canti;
ma fra molti un ne sceglie, indi le rime,
in questa guisa incominciando, esprime:
192. — Più volte ai dolci lor furti amorosi
ritornati eran già Venere e Marte,
credendo a tutti gli occhi esser ascosi,
tanta avean nel celarsi industria ed arte.
Ma '1 Sol, che i raggi acuti e luminosi
manda per tutto, e passa in ogni parte,
ne la camera entrò, che ’n sé chiudea
lo Dio più forte e la più bella Dea.
193. Veggendogli d’Amor rapire il frutto
seno a seno congiunti, e labro a labro,
tosto a Vulcano a riferire il tutto
n’andò ne l’antro affumigato e scabro.
Batter sentissi al caso indegno e brutto
vie più grave e più duro il torto fabro,
di quel ch’egli adoprava in Mongibello,
su l’incudin del core altro martello!
194. Non fu già tanto il Sol col divin raggio
mosso per zelo a palesar quell'onte,
quanto per vendicar con tale oltraggio
la saetta ch’uccise il suo Fetonte:
che quando al troppo ardito e poco saggio
Garzon, ch’ei tanto amò, feri la fronte,
non men ch’ai figlio il corpo, al genitore
trafisse di pietà l’anima e ’1 core.
CANTO SETTIMO
4-5
195. Poi che distintamente il modo e ’l loco
de l’alta ingiuria sua da Febo intese,
nel petto ardente de lo Dio del foco
foco di sdegno assai maggior s’accese.
Temprar ne l’ira sua si seppe poco
colui che tempra ogni più saldo arnese.
De’ fulmini il maestro a l’improviso
fulminato restò da quell’aviso.
196. Vassen là dove de’ Ciclopi ignudi
a la fucina il rozo stuol travaglia.
Fa percosse sonar le curve incudi,
dà di piglio a la lima, a la tanaglia,
e ponsi a fabricar con lunghi studi
pieghevol rete di minuta maglia.
D’un infrangibil filo adamantino
la lavorò l’artefice divino.
197. Di quel lavor la maestria fabrile
se sia diamante o fi] mal s’argomenta.
Xon men che forte, egli Tordi sottile,
la fe’ sì molle, e dilicata, e lenta,
che di filar già mai stame simile
l’emula di Minerva indarno tenta;
e quantunque con man si tratti e tocchi,
mvisibil la trama è quasi agli occhi.
198. Con arte tale il magistero è fatto
ch’ancor ch’entrino i duo tra que’ ritegni,
pur che non facciali sforzo, in quanto al tatto
non si discopriran gli occulti ingegni:
ma se verran con impeto a quell’atto
che suol far cigolar dintorno i legni,
tosto che ’l letto s’agita e scompiglia,
la rete scocca, e al talamo s’appiglia.
426
LE DELIZIE
199. Uscito poi de la spelonca nera,
zoppicando sen corre a porla in opra.
Ne la stanza l’acconcia in tal maniera,
ch’impossibil sarà che si discopra.
Ne’ sostegni di sotto a la lettiera,
ne le travi del palco anco di sopra,
per le cortine in giro ei la sospende,
e tra le piume la dispiega e stende.
200. Quand’egli ha ben le benconteste sete
disposte intorno in sì sagaci modi
che discerner alcun de le secrete
fila non può gl’insidiosi nodi,
lascia l’albergo, e de la tesa rete
dissimulando le nascoste frodi,
spia l’andar degli amanti, e ’l tempo aspetta
de la piacevol sua strana vendetta.
201. Usò per affidargli astuzia e senno
senza punto mostrar l’ira che l’arse.
Fe’ correr voce ch’ei partia per Lenno,
e ’l grido ad arte per lo Ciel nc Sparse.
Udita la novella, al primo cenno
nel loco usato vennero a trovarse,
e per farlo di Dio divenir Bue,
nel dolce arringo entrarono ambidue.
202. Sì tosto che la cuccia il peso grave
de’ duo nudi Campioni a premer viene,
prima eh’ancor si sieno a la soave
pugna amorosa apparecchiati bene,
la machinata trappola la chiave
volge, che porge il moto a le catene:
fa suo gioco l’ordigno, e ’n que’ diletti
rimangono i duo rei legati e stretti.
CANTO SETTIMO
42
203. L’ordito intrico in guisa tal si strinse,
e sì forte dintorno allor gl'involse,
che per scoter colui non se ne scinse,
per dibatter costei non se ne sciolse.
Or poi ch'entrambo aviticchiati avinse
e ’n tal obbrobrio a suo voler gli colse,
de l’aguato in cui stava uscito il zoppo,
prese la corda, ov’atteneasi il groppo.
204. De la perfida rete il capo afferra,
indi del chiuso albergo apre le porte,
tira le coltre, il padiglion disserra.
e convoca del Ciel tutta la Corte:
e col Re de’ guerrieri entrata in guerra
scoprendo lor la disleal consorte
avinta di durissima catena,
fa de le proprie infamie oscena scena
203. « Deh venite a veder, se più vedeste »
altamente gridava « opre mai tali !
L’Eroe divino, il Capitan celeste
ditemi è quegli là, Divi immortali ?
l’imprese sue terribili son queste?
questi i trofei superbi e trionfali ?
Ecco le palme gloriose e degne,
le spoglie illustri, e l’onorate insegne!
206. Gran Padre e tu, che l’Universo reggi,
Vienne a mirar la tua pudica prole!
Così serba Himeneo le sacre leggi?
tali ignominie il Ciel permetter suole?
E che fa dunque Astrea negli alti seggi,
se punir i colpevoli non vole ?
Son cose tollerabili ? son atti
degni di Deità scherzi sì fatti?
LE DELIZIE
428
207. Ama la figlia tua questo soldato
sano, gagliardo, e di giocondo aspetto,
e perché va pomposo, e ben ornato,
di giacersi con lui prende diletto.
Schiva il mio crin malculto e rabbuffato,
del mio piè diseguale odia il difetto,
l’arsiccio volto aborre, e con disprezzo
mi schernisce talor, s’io Tacca rezzo.
208. Se zoppo mi son io, tal qual mi sono,
Giove e Giunon mi generaste voi!
E generato forse agile e buono,
perché dal Ciel precipitarmi poi ?
Se pur volevi, o gran Kettor del tuono,
sotto giogo perpetuo accoppiar noi,
non devevi cosi prima sconciarmi,
o non devevi poi genero farmi.
209. La colpa non è mia dunque, se guasti
del piede ì nervi e le giunture ho rotte.
Se rozo, e senza pompe, e senza fasti
tinta ho la faccia di culor di notte,
tu sei, che colaggiù mi confinasti,
abitator de le Sicane grotte.
Ma s'ancor quivi io ti ministro e servo,
non meritai di trasformarmi in Cervo!
210. Deve per questo la mia bella moglie,
bella, ma poco onesta, e poco fida,
qualora a trarsi le sfrenate voglie
cieco appetito la conduce e guida,
punto ch’io metta il piè fuor de le soglie,
e da lei m’allontani e mi divida,
puttaneggiando dentro il proprio tetto,
disonorare il maritai mio letto?
CANTO SETTIMO
429
211. Deve per tutto ciò negli altrui deschi
cibo cercar la meretrice infame,
dovunque il figlio a satollar l’adeschi
de l’ingorda libidine le brame?
lo pur al par de’ più robusti e freschi
credo vivanda aver per la sua fame:
ché dove un membro è difettoso e manca,
altra parte supplisce intera e franca!
212. Ma non so se ’n tal gioco averrà mai
ch’ella più mi tradisca, e che m’offenda.
Così (perfida e rea!) così farai
de’ tuoi dolci trastulli amara emenda,
fin che la dote, ond’io stolto comprai
le mie proprie vergogne, a me si renda.
Poi per commun quiete il Re superno
vo’ che faccia tra noi divorzio eterno.
213. Or mirate (vi prego), alme divine,
gli altrui congiunti ai vituperi miei,
s’io fui ben cauto, e s’io fui buono alfine
uccellatore e pescator di Dei !
Dite s’anch’io so far prede e rapine,
come l’empio figliuol sa di costei.
Veggiasi chi di noi mastro più scaltro
sia di reti e di lacci, o l’uno, o l’altro.
214. So che lieve è la pena, e che ’l mio torto
vie più palese in tal castigo appare.
Ma le corna, ch’ascose in grembo porto,
vo’ pormi in fronte manifeste e chiare,
pur ch’io riceva almen questo conforto
di far la festa publica e vulgare!
Voglio la parte aver del piacer mio,
e poi che ride ognun, ridere anch’io ».
430
LE DELIZIE
215. Mentr’ei così dicea, tutti coloro
ch’a la favola bella eran presenti,
il teatro del Ciel facean sonoro
con lieti fischi e con faceti accenti,
e diceano additandogli fra loro
di sì novo spettacolo ridenti :
« Ve’ come il tardo alfìn giunse il veloce,
ve’ come fu dal vii domo il feroce! »
216. Oh quanti fur Dei giovinetti, oh quanti,
ch’inaviditi di sì dolce oggetto,
in rimirando i duo celesti amanti
che staccar non potean petto da petto,
vie più d’invidia assai tra’ circostanti
che di riso in quel punto ebber suggetto,
e per participar di que’ legami,
curato non avrian d’esser infami !
217. Recato avriansi a gran ventura molti
spettatori del caso e testimoni,
più volentieri allor, ch’esser disciolti,
come lo Dio guerrier farsi prigioni.
Restar tra nodi sì soavi involti
voluto avrian (non ch’altri) i duo vecchioni,
Titon dico, e Saturno, i freddi cori
accesi anch’essi d’amorosi ardori.
218. Pallade e Cinthia, verginelle schive,
tenner gran pezza in lor lo sguardo fiso,
poi da cose sì sozze e sì lascive
torsero in là, tinte di scorno, il viso.
Giunon, Diva maggior de l’altre Dive,
non senza un gentilissimo sorriso,
coprissi il ciglio con la man polita,
ma giocava con l’occhio in fra le dita.
CANTO SETTIMO
431
19. Vergognosetta d’un ludibrio tanto
la Dea d'Amor, ch’i membri alabastrini
non avea da coprir velo né manto,
tenea bassa la fronte, e gli occhi chini.
Intorno al corpo immacolato intanto
sparsi i cancelli de’ legami fini.
Graticolando le sembianze belle,
diviso aveano un Sole in molte stelle.
20. Bravò lo Dio del ferro, e si contorse
quando il forte lacciuol prima annodollo,
romper col suo valor credendo forse
e stracciar que’ viluppi ad un sol crollo;
ma poi che prigioniero esser s’accorse,
né poterne ritrar le braccia e ’l collo,
anch’ei, ben che di rabbia enfiato e pieno,
a pregar cominciò, come Sileno.
21. Vulcan tien tuttavia la rete chiusa,
né scioglie il nodo, né rallenta il laccio,
ché l’infida moglier cosi delusa
vuol ch’ivi al drudo suo si resti in braccio.
Intercede ciascuno, ed ei ricusa
di liberargli dal noioso impaccio.
Pur del vecchio Nettun consente a’ preghi,
che la coppia impudica alfin si sleghi.
22. Dassi a lo Dio che ne le piante ha l’ale
cura d’aprir quell’ingegnosa gabbia,
ed ei non intraprende ufficio tale
per cortesia, né per pietà che n’abbia,
ma perché de l’Adultera immortale,
che di vergogna e di dispetto arrabbia,
sciogliendo il nodo che l’avolge e chiude,
spera palpar le belle membra ignude.
43 2
LE DELIZIE
223. Oltre che d’acquistarsi ei fa disegno
l’arredo indissolubile e tenace,
dico la rete, che con tanto ingegno
fu già d’Etna tessuta a la fornace,
solo per poter poi con quel ritegno
prender per l’aria doride fugace:
doride bella, che volando suole
precorrer l’Alba a lo spuntar del Sole.
224. Scatenato il campion con la diletta,
l’una piangea de’ vergognosi inganni,
minacciò l’altro con crudel vendetta
di ristorar d’un tant’affronto i danni.
Sorsero alfìn confusi, e per la fretta
insieme si scambiàr l’armi co’ panni:
questi il Vago vestì, quelle l’amica,
Marte la gonna, e Vener la lorica. —
223. Volea l’istoria del successo intero
Momo seguir, poi che fur colti in fallo,
e dir come di giovane guerriero
fu trasformato Alettrione in gallo,
che del Duce di Thracia essendo usciero,
guernito d’armi e carco di metallo,
qual fida spia, qual sentinella accorta,
fu da lui posto a custodir la porta:
226. ma perché ’l sonno il vinse, e non ben tenne,
per guardarsi dal Sol, la mente desta,
tal qual trovossi a punto, augel divenne,
con lo sprone al tallon, con l'elmo in testa.
I ricchi arnesi si mutaro in penne,
il superbo cimier cangiossi in cresta;
ed or meglio vegghiando in altro manto,
accusa il suo venir sempre col canto.
CANTO SETTIMO
433
227. E questo ed altro ancor legger volea,
ma sdegnoso girò Venere il guardo,
e, per lanciarlo, un nappo alzato avea,
e ’l colpìa, s’a fuggire era più tardo.
— Sfacciato detrattor — disse la Dea —
così mi loda il tuo figliuol bugiardo?
Canti le proprie, e non l’altrui vergogne,
inventor di calunnie, e di menzogne! —
228. Di ciò Mercurio, che con gli altri intorno
stavalo ad ascoltar, si rise molto,
e quando la mirò d’ira e di scorno,
più che foco soffiato, accesa in volto,
di quel selvaggio e rustico soggiorno
desv'iando l’amico entro il più folto,
il sottrasse al furor de l’alta Diva,
che ne fremea di rabbia e n’arrossiva.
229. Era quivi Thalia fra l’altre ancelle,
pur come Citherea nata di Giove,
che le Grazie e le Muse avea sorelle,
una de le tre Dive, e de le nove.
Più soave di lei tra queste o quelle
o la lingua o la mano altra non move.
Thalia ninfa de’ mirti e degli allori,
Thalia dotta a cantar teneri amori.
230. Costei d'avorio fin curvo stromento
recossi in braccio, e giunta innanzi a loro,
degli aurei tasti in suon dimesso e lento
tutto pria ricercò l’ordin sonoro,
indi con pieno, chiaro, alto concento
scoccò dolce canzon da l’arco d’oro,
e fur pungenti sì, ma non mortali
le note a chi l’udì ferite e strali.
2S
434
LE DELIZIE
231. Saggia Thalia, che ’n su ’l fiorir degli anni
fosti de’ miei pensier la cura prima,
e meco i molli e giovenili affanni,
non senza altrui piacer, cantasti in rima;
tu lo mio stile debile su i vanni
al Ciel solleva, onde i tuoi detti esprima.
Sveglia l'ingegno, e con celeste aita
movi al canto le voci, al suon le dita.
232. — A m o r è fiamma, che dal primo e vero
foco deriva, e ’n gentil cor s’apprende,
e rischiarando il torbido pensiero
altrui sovente il desir vago incende;
e scòrge per drittissimo sentiero
l’anima al gran principio ond'ella scende,
mostrandole quaggiù quella che pria
vide lassù, bellezza e leggiadria.
233. Amor desio di bel, virtù che spira
sol dolcezza, piacer, conforto e pace,
toglie al cieco Furor l’orgoglio e l'ira,
gli fa l’armi cader, gelar la face.
11 forte, il fier, che 1 quinto cerchio aggira,
a le forze d’Amor vinto soggiace.
Unico autor d'ogni leggiadro effetto,
sommo ben, sommo bel, sommo diletto.
234. Ardon là nel beato alto soggiorno
ancor d’eterno amor l’eterne Menti.
Son catene d’Amor queste, che ’ntorno
stringon sì forte il Ciel, fasce lucenti.
E questi lumi, che fan notte e giorno,
son del lor fabro Amor faville ardenti.
Foco d’Amor è quel ch’asciuga in Cielo
a la gelida Dea l'umido velo.
CANTO SETTIMO
•435
235. Ama la Terra il Cielo, e ’l bel sembiante
mostra ridente a lui che l’innamora,
e sol per farsi cara al caro amante
s’adorna, il sen s’ingemma, il crin s’infiora,
i vapor da le viscere anelante,
quasi a lui sospirando, essala ognora.
1 rauchi suoni, i crolli impetuosi
gemiti son d’Amor, moti amorosi.
236. Né già l’amato Cielo ama lei meno,
che con millocchi sempre la vagheggia.
A lei piagne piovoso, a lei sereno
ride, e sospira a lei quando lampeggia.
lrrigator del suo fecondo seno,
in vicende d’Amor seco gareggia,
e fa ch’ella poi gravida germoglio
piante e fior, frutti e fronde, erbette e foglie.
237. Qual sì leggiero o sì veloce l'ale
spiega per l’ampio ciel vago augelletto,
cui de l’alato Arder l’alato strale
e non giunga, e non punga insieme il petto?
qual pesce guizza in fredtlo stagno? o quale
cova de’ fiumi il cristallino letto,
cui non riscaldi Amor, ch’entro per Tonde
vivi del suo bel foco i semi asconde ?
238. Nel mar, nel mare istesso, ove da Theti
ebbe la bella madre umida cuna,
più che del Pescator, d’Amor le reti
han forza, e regna Amor più che Fortuna.
E perché da Pittori e da Poeti
ignudo è finto, e senza spoglia alcuna,
se non perché sott’acqua a nuoto scende,
e del suo foco i freddi Numi accende?
436
LE DELIZIE
1 39. Segue il suo maschio per le vie profonde
la smisurata e ruvida Balena.
Va dietro a la sua femina per Fonde
ondeggiando il Delfm con curva schiena.
Qui con lingua d’Amor muta risponde
a l’Angue lusinghier l’aspra Murena.
Là con nodi d’Amor saldi e tenaci
porge una Conca a l’altra Conca i baci.
240. Vmano l’Acque istesse. Elle sen vanno
al fonte originai, ch’a sé le ’nvita;
e s’al bel corso, che lasciar non sanno,
è precisa la via piana e spedita,
tal con forza amorosa impeto fanno,
che s’apron rotti gli argini l’uscita.
In seno il mar l’accoglie, e ’n lor trasfonde
prodigamente il proprio nome, e Fonde.
241.
Ricetta il Tortorei con la compagna
(bello essempio di fede) un ramo, un nido.
1 là 11 poi ViCIl
mcn l’altra ' ,ìrrn ' 1
e fère il Ciel di doloroso strido.
La Colomba gentil non si scompagna
dal consorte già mai diletto e fido:
coppia in cui si mantien semplice e pura
l’innocenza d’Amore e di Natura.
24 2 . Teme il Cigno d’Amor la face ardente
vie più che ’l foco de l’eterna sfera,
e più d’Amor l’artiglio aspro e pungente
che de l’Aquila rapida e guerrera.
L’Aquila ancor del fulmine possente
ministra, e d’ogni augel Reina altera,
noi teme meno, anzi d’altrui predace
fatta preda d’Amor, d’Amor si sface.
CANTO SETTIMO
437
243. 11 fier Leon con la Leonza invitta
Amor sol vince ed al suo giogo allaccia.
Più da l’aurato strai geme trafitta
l'Orsa crudel, che da lo spiedo in caccia.
Fa vezzi al Tigre suo la Tigre afflitta.
lo qual co’ piè levati alto l’abbraccia,
l’osa il Destrier non trova, e par che piene
sol del foco del core abbia le vene.
244. Spira accesa d’Amor tosco amoroso
la Vipera peggior d’ogni altra biscia.
Fila per allettar l’Aspe orgoglioso
d’oro si veste, e ’ncontra al Sol si liscia.
Corregli in grembo, e lo scaldato sposo
seco insieme si stringe, e seco striscia.
Son baci i morsi, e sì gl'irrita Amore
che di piacer l’un morde, e l’altro more.
245. Dal suo Monton non lunge, a piè d’un lauro,
mentr’ei pugna per lei, stassi l’Agnella,
e per dargli al travaglio alcun restauro,
se riede vincitor, gli applaude anch’ella.
Arde il robusto e giovinetto Tauro
per la Giovenca sua vezzosa e bella,
e ne’ tronchi per lei l'armi ritorte
aguzza, e sfida il fier rivale a morte.
246. Xon ch’altro, i tronchi istessi, i tronchi, i tralci
senton dolci d’Amor nodi e ferite.
Chi può dir com’agii Olmi e confai' Salci
l'Edra sempre s’abbarbichi, e la Vite?
E chi non sa, che se con scuri o falci
da spietato boschier son disunite,
lagrimando d’Amor così recise,
si lagnan de la man che l’ha divise?
LE DELIZIE
438
247. Fronda in ramo non vive, o ramo in pianta,
cui non sia dato entro la ruvid’alma
sentir quella virtù feconda e santa
che con nodo reciproco le ’ncalma.
Con sibili amorosi Amor si vanta
far sospirare il Frassino e la Palma.
Baciansi i Mirti, e con scambievol groppo
Alno ad Alno si sposa, e Pioppo a Pioppo.
248. Ma qual sì dura o gelida si trova
cosa quaggiù, che ferro agguagli o pietra ?
La pietra e '1 ferro ancor baciansi a prova,
né dal rozo seguace ella s’arretra.
Da viva pietra, ov’altri il tratti e mova,
vive d’Amor faville il ferro spetra;
e ’l ferro istesso intenerito e molle
in fucina d’Amor s’incende e bolle.
240. S’Amor dunque sostegno è di Natura,
s’Amor è pace d’ogni nostra guerra,
s’a le forze d’Amor forza non dura,
se le glorie d’Amor meta non serra,
se la virtù de l’amorosa arsura
in Ciel regna, in Abisso, in mare, in terra,
qual fia, che non adori, alma gentile
le catene d’Amor, l’arco e ’l focile? —
250. Mentre la Musa in stil leggiadro e grave
fea con maestra man guizzar le corde,
e ne traea di melodia soave
a l’armonico Ciel tenor concorde;
su per gli eburnei bischeri la chiave
volgendo per temprar nervo discorde,
un per caso ne ruppe, e sì le spiacque
ch’appese il plettro a un ramoscello, e tacque.
I TRASTULLI
CANTO OTTAVO
A L L E G O R I A
11 Piacere, che nel giardino del Tatto sta in compagnia della
Lascivia, allude alla scelerata opinione di coloro che posero il
sommo bene ne’ diletti sensuali. Adone, che si spoglia e lava,
significa l'uomo, che datosi in preda alle carnalità, e attutandosi
dentro Tacque del senso, rimane ignudo e privo degli abiti buoni
e virtuosi. I vezzi di Venere, che con essolui si trastulla, vogliono
inferire le lusinghe della Carne licenziosa e sfacciata, la quale
ama ed accarezza volentieri il diletto.
ARGOMENT O
Perviene Adone a le delizie estreme,
e prendendo tra lor dolce trastullo
l’innamorata Diva e ’l bel fanciullo
a la meta d'Arnor giungono insieme.
Giovani amanti, e Donne innamorate,
in cui ferve d’Arnor dolce desio,
per voi scrivo, a voi parlo, or voi prestate
favorevoli orecchie al cantar mio.
Esser non può, ch’a la canuta ctate
abbia punto a giovar quel che cant’io.
Fugga di piacer vano ésca soave
bianco crin, crespa fronte, e ciglio grave.
Spesso la curva e debile Vecchiezza,
che gelate ha le vene, e Fossa vote,
incapace de l’ultima dolcezza
aborre quel che conseguir non potè.
Uom non atto ad amar, disama e sprezza
anco il tenor de Famorose note;
e ’l ben che di goder si vieta a lui,
per invidia dannar suole in altrui.
CANTO OTTAVO
443
3. Lunge deh lunge alme severe e schive
da la mia molle e lusinghiera Musa.
Da poesie sì tenere e lascive
incorrotta onestà vadane esclusa.
Ah non venga a biasmar quant’ella scrive
d’implacabil Censor rigida accusa,
la cui calunnia con maligne emende
le cose irriprensibili riprende.
4. Di Poema inorai gravi concetti
udir non speri Hipocrisia ritrosa,
che notando nel ben solo i difetti,
suol còr la spina, e rifiutar la rosa.
So che fra le delizie e fra i diletti
degli scherzi innocenti alma amorosa
cautamente trattar saprà per gioco
senza incendio o ferita il ferro e ’l foco.
5. Suggon l’istesso fior ne’ prati Hiblei
Ape benigna e Vipera crudele,
e secondo gl’instinti o buoni, o rei,
l’una in tosco il converte, e l’altra in mèle.
Or s’averrà ch’alcun da’ versi miei
concepisca veleno, e tragga fele,
altri forse sarà men fiero ed empio,
che raccolga da lor frutto d’essempio.
6. Sia modesto l’Autor; che sien le carte
men pudiche talor, curar non deve.
L’uso de’ vezzi e ’l vaneggiar de l’arte
o non è colpa, o pur la colpa è lieve.
Chi da le rime mie d’Amor consparte
vergogna miete, o scandalo riceve,
condanni o scusi il giovenile errore;
ché s’oscena è la penna, è casto il core.
I TRASTULLI
-144
7. Già sergenti ed ancelle avean levati
da le candide nappe i nappi d’oro,
in cui di cibi eletti e dilicati
i duo presi d’Amor preser ristoro;
onde poi ch’a versar fiumi odorati
venne l’aureo baccin tra le man loro,
su la mensa volò lieta e fiorita
il bianco bisso ad asciugar le dita.
8 . Allor dal seggio suo Venere sorta
verso l’ultima torre adduce Adone.
Vien tosto a disserrar l’aurata porta
l’Ostier de l’amenissima magione.
Ignudo ha il manco braccio, e l’unghia torta
v’affige dentro e stringelo un Falcone.
Le Talpe, le Testudini, e l’Aragne
son sempre di costui fide compagne.
9. Chiuso ne l’ampio e ben capace seno
è quel giardin, de la maestra torre,
degli altri assai più spazioso, e pieno
di quante seppe Amor gioie raccorre.
Un largo cerchio e di beH’ombre ameno
vien un teatro sferico a comporre,
che col gran cinto de l’eccelse mura
protege la gratissima verdura.
io. Adon va innanzi, e par che novo affetto
d’amorosa dolcezza il cor gli stringa.
Non fu mai d’atto molle osceno oggetto,
che quivi agli occhi suoi non si dipinga.
Sembianti di lascivia e di diletto,
simulacri di vezzo e di lusinga,
trastulli, amori, o fermi il guardo o giri,
gli son sempre presenti, ovunque miri.
CANTO OTTAVO
445
11. Sembra il felice e dilettoso loco
pien d’angelica festa un Paradiso.
Spira quivi il Sospiro aure di foco,
vaneggia il Guardo, e lussureggia il Riso.
Corre a baciarsi con lo Scherzo il Gioco,
stassi il Diletto in grembo al Vezzo assiso
Scaccia lunge il Piacer con una sferza
le gravi Cure, e col Trastullo scherza.
12. Chino la fronte e con lo sguardo a terra
l'amoroso Pensier rode se stesso.
Chiede conforto al duol, pace a la guerra
il Prego in atto supplice e dimesso.
Scopre negli occhi quel che ’l petto serra
il Cenno del Desir tacito messo.
Sporge le labra, e l’altrui labra sugge
il Bacio, e nel baciar se stesso strugge.
13. Sta l’Adulazion sovra le soglie
del dolce albergo, e ’l peregrin vi guida.
La Promessa l’invita, e ’n guardia il toglie,
la Gioia l’accompagna, e par che rida.
La Vanità ciascun che v’entra accoglie,
e la Credenza ogni ritroso affida.
La Ricchezza di porpore vestita
superbamente i suoi tesor gli addita.
14. Havvi l’Ozio che langue e si riposa
lento ed agiato, e in ogni passo siede.
Pigro, e con fronte stupida e gravosa
seguelo il Sonno, e mal sostiensi in piede.
Ordir di giglio, incatenar di rosa
fregi al suo crin la Gioventù si vede.
Seco strette ha per mano in compagnia
Beltà, Grazia, Vaghezza, e Leggiadria.
1 TRASTULLI
446
15. Con l’ingordo Desio ne vien la Speme
perfida, adulatrice, e lusinghiera.
Mascherati la faccia, errano insieme
l’accorto Inganno e la Menzogna in schiera.
Sparsa le chiome in su la fronte estreme
fuggendo va l’Occasion leggera.
Balla per mezo la Letizia stolta,
salta per tutto la Licenzia sciolta.
16. L’ésca e ’l focile in man, sfacciata Putta,
tien la Lussuria, ed a l’Infamia applaude.
Baldanzosa l’Infamia, ignuda tutta
non apprezza e non cura onore o laude.
Le serpi de la chioma orrida e brutta
copre di vaghi fior l’astuta Fraude;
e ’l velen de la lingua aspro ed atroce
di dolce riso e mansueta voce.
17. Tremar l’Audacia ai primi furti, e starsi
vedi smorto il Pallor caro agli amanti.
Volan con lievi penne in aria sparsi
gli Spergiuri d'Amor vani e vaganti.
Con l’ire molli e facili a placarsi
van le dubbie Vigilie e i rozi Pianti,
e le gioconde e placide Paure,
e le Gioie interrotte e non secure.
itf. Ride la terra qui, cantan gli augelli,
danzano i fiori e suonano le fronde,
sospiran l’aure e piangono i ruscelli,
ai pianti, ai canti, ai suoni Eco risponde.
Aman le fere ancor tra gli arboscelli,
amano i pesci entro le gelid’onde.
Le pietre istesse, e l’ombre di quel loco
spirano spirti d’amoroso foco.
CANTO OTTAVO
447
9. — A Dio, ti lascio; ornai fin qui — di Giove
disse là giunto il messaggier sagace —
per ignote contrade, ed a te nove,
averti scòrto, o bell’Adon, mi piace.
Eccoci alfine in su ’l confin, là dove
ogni guerra d’Amor termina in pace.
Di quel Senso gentil questa è la sede
a cui sol di certezza ogni altro cede.
o. Ogni altro senso può ben di leggiero
deluso esser talor da’ falsi oggetti;
questo sol no, lo qual sempr’è del vero
fido ministro, e padre de’ diletti.
Gli altri non possedendo il corpo intero
ma qualche parte sol, non son perfetti.
Questo con atto universal distende
le sue forze per tutto, e tutto il prende.
1. Vorrei parlarne, e ti verrei solvendo
più d’un dubbio sottil de le mie scole;
ma tempo è da tacer, ch’io ben comprendo
che la maestra tua non vuol parole.
lo qui rimango ad Herse mia tessendo
ghirlandetta di mirti e di viole.
Tu vanne, e godi. Io so che ’n tanta gioia
qualunque compagnia ti fora a noia. —
2 . Con un cenno cotal di ghigno astuto
si rivolse a Ciprigna in questo dire;
poi smarrissi da Ior, sì che veduto
non fu per più d’un dì fino a l’uscire.
Ma pria che desse l’ultimo saluto
ai duo focosi amanti in su ’l partire,
de l’un’ e l’altro in pegno di mercede
giunse le destre, e gl'impalmò per fede.
44 s
I TRASTULLI
23. Restàr soletti in quell’orror frondoso
poi che Mercurio dipartissi e tacque.
Rigava un fonte il vicin margo erboso,
in cui forte Natura si compiacque.
L’acque innaffiano il bosco, e ’l bosco ombroso
specchia se stesso entro le limpid’acque,
tal ch’un giardino in duo giardin distinto
vi si vedea, l’un vero, e l’altro finto.
24. Porta da questo fonte, umile e lento
per torto solco il picciol corno un rio.
Parria vero cristallo, e vero argento,
se non se ne sentisse il mormorio.
D’oro ha l’arene, e quindi è sempre intento
di sua mano a raccòrlo il cieco Dio,
onde fabrica poi gli aurati strali,
strazio immortai de’ miseri mortali.
25. In duo rivi gemelli si dirama
l'amoroso ruscel; l’uno è di mèle,
picn di quanta dolcezza il gusto t' r ^r n:i
l’altro corrompe il mèl di tosco e fele:
quel fel, quel tosco, ond’armò già la Fama
l’aspre saette de l’Arcier crudele.
Crudel Arcier, ch’anco il materno seno
infettò d’amarissimo veleno.
26. Dal velenoso e torbido compagno
sen va diviso il fìumicel melato,
onde per canal d’òr più d’un rigagno
verga di belle linee il verde prato,
e sboccan tutte in un secreto Bagno
che nel centro del bosco è fabricato.
Di questo Bagno morbido e soave
la Lascivia e ’l Piacer tengon la chiave.
CANTO OTTAVO
449
27. Siede a l’uscio il Piacer di quell’albergo
con la Lascivia a trastullarsi inteso:
garzon di varia piuma alato il tergo,
ridente il volto e di faville acceso.
L'aurato scudo, il colorato usbergo
giacegli inutilmente a piè disteso.
Torpe tra’ fior pacifico guerriero
l’elmo, ch’una Sirena ha per cimiero.
28. Curvo arpicordo da’ vicini rami
pende, e spesso da l’aura ha moto e spirto.
D’ambra tersa e sottile in biondi stami
forcheggia il crine intortigliato ed irto,
tutto impacciato di lacciuoli e d’ami,
di fresca rosa e di fiorito mirto.
Arco di bella e varia luce adorno
gli fa diadema in testa, Iride intorno.
29. Né di men bella o men serena faccia
mostrasi in grembo a lui la Lusinghiera.
Di viti e d’edre i capei d’oro allaccia,
di canuti Armellin guarda una schiera.
Un Capro a lato, e con la destra abbraccia
il collo d’una Libica Pantera.
Regge con l’altra ad un troncon vicino
ammiraglio lucente e cristallino.
30. Quivi al venir d’Adone e Citherea
componendo del crin le ciocche erranti,
i dolcissimi folgori tergea
de le luci umidette e scintillanti.
Spesso a un nido di Passere volgea,
che su l’arbor garrian, gli occhi incostanti;
e la succinta, anzi discinta gonna
scorciava più che non conviensi a donna.
29
I TRASTULLI
45°
31. Ferirò il bell’Adon di meraviglia
quelle forme vezzose e lascivette,
e con l’alma sospesa in su le ciglia
a contemplarle immobile ristette.
Ella d’un bel rossor tutta vermiglia,
impedita da scherzi e lusinghette,
col suo drudo per man da l’erba sorse,
ed al Donzel che rincontrava occorse.
32. Vergata a liste d’or candida tela
di sottil seta e di filato argento
vela le belle membra, e quasi vela
si gonfia in onde e si dilata al vento,
e l’interno soppanno apre e rivela
tra' suoi volazzi in cento giri e cento.
Crespa le rughe il lembo, e non ben chiude
l’estremità de le bellezze ignude.
33. Da l’ali de l’orecchie in giù pendente
di due perle gemelle il peso porta.
Sostiene il peso, di fin or lucente
sferica verga in picciol orbe attorta.
Di smeraldi cader vezzo serpente
si lascia al sen con negligenza accorta;
e de la bianca man, eh'ad arie stende,
d’indiche fiamme il vivo latte accende.
34. Da l’estivo calor, che mentre bolle
le ’nfiamma il volto d’un incendio greve,
schermo si fa d’un istromento molle
di piuma vie più candida che neve,
e per gonfiar di sua superbia folle
con doppio vento il vano fasto e lieve,
v’ha di cristallo orientai commessi
duo specchi in mezo, e si vagheggia in essi.
CANTO OTTAVO
451
35. Tese costei sue reti al vago Adone:
ogni atto er’amo, ogni parola strale.
Rompea talor nel mezo il suo sermone
languidamente, e con dolcezza tale,
che ’l diamante spezzar de la ragione
potea, non che del senso il vetro frale.
Parlava, e ’l suo parlar tronco e diviso
fregiava or d’un sospiro, or d’un sorriso.
36. — Se quanto di beltà nel volto mostri
tanto di cortesia chiudi nel petto,
ché tal certo — diss’ella — agli occhi nostri
argomento di te porge l’aspetto;
venirti a sollazzar ne’ chiusi chiostri
non sdegnerai di quel beato tetto.
Nel tetto là, ch'io ti disegno a dito,
come degno ne sei sarai servito.
37. Questi è quei (se noi sai) ch’altrui concede
quel ben che può far gli uomini felici.
Ognuno il cerca, ognuno il brama e chiede,
usan tutti per lui vari artifici.
Chi ritrovar ne le ricchezze il crede,
chi ne le dignità, chi negli amici.
Ma raro il piè da quest’albergo ei move,
né (fuor che nel mio grembo) abita altrove.
38. Del sozzo vaso, ov’ogni mal s’accoglie,
a pena uscì che fu chiamato in Cielo;
ma gli convenne pria depor le spoglie,
tal ch’ignudo v’andò senz’alcun velo.
Scende dal Ciel sovente in queste soglie,
dov’io gelosa agli occhi indegni il celo.
11 celo altrui con ogni industria ed arte,
solo a qualche mio caro io ne fo parte.
45 2
I TRASTULLI
39. Quando volò ne l’immortal soggiorno,
nacque nel mondo un temerario errore.
Del manto ch’ei lasciò si fece adorno
un aversario suo, detto Dolore.
Questi sen va con le sue vesti intorno,
si che ’l somiglia a l’abito di fore;
onde ciascun mortai preso a l’inganno,
in vece del Piacer segue l’Affanno.
40. lo son poi sua compagna, io son colei
che volgo in gioia ogni travaglio e duolo.
Da noi soli aver puoi (se saggio sei)
quel piacer de’ piacer ch’ai mondo è solo.
De’ suoi seguaci, e de’ seguaci miei
è quasi innumerabile lo stuolo;
né tu dèi men felice esser di questi,
poi che giunger tant’oltre oggi potesti.
41. Qui lavarti conviene. A ciò t’invita
il loco agiato, e la stagion cocente.
Nostra legee il richiede, e la fiorita
tua bellezza ed etate anco il consente.
Ma più quella beltà, che teco unita
teco (oh te fortunato) arde egualmente.
Non entra in questa casa, in questo bosco
chi non vaneggia e non folleggia nosco. —
42. A queste parolette Adon confuso
nulla risponde, e taciturno stassi,
ch’a tenerezze tante ancor non uso
tien dimessa la fronte, e gli occhi bassi.
Ma da più Ninfe è circondato e chiuso,
che non voglion soffrir ch’innanzi passi.
Qual dal bel fianco la faretra scioglie,
qual gli trae la cintura, e qual le spoglie.
CANTO OTTAVO
453
43. A l'importuno stuol che l’incatena
non senza scorno il Giovinetto cede;
e salvo un lento vel, che ’l copre a pena,
nudo si trova da la testa al piede.
Gira la vista allor lieta e serena
a la sua Diva, e nuda anco la vede,
ch’ogni sua parte più secreta e chiusa
confessa agli occhi, ed a la selva accusa.
44. Ella tra '1 verde de l’ombrosa chiostra
vergognosetta trattasi in disparte,
sue guardinghe bellezze or cela, or mostra,
fa di se stessa in un rapina e parte.
Impallidisce, indi i pallori mostra,
sembra caso ogni gesto, ed è tutt’arte.
Giungon vaghezza ai vaghi membri ignudi
consigliati disprezzi, incolti studi.
45. Copriala a prova ogni arboscel selvaggio
con braccia di frondosa ombra conteste,
però che ’l Sol con curioso raggio
spiar volea quella beltà celeste.
Videsi di dolcezza ancora il faggio,
il faggio, onde pendean l’arco e la veste,
non possendo capir quasi in se stesso,
far più germogli, e divenir più spesso.
46. 11 groppo allor, che ’n su la fronte accolto
stringea del crine il lucido tesoro,
con la candida man lentato e sciolto
sparse Ciprigna in un diluvio d’oro;
onde a guisa d’un vel dorato e folto
celando il bianco sen tra Tonde loro,
in mille minutissimi ruscelli
dal capo scaturir gli aurei capelli.
454
I TRASTULLI
47. Celò ’l bel sen con l’aureo vel, ma come,
appiattando la testa in cespo erboso,
invan l’augel che trae di Fasi il nome
crede tutto a chi ’l mira essersi ascoso;
così se ben de le diffuse chiome
fece a l’altre bellezze un manto ombroso,
scopriva intanto in fra quell’ombre aurate
sol nel Sol de’ begli occhi ogni beltate.
4S. Oltre che di quel Sol chiaro e sereno
quella nube gentil non splendea manco.
Ella pur cerca or il leggiadro seno
velarsi, or il bel tergo, or il bel fianco.
Ma le fila de l'or tenersi a freno
su l’avorio non san lubrico e bianco;
e quel che di coprir la man si sforza,
audace venticel discopre a forza.
49. Vanno al gran Bagno. Or da Cantiche carte
di Baia e Cuma il paragon si taccia.
In un quadro perfetto ò con bell’arte
disposto, ed ogni fronte è cento braccia.
Di ben commodi alberghi in ogni parte
cinto, e tre ne contien per ogni faccia.
Camere e logge in triplicata fila
vi stanno, ed ogni stanza ha la sua pila.
50. In mezo a l’edificio alto si scorge
piantato di diaspro un gran pilastro,
per le cui vene interne il fonte sorge,
forate sì da diligente mastro
che per dodici canne intorno porge
Tacque in vasi d’acate e d'alabastro.
È d’argento ogni canna assai ben tersa,
come d’argento son Tacque che versa.
CANTO SETTIMO
455
51. Vansi Tacque a versar, ma pigre e lente,
in ampie conche di forbiti sassi,
sì che raccor si può Iunior cadente
da Tordin primo de’ balcon più bassi.
Pigra dico sen va l'onda lucente,
e move tardi i cristallini passi,
ché ’n sì ricco canal mentre s'aggira,
le sue delizie ambiziosa ammira.
52. E quindi poscia per occulta tromba
a sua propria magion passa ciascuna,
e traboccando con fragor rimbomba,
tanto lucida più, quanto più bruna.
Rassembra ogni magion spelonca o tomba,
par la luce del Sol luce di Luna:
pallido v’entra per anguste vie,
tanto che non v’è notte, e non v’è die.
53. 11 portico, a cui l'onda in grembo piove,
serie di curvi fornici sostiene.
Fregiano il muro interior, là dove
Tumido gorgo a scaricar si viene,
marmi dipinti in strane fogge e nove
di belle macchie e di lucenti vene.
Lusingan d'ognintorno i bei riposi
covili opachi, e molli seggi ombrosi.
54. Ma null'opra mortai l’arte infinita
de la cava testudine pareggia,
che di pietre mirabili arricchita
splende, e gemma plebea non vi lampeggia.
V’ha quel che '1 ciel, v’ha quel che l’erba imita,
v’ha quel ch’emulo al foco arde e rosseggia.
Stucchi non v’ha, ma di sottil lavoro
smalti sol coloriti in lame d’oro.
45Ò
I TRASTULLI
55. Tra’ bei confin de le gemmate rive
sì serena traspar l’onda raccolta,
che i non suoi fregi usurpa, e ’n sé descrive
tutti gli onor de la superba volta.
Non tanto forse in sì bell’acque e vive
sdegneria Cinthia esser veduta e còlta.
Forse in acque sì belle il suo bel viso
meglio ameria di vagheggiar Narciso.
50. Quinci (penso) adivien, che la loquace
già ninfa, che per lui muta si tacque,
d’abitar fatta voce or si compiace
dov’ei di vaneggiar già si compiacque.
Quivi de' detti estremi ombra seguace
d’arco in arco lontan fugge per Tacque;
e qual d’Olimpia entro l’eccelsa mole,
moltiplica risposte a le parole.
57. Venne allor l’una coppia, e l’altra scòrse
de’ bei lavacri al più vicin recesso;
né molto andò, che quindi uscir s’accorse
d’accenti e baci un fremito sommesso.
Adone a quella parte il passo torse
tanto che per veder si fé’ da presso.
Vide, e gli cadder gli occhi in fondo al fonte,
tanta vergogna gli gravò la fronte.
58. Su la sponda d’un letto ha quivi scorto
libidinoso Satiro e lascivo
eh a bellissima Ninfa in braccio attorto
il fior d’ogni piacer coglie furtivo.
Del bel tenero fianco al suo conforto
palpa con una man l’avorio vivo,
con l’altra, ch’ad altr’opra intenta accosta,
tenta parte più dolce, e più riposta.
CANTO OTTAVO
457
59. Tra’ noderosi e nerboruti amplessi
del robusto amator la giovinetta
geme, e con occhi languidi e dimessi
dispettosa si mostra e sdegnosetta.
Il viso invola ai baci ingordi e spessi,
e nega il dolce, e più negando alletta;
ma mentre si sottragge, e gliel contende,
ne le scaltre repulse i baci rende.
60. Ritrosa a studio, e con sciocchezze accorte
svilupparsi da lui talor s’infinge,
e ’ntanto tra le ruvide ritorte
più s’incatena, e più l’annoda e cinge,
in guisa tal, che non già mai più forte
spranga legno con legno inchioda e stringe.
Flora non so, non so se Frine o Thaide
trovar mai seppe oscenità sì laide.
61. Serpe nel petto giovenile e vago
l'alto piacer de l’impudica vista,
ch’a le forze d’Amor Tiranno e Mago
esser non può, ch’un debil cor resista;
anzi da l'ésca de la dolce imago
l’incitato desio vigore acquista;
e stimulato al naturai suo corso,
meraviglia non fia, se rompe il morso.
6z. E la sua Dea, che d’amorosi nodi
ha stretto il core, a seguitarlo intenta,
con detti arguti e con astuti modi
pur tra via motteggiando il punge e tenta.
Godi pur — dicea seco —, il frutto godi
de’ tuoi dolci sospir, coppia contenta.
Sospir ben sparsi, e ben versati pianti,
felici amori, e più felici amanti.
I TRASTULLI
45 s
63 Sia Fortuna per voi. Non so se tanto
fia cortese per me chi m'imprigiona. —
Cosi favella al suo bel Sole a canto,
e sorride la Dea, mentre ragiona,
facendo pur del destro braccio intanto
al suo fianco sinistro eburnea zona.
E già colei che gl’introdusse quivi
spargea dal suo focil mille incentivi.
64. Come fiamma per fiamma accresce foco,
come face per face aggiunge lume,
o come geminato a poco a poco
prende forza maggior fiume per fiume;
così ’l fanciullo a l’inonesto gioco
raddoppia incendio, e par che si consume:
e tutto in preda a la lascivia ingorda
de la modestia sua non si ricorda.
65. Già di se stesso già fatto maggiore
drizzar si sente al cor l’acuto strale,
tanto ch’ornai di quel focoso ardore
a sostener lo stimulo non vale;
ond’anelando il gran desir, che ’l core
con sollecito spron punge ed assale,
e bramoso di farsi a pien felice,
pur rivolto a la Dea, la bacia, e dice:
66. — Io moro, io moro oimè, se non mi dona
oportuna pietà matura aita.
Se di me non vi cal, già si sprigiona,
già pendente al suo fin corre la vita.
Ferve la fiamma, ed imminente e prona
l’anima già prorompe in su l'uscita.
Quella beltà, per cui convien ch’io mora,
suscita con gli spirti i membri ancora.
CANTO OTTAVO
459
67. Tosto ch’a dolce guerra Amor protervo
mi venne oggi a sfidar con tanti vezzi,
tesi anch'io l’arco, ed or già temo il nervo
per soverchio rigor non mi si spezzi.
Non posso più, de l’umil vostro servo
il troppo ardir non si schernisca o sprezzi,
che vorria pur (come veder potete)
de la gloria toccar l’ultime mete. —
68. Così parlando, e de la lieve spoglia
la falda alquanto in languid'atto aperta,
Timpazienza de l’accesa voglia
senz’alcun vel le dimostrò scoverta.
— Soffri — diss’ella allor — fin che n’accoglia
apparecchio miglior: la speme è certa.
Da la Commodità, mia fida ancella,
data in breve ne fia stanza più bella.
69. Ritardato piacer (portalo in pace)
ne le dilazi'on cresce non poco.
Bastiti di saver, che mi disface
di reciproco amor scambievol foco.
Teco in su l’ora de la prima face
m’avrai (ti giuro) in più secreto loco.
Fa’ pur buon cor, tien la mia fede in pegno,
tosto averrà che ’n porto entri il tuo legno. —
70. Come a fiero talor Veltro d’Irlanda
buon Cacciator, che ’nfuriato il veda,
ben che venga a passar da la sua banda
vicina assai la desiata preda,
la libertà però, che gli dimanda,
non così tosto avien che gli conceda,
anzi fermo e tenace ad ogni crollo
tira il cordon, che gl’imprigiona il collo:
460
I TRASTULLI
71. così né men, per più scaldar l’affetto,
nel diffidi goder l'amante accorta,
mentr’ei volea del suo maggior diletto
con la chiave amorosa aprir la porta,
di quel primo appetito al Giovinetto
l’impeto affrena, e ’l bacia, e ’l riconforta.
Poi con la bella man quindi il rimove,
e l’invita a girar le piante altrove.
7 2. Può da que’ chiusi alberghi a l'ampia corte
libero uscir per più d’un uscio il piede;
e scritta de le stanze in su le porte
d’ogni lavanda la virtù si vede.
Ciascun’acqua ha virtù di varia sorte,
come l’esperienza altrui fa fede.
Qual vigor, qual sapore in sé contegna
il tatto e ’l gusto espressamente insegna.
73. Oh miraeoi gentil, vena che scorre
d’un sasso solo in varie urne stillante,
come possa distinte in sé raccòrre
doti diverse, e qualità cotante.
Chi può di tutte i propri effetti esporre ?
Qual più, qual meno è gelida o fumante,
altra più torbidetta, altra più chiara,
altra dolce, altra salsa, ed altra amara.
74. La tempra di quell’onde, ove fu posta
la bella Dea con l’Idol suo gradito,
del fonte insidioso era composta
che congiunse a Salmace Hermafrodito,
e ’n sé tenea proprietà nascosta
di rinfiammare il tepido appetito:
oltre l’erbe ch’infuse erano in essa,
dotate pur de la virtute istessa.
CANTO OTTAVO
461
75. V’era il Fallo e ’1 Satino, in cui figura
oscene forme il fiore e la radice.
La Menta, che salace è per natura,
l’Eruca degli amori irritatrice.
E v’era d'altri semplici mistura,
già di Lampsaco còlti a la pendice.
Amor, ma dimmi tu nel bel lavacro
qual fu nudo a veder quel corpo sacro.
76. Non cosi belle con le chiome sparse
quando a la prima ingiuria il mar soggiacque
ai Duci d'Argo vennero a mostrarse
le vezzose Nereidi in mezo a Tacque.
Tal mai non so, se la sua stella apparse
qualor da l’Ocean più chiara nacque.
Pare il bel volto il Sol nascente, e pare
il seno l’Alba, e quella conca il mare.
77. Simulacro di Ninfa, inciso e fatto
di qual manno più terso in pregio saglia,
posto in ricca fontana, o bel ritratto
d’avorio fin, cui nobil fabro intaglia,
somiglia a punto a la bianchezza, a Tatto,
se non che ’l moto sol la disagguaglia ;
e la fan differir dal sasso scolto
Toro del crin, la porpora del volto.
78. Al folgorar de le tremanti stelle
arser gli umori algenti e cristallini,
ed avampàr d’insolite fiammelle
Tumide pietre, e i margini vicini.
Vedeansi accese entro le guance belle
dolci fiamme di rose e di rubini,
e nel bel sen per entro un mar di latte
tremolando nuotar due poma intatte.
4 Ó2
I TRASTULLI
79. Or, qual Fortuna, in su la fronte ammassa
l’ampio volume de la treccia bionda.
Or, qual Cometa, andar parte ne lassa
dopo le terga ad indorar la sponda.
Aura talor, che la scompiglia e squassa,
fa rincresparla ed ondeggiar con l’onda,
onde il crin rugiadoso e sparso al vento
oro parea, che distillasse argento.
50. Parea, battuta da beltà sì cara,
disfarsi di piacer l’onda amorosa,
e bramava indurarsi, e spesso avara
in sen la si chiudea, quasi gelosa.
Chiudeala, ma qual prò, s’era sì chiara
che mal teneala al bell’Adone ascosa?
Però che tralucea nel molle gelo
come suol gemma in vetro, o lampa in velo.
51. Oh qual gli move al cor lascivo assalto
l’atto gentil, mentre si lava e terge!
Or np l'acque s’attufìa, or sorge in alto,
or le vermiglie labra entro v’immerge,
or di quel molle e cristallino smalto
con la man bianca il caro amante asperge,
or il sen se ne spruzza, ed or la fronte,
e fa d’alto piacer piangere il fonte.
82. Adone anch’egli de’ leggiadri arnesi
scinto, e pien di stupore e di diletto,
sotto effigie gelata ha spirti accesi,
agghiacciando di fore, arde nel petto;
e mentre ha gli occhi al suo bel foco intesi,
svelle da le radici un sospiretto
così profondo e fervido d’amore,
che par che sospirar si voglia il core.
CANTO OTTAVO
4 6 3
83. — Ahi qual m’abbaglia — sospirando dice —
folgore ardente, e candido baleno ?
Quai vibrar veggio, spettator felice,
fiamme i begli occhi, e nevi il bianco seno?
Forse del Ciel de Tacque abitatrice
fatta è quest’alma, o questo è un Ciel terreno?
Traslato è in terra il Ciel. Venga chi vole
in Aquario quaggiù vedere il Sole.
84. Beltà (cred'io) non vide in vai di Xanto
Paride tal ne la medesma Diva;
né d’amoroso foco arse cotanto
quando mirò la mal mirata Argiva,
qual io la veggio allettatrice, e quanto
sento l’alma stemprarmi in fiamma viva:
fiamma, di cui maggior non so se fusse
quella che la sua patria arse e distrusse.
85. Dimmi, Padre Xettun, se ti rimembra
quand’ella uscì de le tue salse spume,
di’ se vedesti ne le belle membra
tanto splendore accolto, e tanto lume.
Dimmi tu Sol, quella beltà non sembra
oggi maggior del solito costume ?
maggior che quando in Ciel fosti di lei
invido testimonio agli altri Dei ?
86. Fosti men fortunato, Endimione,
indegno di mirar quel ch’oggi io miro,
quando a te scese dal sovran balcone
la bianca Dea de l’argentato giro.
Cedimi cedi, o misero Attheone,
ch’io per più degno oggetto ardo e sospiro;
e differente è ben la nostra sorte:
ch’io ne traggo la vita, e tu n’hai morte.
I TRASTULLI
O bellezza immortal, perché ne Tonde
ti lavi tu, se son di te men pure ?
L’acque a le macchie tue divengon monde,
e fansi belle con le tue brutture.
Deh poi ch’a sì soavi e sì seconde
destinato son io gioie e venture,
ch’io ti lavi e t’asciughi ancor consenti
con vivi pianti, e con sospiri ardenti.
E s’è ver che ne’ fonti anco e ne’ fiumi
amoroso talor foco sfavilli,
fa’ che com’Aci in acqua io tni consumi,
e com’Alfeo mi liquefaccia e stilli.
Forse raccolto tra’ cerulei Numi,
mirando i fondi miei chiari e tranquilli,
fia che ne la stagion contraria al ghiaccio
la bella fiamma mia mi guizzi in braccio. —
Così discorre, e ’ntanto i freddi umori
prendon vigor da Tamorose faci.
Amor gli stringe, e stringe i corpi e i cori
con lacci indissolubili e tenaci.
Del nodo che temprò que’ fieri ardori
fe’ catene le braccia, e groppi i baci;
e con la propria benda ai vaghi amanti
forbì le membra gelide e stillanti.
Giunto era il Sol del gran viaggio al fine
lasciando al suo sparir smarriti i fiori.
Facean scorta ai silenzii ed a le brine
l’ombre volanti e i sonnacchiosi orrori.
Chiudea la Notte in bruno velo il crine
mendica de’ suoi soliti splendori,
ché la stella d’Amor d’amore accesa
in ciel non venne, ad altro ufficio intesa.
CANTO OTTAVO
4^5
91. Cameretta riposta, ove consperse
olezzan l’aure d’aliti soavi,
ai solleciti cori Amor aperse,
Amor l’uscier, che ne volgea le chiavi.
Tutte incrostate, e qual diamante terse,
v'ha di fino cristallo e mura e travi,
che con lusso superbo, ov’altri miri,
son specchi agli occhi, e mantici ai desiri.
92. Talamo sparso di vapor Sabeo
cortine ha qui di porpora di Tiro.
Quel che per Arianna e per Lieo
d'indiche spoglie le Baccanti ordiro,
quel ch’a Theti le Ninfe ed a Peleo
fabricàr di corallo e di zaffiro,
povero fora al paragon del Letto
ch’è da le Grazie ai lieti amanti eretto.
93. Splende il Letto reai di gemme adorno,
e colonne ha di cedro e sponde d’oro.
Panno le coltre a l’Oriente scorno,
vincono gli origlieri ogni tesoro.
Purpurea tenda gli distende intorno
fregiato un Ciel di Barbaro lavoro.
Biancheggiano fra gli ostri e fra i rubini
morbidi bissi, ed odorati lini.
94. Quattro strani sostegni ha ne’ cantoni,
su le cui cime il padiglion s’appoggia.
Son fatti a guisa d’arbori a tronconi
d’oro e smeraldo in disusata foggia.
Qui quasi in verdi e concave prigioni
stuol d’augellini in fra le fronde alloggia,
onde s’alcun talor scote la pianta,
ode concerto angelico che canta.
30
466
I TRASTULLI
95. Questo fu il porto, che tranquillo accolse
la nobil coppia dal dubbioso flutto.
Qui del seme d’Amor la messe colse,
qui vendemmiò de 1 suoi sospiri il frutto;
qui, tramontando il Sol, Yener si tolse
d’Adon più volte il bel possesso in tutto;
e qui per uso al tramontar di quello
spuntava agli occhi suoi l’altro più bello.
96. Da che la queta oscura umida madre
del silenzio e del sonno i colli adombra,
fin che le bende tenebrose ed adre
il raggio mattutin lacera e sgombra,
di quelle membra candide e leggiadre
gode la Dea gli abbracciamenti a l’ombra,
senza luce curar, se non la cara
luce che le sue tenebre rischiara.
97. E da l'Orto ancor poi fin a l’Occaso
sei cova in grembo, e con le braccia il fascia.
'xulic c Cii Sciiipr è 56CG C 3C pCT CcLSG
di necessario affar talvolta il lascia,
che sia brev’ora senza lei rimaso
sentesi sospirar con tanta ambascia,
ch’aver sembra nel cor la fiamma tutta
che Troia accese, e Mongibello erutta.
98. Quando il rapido Sol per dritta verga
poggiando a mezo ’l ciel fende le piagge,
là 've de’ monti le frondose terga
tesson verde prigion d’ombre selvagge,
per soggiornar dove il suo bene alberga
solitaria sovente il piè ritragge,
e gode o lungo un fiume o sotto un speco
partir l’ore, i pensieri e i detti seco.
CANTO OTTAVO
467
99. E sempre in suo desir costante e salda
o siede, o giace, o scherza il dì con esso.
Concorde a Tacque de l’ombrosa falda
freme de’ baci il mormorar sommesso.
Xé raggio d’altro Sol la fiede o scalda,
che de’ begli occhi, in cui si specchia spesso;
né su ’l meriggio estivo aura cocente,
se non sol quella de’ sospir, mai sente.
100. Yassene poi per questa riva e quella
Torme seguendo de l’amante piante,
predatrice di fere ardita e bella,
del caro predator compagna errante,
e l’arco in mano, al fianco le quadrella
porta talor del fortunato amante:
tal ch’ogni Fauno ed ogni Dea silvana
gli crede, Apollo l’un, l’altra Diana.
101. Cosi qualor Giovenca giovinetta
sen va per campi solitari ed ermi,
tenera sì, che calpestar l’erbetta
ancor non sa con piè securi e fermi,
né curva in sfera ancor piena e perfetta
de la fronte lunata i novi germi,
seguela, ovunque va, per la verdura
la torva madre, e la circonda e cura.
102. l'atta gelosa è sì di quel bel volto,
che teme Amor d’amor non se n’accenda.
Teme non Borea in turbine disciolto
da le nubi a rapirlo in terra scenda.
'Teme non Giove in ricca pioggia accolto
a sì rara bellezza insidie tenda.
' 'orria poter celar luci sì belle
a la vista del Sole, e de le stelle.
4 68
I TRASTULLI
103. Se si rischiara il mondo, o se s’imbruna,
spieghi o pieghi la Notte il fosco velo,
de l’Aurora ha sospetto e de la Luna,
ch’a lei noi furi, e non sei porti in Cielo.
Odia, come rivai, l'Aura importuna,
gli augelli, i tronchi, i fior l’empion di gelo.
Ha quasi gelosia de’ propri baci,
de’ propri sguardi suoi troppo voraci.
104. Sotto le curve e spaziose spalle
d’un incognito al Sol poggio frondoso
cinto da cupa e solitaria valle
s’appiatta in cavo sasso antro muscoso.
Raro de’ suoi recessi il chiuso calle
altri tentò, che ’l Sonno, e che ’l Riposo.
L’ombre sue sacre, i suoi riposti orrori
e Fere reveriscono, e Pastori.
103. Questo (l’Arte imitando) avea Natura
di rozi fregi a meraviglia adorno.
L’avea con vaga e luslica pilluxa
sparso di fronde e fior dentro e dintorno.
Gli fea d’appio e di felce un’ombra oscura
schermo a l’ingiurie del cocente giorno.
Difendea l’Edra incontrali Sol l’entrata
di cento braccia e cento branche armata.
106. Qui spesso ricovrar da’ campi aprici
la bellissima coppia avea costume,
e ’n liet’ozio passar l’ore felici,
secura da l’ardor del maggior lume.
Eran de’ sonni lor l’aure nutrici,
cortinaggi le fronde, e l'erbe piume,
secretarie le valli e le montagne,
e Terme solitudini compagne.
CANTO OTTAVO
469
107. Incontro al biondo Arder, che folgoranti
dritto da l’arco d’or scoccava i raggi,
scudo faceano ai duo felici amanti
con torte braccia i Briarei selvaggi.
Mossi da l’aure vane e vaneggianti
con alterni sussurri abeti e faggi
pareano dire (e lingua era ogni fronda) :
— Più ne nutrisce Amor, che '1 Sole e l’onda. —
108. Or quivi un dì fra gli altri ecco che stanco
tornar di caccia ed anelante il vede.
L’or biondo e crespo, il terso avorio e bianco
tre volte e quattro a rasciugar gli riede.
Gli fa catena de le braccia al fianco,
sei reca in grembo, e ’n grembo a l’erba siede;
e ’n vagheggiando lui, che l'invaghisce,
pur com’Aquila al Sol, gli occhi nutrisce.
109. Tien le luci a le luci amate e fide
congiunte, il seno al seno, il viso al viso.
Divora e bee, qualora ei bacia o ride,
con la bocca e con l’occhio il bacio e ’l riso.
— Deh chi dagli occhi miei pur ti divide,
o non da’ miei pensier già mai diviso?
Qual altra esser può mai cura che vaglia
a far che del mio duol nulla ti caglia?
110. Or m’aveggio ben io, che d'egual foco
(chi creduto l’avria?) meco non ardi.
e che formi talor, sì come poco
avezzo a ben amar, vezzi bugiardi;
poi che posposto a la fatica il gioco,
da le tue cacce a me torni sì tardi;
e curi (come suole ogni fanciullo)
più che tutt’altro, un pueril trastullo. —
4?o
X TRASTULLI
in. Così dicendo, col bel vel pian piano
gli terge i molli e fervidi sudori:
vive rugiade, onde il bel viso umano
riga i suoi freschi e mattutini fiori.
Poi degli aurei capei di propria mano
coglie le fila e ricompon gli errori;
e di lagrime il bagna, e mesce intanto
tra perle di sudor perle di pianto.
112. Ed egli a lei: — Deh questi pianti asciuga,
deh cessa ornai queste dogliose note.
Pria seminar di neve, arar di ruga
tu vedrai queste chiome, e queste gote,
che mai per altro amor sia posto in fuga
l’amor che dal mio cor fuggir non potè.
Se tu fiamma mia cara immortai sei,
immortali saran gl’incendii miei.
113. Per quella face ond’infiamniato io fui
giuro, e per quello strai che ’l cor m’offende.
Giuro per gli occhi e per le chiome, in cui
lo strale indora Amor, la face accende,
ch’Adon fia sempre tuo, né mai d’altrui:
tal è quel Sol ch’agli occhi suoi risplende.
S’altro che ’l ver ti giuro, o bella mia,
di superbo Cinghiai preda mi sia. —
114. Ed ella a lui: — Se tu ben mio sapessi
quanto sia dolce esser amato amando,
e quant’è duro esperienza avessi
lunge da l’amor suo girsene errando,
di scambievole amor segni più espressi
mi daresti talor meco posando,
e saremmo egualmente amanti amati
tu contento, io felice, ambo beati.
CANTO OTTAVO
471
115. È ver che nulla il bel pensiero afirena
che sempre a l'occhio il caro oggetto appressa.
In alme strette di leal catena
so che per lontananza Amor non cessa.
Dividale (se può) Libica arena.
Oceano profondo. Alpe inaccessa.
Pur lasciar il suo bene è peggio assai
che desiarlo, e non goderlo mai.
116. Oodiamci, amiamci. Amor d’Ainor mercede,
degno cambio d’Amore è solo Amore,
l’ansi in virtù d’un’amorosa lede
due alme un’alma, e son duo cori un core.
Cangia il cor, cangia l’alma albergo e sede,
in altrui vive, in se medesma more.
Abita Amor l’abbandonata salma,
e vece vi sostien di core e d’alma.
11 7. O dolcezza ineffabile infinita,
soave piaga e dilettosa arsura,
dove quasi Fenice incenerita
ha culla insieme il core, e sepoltura;
onde da duo begli occhi alma ferita
muor non morendo, e ’l suo morir non cura:
e trafitta d’Amor sospira e langue
senza duol, senza ferro, e senza sangue!
118. Cosi dolce a morir l’anima impara
ésca fatta a l’ardor, segno a lo strale,
e sente in fiamma dolcemente amara
per ferita mortai morte immortale:
morte, ch’ai cor salubre, ai sensi cara
non è morte, anzi è vita, anzi è natale.
Amor che la saetta, e che l’incende,
per più farla morir vita le rende.
I TRASTULLI
• 47 -i
iiq. Or se risponde il tuo volere al mio,
e son conformi i miei desiri ai tuoi ;
se quanto aggrada a te, tanto bram’io,
e quanto piace a me, tanto tu vuoi ;
s’è diviso in duo petti un sol desio,
ed è conimune un’anima tra noi;
se ti prendi il mio core, e ’l tuo mi dài,
perché de’ corpi un corpo anco non fai ?
120. O de l’anima mia dolce favilla,
o del mio cor dolcissimo martiro,
o de le luci mie luce e pupilla,
o mio vezzo, o mio bacio, o mio sospiro,
volgimi quegli, ond’ogni grazia stilla,
fonti di puro e tremulo zaffiro:
porgimi quella, ove m’è dato in sorte
in coppa di rubino a ber la morte.
121. Que’ begli occhi mi volgi. Occhi vitali,
occhi degli occhi miei specchi lucenti,
occhi faretre ed archi, e degli strali
intinti nel piacer fucine ardenti,
occhi del Ciel d’Amor stelle fatali
e del Sol di beltà vivi Orienti;
stelle serene, la cui luce bella
può far perpetua ecclisse a la mia stella.
122. Quella bocca mi porgi. O cara bocca,
de la reggia del Riso uscio gemmato,
siepe di rose, in cui saetta e scocca
Viperetta amorosa Arabo fiato,
arca di perle, ond’ogni ben trabocca,
cameretta purpurea, antro odorato,
ove rifugge, ove s’asconde Amore
poi c’ha rubata un’alma, ucciso un core.
CANTO OTTAVO
473
123. Tace, ma qual fia stil, che di ciascuna
paroletta il tenore a pien distingua?
Certo indegna è di lor, se non quell’una
che le forma si dolci, ogni altra lingua.
Sì parlando e mirando ebra e digiuna
pasce la sete sì, non che l’estingua:
anzi perché più arda, e si consumi,
bacia le dolci labra, e i dolci lumi.
124. Bacia, e dopo ’l baciar mira e rimira
le baciate bellezze or questi, or quella.
Ribacia, e poi sospira e risospira
le gustate dolcezze or egli, or ella.
Yivon due vite in una vita, e spira
confusa in due favelle una favella.
Giungono i cori in su le labra estreme,
corrono l’alme ad intrecciarsi insieme.
125. Di note ad or ad or tronche e fugaci
risona l’antro cavernoso e scabro.
— Dimmi o Dea — dice l’un —, questi tuoi baci
movon così dal cor, come dal labro? —
Risponde l’altra: — Il cor ne le mordaci
labra si bacia. Amor del bacio è fabro.
Il cor lo stilla, il labro poi lo scocca,
il più ne gode l’alma, il men la bocca.
126. Baci questi non son, ma di concorde
amoroso desio loquaci messi.
Parlan tacendo in lor le lingue ingorde,
ed han gran sensi in tal silenzio espressi.
Son del mio cor, che ’l tuo baciando morde,
muti accenti i sospiri e i baci istessi.
Rispondonsi tra lor l’anime accese
con voci sol da lor medesme intese.
474
I TRASTULLI
127. Favella il bacio, e del sospir, del guardo
(voci anch’essi d’Amor) porta le palme,
perch’al centro del cor premendo il dardo
su la cima d’un labro accoppia l'alme.
Che soave ristoro al foco ond’ardo,
compor le bocche, alleggerir le salme?
le bocche, che di nèttare bramose
han la sete e ’l licor, son api e rose.
128. Quel bel vermiglio, che le labra inostra,
alcun dubbio non ha che sangue sia.
Or se nel sangue sta l’anima nostra,
sì come i saggi pur voglion che stia,
dunque qualor baciando entriamo in giostra,
bacia l’anima tua l’anima mia,
e mentre tu ribaci, ed io ribacio,
l’alma mia con la tua copula il bacio.
129. Siede nel sommo de l’amate labbia,
dove il fior degli spirti è tutto accolto,
come corpo animato in sé pur abbia,
il bacio, che da i'anima vien tolto.
Quivi non so d’Amor qual dolce rabbia
l’uccide, e dove muor resta sepolto:
ma là dove ha sepolcro, ancora poi,
baci divini, il suscitate voi.
130. Mentre a scontrar si va bocca con bocca,
mentre a ferir si van baci con baci,
sì profondo piacer l’anime tocca,
ch’apron l’ali a volar, quasi fugaci;
e di tanta che ’n Ior dolcezza fiocca
essendo i cori angusti urne incapaci,
versanla per le labra, e vanno in esse
anelando a morir l’anime istesse.
CANTO OTTAVO
131. Treman gli spirti in fra i più vivi ardori
quando il bacio a morir l’anima spinge.
Mutan bocca le lingue, e petto i cori,
spirto con spirto, e cor con cor si stringe.
Palpitan gli occhi, e de le guance i fiori
amoroso pallor scolora e tinge;
e morendo talor gli amanti accorti
ritardano il morir, per far due morti.
132. — Da te l’anima tua morendo fugge,
io moribonda in su ’1 baciar la prendo,
e ’n quel vital morir, che ne distrugge,
mentre la tua mi dai, la mia ti rendo;
e chi mi mira sospirando, e sugge,
suggo, sospiro anch’io, miro morendo;
e per morir, quando ti bacio e miro,
vorrei ch’anima fusse ogni sospiro. —
133. — Fa’ dunque anima mia — l’altro le dice
ch’io con vita immortai cangi la morte.
Voli l’anima al Ciel sì che felice
sia degli eterni Dei fatta consorte.
Fa' ch'io viva, e ch’io mora, e (se ciò lice)
fa’ ch’io riviva poi con miglior sorte.
Dolcemente languendo, a l’istess’ora
fa’ che ’n bocca io ti viva, in sen ti mora.
134. Un albergo medesmo in que’ dolci ostri
unisca il mio desir col tuo desire.
Le nostr'anime, i cor, gli spirti nostri
vadano insieme a vivere e morire.
Ferito a un punto il feritor si mostri,
péra la feritrice in su ’l ferire;
onde, mentre ch’io moro, e che tu mori,
ravivi il morir nostro i nostri ardori.
I TRASTULLI
476
135. Sostien’, Diletta mia, ch’a mio diletto
senza cessar da le tue labra io penda.
Ma col labro vermiglio il bianco petto
avarizia d’Amor non mi difenda.
Né que’ begli occhi al mio vorace affetto
dispettoso rigor (prego) contenda.
Morendo io vivrò in te, tu in me vivrai,
così ti renderò quanto mi dài.
136. Se nulla è in noi di nostro, e non v’ha loco
cosa che possa tua dirsi, né mia;
se ’l mio cor non è mio molto né poco,
come ’l tuo credo ancor, che tuo non sia;
poi che tu sei mia fiamma, io son tuo foco,
e ciò che brama l’un, l’altro desia;
poi che di propria mano Amor ha fatto
e fermato tra noi questo contratto:
137. consenti pur, ch’io ti ribaci, e dammi
ch’io te, come tu me, stringa ed abbracci.
Pungi, ferisci, uccidi, e svenir fammi
fin che l’anima sudi, e ’l core agghiacci.
Te l’ardor mio, me la tua fiamma infiammi,
e me teco, e te meco un laccio allacci.
Perpetuo moto abbian le lingue, e doppi
sien de le braccia e de le labra i groppi.
138. Per mezo i fior de le tue labra molli
Amor qual augellin vago e vezzoso
con cento suoi fratei lascivi e folli
vola scherzando, e vi tien l’arco ascoso.
Né vuol ch’io le mie fami ivi satolli,
de le dolcezze sue quasi geloso,
ché tosto ch’io per mitigar l’ardore
ne colgo un bacio, ei mi trafige il core.
CAXTO OTTAVO
477
139. Ma qualor da lui scampo, e là rifuggo,
dov’ha più di vermiglio il tuo bel viso,
più dolce ambrosia (oh me beato) io suggo
di quella che si gusta in Paradiso.
Zefìretto soave, ond’io mi struggo,
sento spirar de le tue rose al riso,
lo qual del foco, che ’l mio cor consuma,
ventilando l’ardor, vie più l’alluma.
140. Xo che baci non son questi ch’io prendo,
son de la dolce Arabia aure odorate,
d'una soavità ch’io non intendo,
più che di cinnamomo, imbalsamate.
Son profumi d’Amor, ch’ei va traendo
da l’incendio de l’alme innamorate.
Par ch’abbia in queste porpore ricetto
quanto mèle han Parnaso, Hibla ed Himetto.
141. Felice me, che meritar potei
quel dolce mal, che tanto ben m’ha fatto.
Ma son ben folle ne’ diletti miei,
che bacio e parlo in un medesmo tratto.
È sì grande il piacer, che non vorrei
la mia bocca occupar fuor che ’n quest'atto.
E con la bocca istessa il cor si dole
quando i baci dan luogo a le parole. —
142. — Ed io — dic’ella — che fruir mi vanto
gloria infinita in que’ superni seggi,
non provo colassù diletto tanto,
ch’a la gioia presente si pareggi.
Prendi pur ciò che chiedi, e chiedi quanto
di me ti piace, a tuo piacer mi reggi.
Ecco a picciole scosse a te mio bene
sospirando, e tremando, il cor sen viene.
I TRASTULLI
478
143. Deh nel core (o mio core) ornai m’aventa
quella lingua d’Amor dolce saetta,
e ’n cote di rubino aguzzar tenta
la punta, ch’a morir dolce m’alletta;
e fa’, tanto ch’anch’io morir mi senta,
del tuo dolce morir dolce vendetta.
Serpe sembri al ferir, ché ben ascose
stan sovente le Serpi in fra le rose.
144. E se, perch’ella è velenosa e schiva,
forse imitar la Vipera ti spiace,
movila almen, si come suol lasciva
coda guizzar di Rondine fugace.
O pur qual fronda di novella Oliva
rincresparla t’insegni Amor sagace.
Vibrala sì, che la tua bocca arciera,
emula de’ begli occhi, il cor mi fèra. —
145. — Non sono — egli ripiglia — or non son questi
gli occhi, onde dolci al cor strali mi scocchi?
cdi occhi, onde dolce il cor dianzi m’ardesti?
Begli occhi. — E ’n questo dir le bacia gli occhi.
— Begli occhi -— ella soggiunge — occhi celesti,
cagion che di dolcezza il cor trabocchi.
Core, ond’io vivo senza cor, tesoro
ond'io povera son, vita ond’io moro. —
146 Allora il Vago: — Anzi tu sol, tu sei
quel core onde ’l mio cor vita riceve.
Cor mio ... — Più volea dir, quando colei
la parola in un bacio, e ’l cor gli beve.
Ella per lui si strugge, egli per lei,
coma raggio di Sol falda di neve.
Suonano i baci, e mai dal cavo speco
forse a più dolce suon non rispos’Eco.
CANTO OTTAVO
479
147. Fa un groppo allor de l’un e l’altro core
quel sommo del piacer, fin del desio.
Formano i petti in estasi d’Amore
di profondi sospiri un mormorio.
Stillansi l'alme in tepidetto umore,
opprime i sensi un dilettoso oblio.
Toman fredde le lingue, e smorti i volti,
e vacillano i lumi al ciel travolti.
148. Tramortiscon di gioia ebre e languenti
l’anime stanche, al Ciel d'Amor rapite.
Gl’iterati sospiri, i rotti accenti,
le dolcissime guerre e le ferite,
narrar non so. Fresche aure, onde correnti,
voi che ’l miraste, e ben l'udiste, il dite.
Voi secretari de’ felici amori
verdi mirti, alti pini, ombrosi allori.
149. Ma già fugge la luce, e l’ombra riede,
e s’accosta a Marocco il Sole intanto.
Imbrunir d’Oriente il Ciel si vede,
cangia in fosco la terra il verde manto.
Già cede al Grillo la Cicala, e cede
il Rossignuolo a la Civetta il canto,
che garrisce le stelle, e dice oltraggio
del bel Pianeta al fuggitivo raggio.
LA FONTANA D’APOLLO
CANTO NONO
ALLEGORIA
Nella persona di Fileno (nome derivato dall’amore) il Poeta
descrive se stesso con gran parte degli avvenimenti della sua vita.
Fingesi Pescatore per aver egli il primo (almeno in quantità) com¬
poste in volgar lingua poesie marittime. La Fontana d'Apollo in
Cipro altro non importa che la copia della vena poetica, la quale
oggidì sovrabonda per tutto, massime in materie liriche, ed amo¬
rose. L’armi intagliate in essa son simulacri di nove famiglie d’al-
cuni Prencipi principali d’Italia, protettori delle Muse Italiane,
cioè Savoia, Este, Gonzaga, Rovere, Farnese, Colonna, Orsino,
[Doria], e precisamente Medici; sì come l’insegna de’ Gigli scolpita
a piè d’Apollo istesso rappresenta lo scudo della casa reale di
Francia. La lite de’ Cigni esprime il concorso d’alcuni buoni Poeti
Toscani, che gareggiano nella eccellenza, cioè il Petrarca, Dante,
il Boccaccio, il Bembo, il Casa, il Sannazaro, il Tansillo, l’Ariosto,
il Tasso, ed il Guarini. Nel Gufo e nella Pica si adombrano qualche
Poeta goffo moderno, e qualche Poetessa ignorante.
ARGOMENT O
Vanno al Fonte d'Apollo i fidi amanti,
mirano l’armi de’ più degni Eroi.
Quivi in forma di Cigni ascoltai» poi
de’ Toscani Poeti i versi e i canti.
1. Occhi, in cui nutre Amor fiamma gentile
ond’io quest’alma in vital rogo accesi,
volgete (prego) a la mia cetra umile,
mentre al canto l’accordo, i rai cortesi.
Voi mi deste l’ingegno, e voi lo stile,
da voi le carte a ben vergare appresi ;
e se v’ha stilla di purgato inchiostro,
prende sol qualità dal nero vostro.
2. Voi siete i sacri fonti, ove per bere
corro sovente e gli arsi spirti immergo.
Sotto i begli archi de le ciglia altere
più ch’a l’ombra de’ lauri, 1 fogli vergo:
ch’aver ben donno entro le vostre sfere,
poi che v’abita il Sol, le Muse albergo;
e sento con favor pari a la pena,
donde nasce l'ardor, piover la vena.
CANTO NONO
4 S 5
3. Altri colà, dove Parnaso al Cielo
erge in due corna le frondose cime,
per coronarsi del più verde stelo
sudi a poggiar per calle erto e sublime.
Io sol del vostro altero orgoglio anelo
su '1 monte alpestro a sollevar le rime,
e vo’ che ’l guiderdon de’ miei sudori
sia corona di mirti, e non d’allori.
4. Amor solo è il mio Febo, ed Amor solo
con l’arco istesso, onde gli strali ei scocca,
perché la gloria si pareggi al duolo,
de la mia lira ancor le corde tocca.
Da l’ali del pensier, che spiega il volo
là donde poi qual Icaro trabocca,
anzi pur da la sua svelse la penna,
con cui scrivo talor quant’ei m’accenna.
5. Se fossi un degli augei saggi e canori,
ch’oggi innanzi a la Dea vengono in lite,
e ’n que’ vitali e virtuosi umori
osassi d’attuffar le labra ardite,
10 spererei non pur de’ vostri onori
note formar men basse o più gradite,
ma con stil forse, a cui par non rimbomba,
cangiar Venere in Marte, il plettro in tromba.
6. E ’l Duce canterei famoso e chiaro
che di giusto disdegno in guerra armato
vendicò del Messia lo strazio amaro
nel sacrilego popolo ostinato;
e canterei col Sulmonese al paro
11 Mondo in nòve forme trasformato.
Ma poi ch’a rozo stil non lice tanto,
seguo d’Adone e di Ciprigna il canto.
4 86
LA FONTANA D’APOLLO
7. Ecco già da la porta aurea del mondo
de le fiamme minori il sommo Duce
coronato di raggi il capo biondo
esce su i monti a publicar la luce.
Gli fa festa Natura, e dal fecondo
grembo erbette la terra e fior produce.
L’Alba il corteggia, e ’n queste parti e ’n quelle
gli fan per tutto il ciel piazza le stelle.
8. Poi ch’amboduo di quel piacer divino
han cibato il desio, ma non satollo,
sorgon col Sole, e prendono il camino
verso il Fonte mirabile d'Apollo.
Giungon là dove chiaro e cristallino
stagna un laghetto, insieme a bracciacollo,
cinto d’un prato, che di fior novelli
serba in ogni stagion mensa agli augelli.
9. Stranio carro era qui di gemme adorno
in sembianza di barca al lido avinto.
Quel de la bionda Aurora o quel del giorno
e di materia e di lavor n’è vinto.
Gran compassi ha di perle, e i chiodi intorno
tutti son di diamante e di giacinto.
11 vaso tutto è d’una conca intera,
ch’apre il capace ventre in meza sfera.
io. Altra di questa mai forse Nereo
non vide opra maggior di meraviglia
o nel ricco Oceano o ne l’Egeo
da la cerulea Theti a la vermiglia.
Nacque del fertilissimo Eritreo
(prodigio di Natura) unica figlia.
L’Arte i fregi v’aggiunse, e l’orlo e ’l giro
le 'ncoronò d orientai zaffiro.
CANTO NONO
487
11. Su basi di smeraldo e di rubino
talamo ben guernito in mezo stassi.
I seggi intorno ha di topazio fino,
d’ametisto Indi'an le rote e gli assi.
Duo mostri il tranno; han d’uomo e di delfino
questi le membra, e d’ambo un misto tassi.
Umana forma ha quella parte ch’esce
de Tacque, il deretan termina in pesce.
12. Così talor vid’io pianta feconda
quinci e quindi spiegar varia la chioma,
s’avien ch’arte cultrice in lei confonda
l’uve natie con l’adottive poma;
che mescolando il pampino e la fronda
curva le verdi braccia a doppia soma:
onde congiunte in un vagheggia Autunno
le ricchezze di Bacco, e di Vertunno.
13. Una, i’ non saprei dir se Ninfa o Diva,
dal tronco, ov'è legato, il carro slega,
e dritto ov’è la coppia, invèr la riva
le redine rivolge e ’l corso piega.
Poi con favella affabile e festiva
la ricca poppa ad aggravar lor prega.
Hidrilia ha nome, e già la bella salma
introdotta nel legno, il legno spalma.
14. Per la tranquilla e placida peschiera
ne vanno insieme a tardo solco e lento,
dove guizzano i pesci a schiera a schiera,
quasi in ciel cristallin stelle d’argento.
Adon l’amenità de la costiera
e de la conca i fregi ammira intento,
e la bella Nocchiera invitatrice
mentre siede al timon, così gli dice:
488 LA FONTANA D’APOLLO
15. — La machina, Signor, dov’entro or sei,
fu del Fabro di Lenno alto sudore.
Con questa in grazia venne, e di costei,
ch’è la madre d’Amor, comprò l’amore.
Per trarla ai poco amabili imenei
questa in dono l’offerse in un col core.
Nettuno aggiunse ai preziosi doni
vago poi di piacerle, i duo Tritoni.
16. Né sol (come tu vedi) in acqua è nave,
ma carro, ov’ella il voglia, in aria e ’n terra.
Spinta talor da dolce aura soave
per le piagge del mar trascorre ed erra.
Talor lasciando l’elemento grave,
quand’ella il volo al terzo Ciel disserra,
v’accoppia e scioglie ai Zefiri benigni
le dipinte Colombe, o i bianchi Cigni. —
17. Così ragiona, e ’ntanto attorce e stende
contesti di fin or serici stami,
ond’ai tìgli de Tacque ordisce e tende
minuti e sottilissimi legami.
Ma mentre appresta il calamo, ed intende,
Pescatrice leggiadra, a trattar gli ami.
Amor con altro laccio e con altr'ésca
di Ciprigna e d’Adon l’anime pesca.
18. In un scoglio approdò la navicella,
che quasi isola siede al lago in grembo.
Questo non osò mai ferir procella,
teme ogni Austro appressarlo, ed ogni nembo.
Né sentì mai latrar fervida stella,
né d’algente pruina asperse il lembo;
ma sprezza, avampi Sirio, o tremi Cauro,
l’inclemenza del Cancro e del Centauro.
CANTO NONO
489
19. Sporge la curva riva in fuor due braccia,
e forma un semicircolo capace,
dove quando il ciel arde, e quando agghiaccia,
sempre ha lo stagno inalterabil pace.
Placido quivi, e con serena faccia
la Dea bella imitando, il vento tace,
e vi fan Tacque a prova e gli arboscelli
ai pesci padiglion, specchio agli augelli.
20. Fiori e conche un sol margine confonde,
erba e limo congiunge un sol confine.
Spiegano Taighe, e spiegano le fronde
in un sito commune il verde crine.
Tra smeraldi e zaffir l’ombre con Tonde
scherzano gareggiando assai vicine;
ed han commercio in su le ripe estreme
le verdi Dee con le cerulee insieme.
21. Oh quante volte, allor che rosso e biondo
ride in braccio a la vite il lieto Dio,
ila l’arenoso suo gelido fondo
la vezzosa Nereida al lido uscio;
e sotto il velo, onde ricopre il mondo
la madre del silenzio e de l’oblio,
con pampini asciugando 1 membri molli
rapì l’uve mature ai dolci colli.
22. Quante, cadder tra perle e tra coralli
i pomi che pendean poco lontani,
e la vendemmia accolsero i cristalli,
già di vivo rubin gravida i grani,
Spesso strisciando per gli ondosi calli
sdrucciolaste ne Tacque o Dei silvani.
Spesso voi Fauni entro le chiare linfe
correste ad abbracciar Tumide Ninfe.
490
LA FONTANA D'APOLLO
23. Loco soviemmi aver veduto ancora
(se non quanto è su ’l fiume) a punto tale
là dove trae la bella Polidora
da la Dora e dal Po nome immortale,
de l'Augusto Signor, ch’Augusta onora,
delizia serenissima e reale;
e vi vidi sovente in ricche scene
celebrar liete danze, e liete cene.
24. Su per la riva i lucidi secreti
del bel lago spiando ignudi cori
van di fanciulli lascivetti e lieti,
anzi di lieti e lascivetti Amori.
Chi fuor de Tonde trae con lacci e reti,
chi con tremula canna il pesce fuori.
Altri con lunghe fila e ferri adunchi,
altri con gabbie di contesti giunchi.
25. Qui venne a scaricar Tonda tranquilla
del suo bel peso la barchetta estrana.
Qui scesero a veder quella, che stilla
dotto licor, sì celebre Fontana.
Vulcan, divino artefice, scolpilla,
e vinse in essa ogni scultura umana.
Così grato esser volse al biondo Dio
quando i celesti adulteri scoprio.
26. Febo poi tanto di sua grazia infuse
in quel marmoreo e limpido lavacro
che la virtù poetica vi chiuse
del suo furor meraviglioso e sacro;
e ’n compagnia de le canore Muse,
di cui tutte v’è sculto il simulacro,
k
sovente visitandolo, con esso
suol le rive cangiar del bel Permesso.
CANTO NONO
491
27. L’onda intanto gorgoglia, ed ecco allora
Sirenetta leggiadra in alto s’erge,
e veduta colei cui Cipro adora,
un’altra volta poi si risommerge.
La man carca di perle indi vien fora,
e ’l bel lido vicin tutto n’asperge;
perle rapite a l’ostriche native,
vie maggior de le noci, e de l’olive.
28. Disse la Dea: — Se pur di perle mai
iìa ch’avaro talento il cor ti tocchi,
a tua voglia sbramar qui ben potrai
l’appetito vulgar degli altri sciocchi.
Per me non ne chegg’io; n’han pur assai
la tua bocca ridente, e i miei trist’occhi.
E se nulla curiam fregi men belli,
restinsi cibo a’ miei lascivi augelli.
29. Sappi, che di ricchissime rugiade
l’India, l’Arabia, Eritra e Taprobana
tanta copia non hanno, o Paro o Cade,
o d’Austro il mare o il mar di Tramontana,
quanta in queste felici alme contrade
ne versa ognor del Ciel grazia sovrana.
Poscia in minuti globi il Sol le ’ndura,
e son de’ miei Colombi ésca e pastura.
30. Le perle, perché son d’egual bianchezza,
ama la schiera immacolata e bianca.
Così quello splendor, quella finezza
ch’ai lor primi natali in parte manca,
con doppia luce e con maggior bellezza
nel lor ventre s’adempie, e si rinfranca;
e le rimandan fuor con gli escrementi
più perfette, più pure, e più lucenti.
LA FONTANA D’APOLLO
492
31. Il coro poi, ch’è d’adornarmi avezzo,
ile le mie vaghe e leggiadrette ancelle
per fabricar pendente o compor vezzo
sceglie tra lor le più polite e belle.
l£d io più ch’altra, una tal pompa apprezzo,
perché la stirpe lor vien da le stelle,
e del cielo e del mare hanno il colore,
là dove nacque, e dove regna Amore.
32. Si per lo generoso alto concetto,
la cui primiera origine è celeste,
si per la gran virtù del bell’oggetto,
possente a confortar l’animc meste,
sì perché lo splendor reca diletto,
sogliomi compiacer forte di queste.
Queste diero la cuna al nascer mio,
queste per barca e carro ancor vols’io.
33 - Quando l’Aurora il suo purpureo velo
lava con l'onda ch’i fioretti a viva,
di mattutino umor piove dal cielo
picciola stilla in temperata riva,
e condensata in rugiadoso gelo
l’accoglie in cavo sen conca lasciva,
del cui seme gentil vien poi produtto
pari a la madre sua candido frutto.
34. Quel soave licor, ch’avida beve,
è seme, onde tal prole al mondo nasce,
ed è latte in un punto, onde riceve
virtù, che ’l parto suo nutrica e pasce.
La propria spoglia dilicata e lieve
l’avolge quasi in argentate fasce,
e con la purità de’ suoi splendori
vince de l’Alba i luminosi albori.
CANTO NONO
493
35. Pregiasi molto in lor Tesser sincere,
e d’un candor di nulla macchia offeso,
né la grossezza men, pur che leggiere
non abbian pari a la misura il peso.
Quella forma è miglior, che con le sfere
più si conforma, ond’ogni lume han preso;
e quelle son tra lor le più lodate
che soglion per natura esser forate.
36. Ma però ch’ogni bella e ricca cosa
con gran difficoltà sempre s’acquista,
questa sì cara preda e preziosa
con la fatica e col periglio è mista.
Stassene parte entro l’albergo ascosa
la perla, e parte esposta a l’altrui vista.
Su Torlo del covil che la ricetta
a la rapina il Pescatore alletta.
37. L’ingordo Pescator, ch’aperte scorge
le fauci allor de la cerulea bocca,
stende la destra (ahi temerario) e sporge
troppo a sì nobil furto incauta e sciocca :
però che come prima ella s’accorge
che man rapace il suo tesor le tocca,
comprimendo gelosa il proprio guscio
de la casa d’argento appanna l’uscio.
38. Con tanta forza Taffilato dente
stringe in un punto la mordace conca,
che tanaglia o coltel forte e tagliente
men gagliardo e men ratto afferra o tronca.
Restan l’audaci dita immantenente
recise del meschin ne la spelonca,
ben giusta pena a lo sfrenato ardire
del troppo avaro e cupido desire.
494
LA FONTANA D'ATOLLO
39. Costei però, che n’arricchì Carene,
tutte sa di tal pesca e l’arti e i modi,
e del pesce brancuto apprese ha bene
le scaltre insidie e l’ingegnose frodi,
quando il sasso tra’ nicchi a metter viene
che son de l’altrui viscere custodi,
onde passa securo entro la scorza
la sua nemica a divorar per forza.
40. Quindi suole avenir, che la Cocchiglia,
nel cui grembo si cria la margarita,
quando vede la man che già la piglia,
spesso il Castor perseguitato imita,
e de la bianca sua lucida figlia,
che generata ha sì, non partorita,
la prodiga a colei, di cui ragiono,
di spontaneo voler libero dono.
41. E se saver vuoi pur chi costei sia,
ch’è destinata ad abitar quest’acque,
figlia fu d’Acheloo, che ’n compagnia
di due gemelle sue d’un parto nacque.
Ma da Fortuna ingiuriosa e ria
la coppia a lei congiunta oppressa giacque;
e ch’ella sol giungesse a queste sponde,
fu grazia mia, che signoreggio Tonde.
42. Gli altri duo del Tirren mostri guizzanti
eran di qualità simili a questo,
attrattivi negli atti e ne’ sembianti,
donne il petto e la faccia, e coda il resto;
soavissimo rischio a’ naviganti,
doloroso piacer, scherzo funesto;
il cui cantar ne’ salsi ondosi regni
era morte a’ nocchier, naufragio a’ legni.
CANTO NONO
495
43. Ma poi ch’ogni arte lor vinse e deluse
di là passando il Peregrin sagace,
quando con cera impenetrabil chiuse
le caute orecchie a l’armonia tenace,
d'ira arrabbiate, e di dolor confuse
le disperse del mar l’onda rapace:
e (salvo questa, che campò per sorte)
per desperazion si dier la morte.
44. De le tre mezo Pesci e mezo Dive
quella che ’n questo mar gittata venne,
qui (come vedi) immortalmente vive,
ciò per pietà dal mio gran Nume ottenne.
L’altre per vari lidi e varie rive
corser, né so ben dir ciò che n’avenne.
So ben, ch’una di lor da Tonde spinta
presso Cuma e Pozzuol rimase estinta.
45. E trasportata a quella nobil sede,
miglior che ’n vita, in morte ebbe ventura,
perché de’ Calci il popolo le diede
il Paradiso mio per sepoltura:
dico il lieto paese, ove si vede
sì di se stessa innamorar Natura;
a cui cinto di colli il mar fa piazza:
ch’a Nettuno è teatro, a Bacco è tazza.
46. Da Tossa de la Vergine canora
che ’n quel terren celeste ebbe l’avello
spirto di melodia pullula ancora,
quasi d’antico onor germe novello.
Più d’una lira vi si sente ognora,
e più d’un bianco mio musico augello.
E che sia vero, un de’ suoi figli ascolta,
a che dolce canzon la lingua ha sciolta. —
496
LA FONTANA D’APOLLO
47. Volgesi a quella parte ond’esce il canto
Adone, e vede un Pescator su '1 lito.
Di semplice duaggio ha gonna e manto,
ed ha di polpo un capperon sdruscito.
Ampio cappel, che si ripiega alquanto,
gli adombra il crin, di sottil paglia ordito.
Tiene a piè la cistella, in man la canna,
con cui de Tacque il popol muto inganna.
48. — Lilla — dicea — che sì fastosa e lieta
ognor ne vai del mio tormento acerbo,
deh Vienne a l’ombra, or che ’l maggior Pianeta
scalda il Leon feroce e ’l Can superbo.
Qua Vienne, ove leggiadra e mansueta
un’Anguilla domestica ti serbo,
che di limo si nutre entro un forame
di questo scoglio, e non ha spine o squame.
49. Più bel non vide o più vezzoso pesce
del Mincio mai la celebrata pesca.
Spesso qualora il mar si gonfia e cresce
salta dal fondo in su ia riva fi esca.
Va per l’erba serpendo, e tant’oltr’esce,
che vien fin nel mio grembo a prender l’ésca.
Di fin oro a l’orecchie ha duo pendenti,
e mi vomita in man perle lucenti.
50. Ha lunga coda, e larga testa e grossa,
bocca aperta e viscosa, ed ampie terga.
La schiena è di color tra bruna e rossa,
d’auree macchie smaltata a verga a verga.
Si dibatte per l’acqua, e per la fossa,
né pur in pace un sol momento alberga.
Lubrica scorre, entra per tutto e guizza,
e se la tocca alcun, tosto si drizza.
CANTO NONO
Tua sarà, se l’accetti; e se ti piace
deporre alquanto il dispietato orgoglio,
del tuo vivaio entro rumor vivace
io di mia mano imprigionar la voglio.
Oh di quest’animal vie più fugace,
più dura al mio pregar di questo scoglio.
Vienne a temprar deh Vienne un doppio ardore,
e se ’l pesce non vuoi, prenditi il core. —
Chiede a Venere Adon, chi sia colui,
che sì ben col cantar l’aure lusinga.
— È de’ nostri — risponde —, Amor di lui
non avrà mai chi più fort’arda o stringa.
Fileno ha nome, e da l’insidie altrui
è qui giunto a menar vita solinga.
Nacque colà ne la felice terra
che la morta Sirena in grembo serra.
Ma se ti cal più oltre intender forse
di sue fortune, andianne ov’egli stassi. —
Così sen giro, ed ei quando s’accorse
vèr lui drizzar la bella coppia i passi,
di cotanta beltà stupido sorse
per reverirla, da que’ rozi sassi;
ma con man gli accennò l’amica Dea
che di là non partisse, ove sedea.
— Per romper — dice — o per turbar non vegno
i tuoi dolci riposi, o i bei lavori.
Sai ben, che quando del mio patrio regno
prendesti in prima a celebrar gli onori,
io diedi forza al tuo affannato ingegno,
svegliandolo a cantar teneri amori;
onde il nome immortale ancor per tutto
serban di Lilla tua l’arena e ’l flutto.
LA FONTANA D’APOLLO
498
55. Del foco tuo con mormorio sonoro
farà ’1 mar, dov’io nacqui, eterna fede;
e come Apollo ti donò l’alloro,
così l’alga Nettuno or ti concede.
Lodanti i muti pesci, e tu di loro
fai dilettose e volontarie prede;
anzi con soavissime rapine
prendi l’anime umane, e le divine.
56. Fortunato Cantor, la nobil arte
quanto più gradirei del tuo concento,
se i diletti e i dolor spiegassi in carte
che per costui, non più sentiti, io sento;
per costui, ch'è di me la miglior parte,
amaro mio piacer, dolce tormento,
mezo de l'alma mia, vita mia vera,
anzi di questa vita anima intera.
57 -
Deh (te ne prego) così ’l Ciel secondo
sempre e benigno a’ tuoi desir si mostri,
la bella istoria degl’incendii nostri.
So, che se quest’ardor lieto e giocondo
sarà materia a’ tuoi vitali inchiostri,
passerà l’onda oscura, e chiara ha
non senza gloria tua, la fiamma mia.
58. Farò (se ciò farai) per te colei
languir, per cui languisci, amante amata;
e quando il nodo, onde legato sei,
verrà poscia a troncar Parca spietata,
nel felice drappel de’ Cigni miei
ti porrò, candid'ombra, alma beata,
dove l’Eternità, che sempre vive,
nel libro suo l’altrui memorie scrive. —
CANTO NONO
499
59. Risponde: — O degna Dea de la beltate,
Imperadrice d’ogni nobil petto,
canterò, scriverò, se voi mi date
vena corrispondente al bel suggetto.
Da voi vienimi lo stile, e voi levate
sovra se stesso il debile intelletto,
poi che la cetra mia rauca e discorde
s’ha de’ lacci d’Amor fatte le corde.
60. Questo cor, che si strugge a poco a poco
languendo di dolcissima ferita,
la mercé vostra, in ogni tempo e loco
sarà fonte d’amor più che di vita,
somministrando al suo celeste loco,
ne le pene beato, ésca infinita:
con tal piacer per la beltà ch'adoro
sperando vivo, e sospirando moro.
61. Nacque nel nascer mio, né fia ch’estinto
manchi per volger d’anni ardor sì caro.
Quelle catene, ond’io son preso e cinto,
insieme con le fasce mi legaro.
Que’ lini istessi, in ch’io fui prima avinto,
la piaga del mio petto anco fasciaro.
Lavato a pena dal materno bagno,
fui lavato dal pianto, onde mi lagno.
62. Amor fu mio maestro, appresi amando
a scriver poscia, ed a cantar d’Amore.
Di duo furori acceso, arsi penando,
l’un mi scaldò la mente, e l’altro il core.
L’uno insegnommi a lagrimar cantando,
l’altro a far le mie lagrime canore.
Amor fe’ con la doglia amaro il pianto,
Febo con l’armonia soave il canto.
5 oo
LA FONTANA D’APOLLO
63. Negar non voglio, né negar poss’io,
ch’ai dolci studi, agli onorati affanni,
che rapiscono i nomi al cieco Oblio,
e fanno al Tempo ingordo eterni inganni,
fatale elezzi'on l’animo mio
non inclinasse assai fin da’ prim'anni.
In qualunque martir grave e molesto
refugio unqua non ebbi altro che questo.
64. Ma da questa di vezzi arte nutrice
ecco le spoglie alfin, ch’altri riporta,
ecco qual frutto vien di tal radice,
un guarnel di zigrin, l’amo, e la sporta.
Trofei del nostro secolo infelice,
in cui di gloria ogni favilla è morta.
L’età del ferro è scorsa, e sol di questa
la vilissima rugine ne resta.
65. Tempo fu, ch’ai cultor de’ sacri rami
favorevoli fur molto i pianeti.
Or sol regnano in terra avare fami,
e copia v’ha di Principi indiscreti,
de’ quai s’alcuno è pur, che ’l canto n’ami,
ama le Poesie, non i Poeti;
né fia poca mercé, quand’egli applaude
premiando talor laude con laude.
66. Di me non parlo, e se pur canto o scrivo,
d’Amor, non di Fortuna io mi lamento,
ché non in tutto di ricchezze è privo
chi trae la vita povero e contento.
In tale stato volentier mi vivo,
bastami sol, che d’oro ho lo stromento.
Lo stromento ch’io suono (a quell’alloro
vedilo là sospeso) è di fin oro.
CANTO NONO
501
67. Ha di Gigli dorati intorno i fregi,
ed ha gemmato il manico e le chiava.
Dono ben degno del gran Re de’ Regi,
Rege, amor de’ soggetti, onor degli ava.
Sì non indegni di cantar suoi pregi
fussero i versi miei poco soavi,
com’egli è tale in fra gli Eroi maggiori,
qual è il suo Giglio in fra i più bassi fiori.
68. Ma questo è il men, se non che ’l vulgo, a cui
fosco vel d’ignoranza i lumi appanna,
prendendo a scherno i bei sudori altrui,
nel conoscere il meglio erra e s’inganna.
E se ben io tra que’ miglior non fui,
sovente chi più vai biasma e condanna.
Miser, di colpi tali ognor fu segno
il mio battuto e travagliato ingegno!
69. Più d’una volta il genitor severo,
in cui d’oro bollian desiri ardenti,
stringendo il morso del paterno impero
« Studio inutil » mi disse « a che pur tenti? »
Ed a forza piegò l’alto pensiero
a vender fole ai garruli clienti,
dettando a questi supplicanti e quelli
nel rauco foro i queruli libelli.
70. Ma perché potè in noi Natura assai,
la lusinga del Genio in me prevalse,
e la toga deposta, altrui lasciai
parolette smaltir mendaci e false.
Né dubbi testi interpretar curai,
né discordi accordar chiose mi calse,
quella stimando sol perfetta legge
che de’ sensi sfrenati il fren corregge.
5° 2
LA FONTANA D’APOLLO
71. Legge ornai più non v’ha, la qual per dritto
punisca il fallo, o ricompensi il merto.
Sembra quanto è fin qui deciso e scritto
d’opini'on confuse abisso incerto.
Da le calunnie il litigante afflitto
somiglia in vasto mar legno inesperto.
Reggono il tutto con affetto ingordo
passi'on cieca, ed interesse sordo.
72. La Rota eletta a terminar le liti
qual nova d’Issìon rota si volve,
e con giri perpetui ed infiniti
trattien l’altrui ragion, né la risolve.
Pur que’ lunghi intervalli alfin spediti,
spesso il buon si condanna, e ’l reo s’assolve.
De l’oro, al cui guadagno è il mondo inteso,
la bilancia d’Astrea trabocca al peso.
73. Tennemi pur assai la patria bella
dentro i confin de le native soglie,
dico Napoli mia, che la sorella
de la Sirena tua sepoita accoglie.
Ma perché l’uom ne l’età sua novella
è pronto a variar pensieri e voglie,
vago desio mi spinse, e mi dispose
a cercar nove terre, e nove cose.
74. Mossemi ancor con falsi allettamenti
la pcTSiiasi'on de la speranza,
ed al sacro splendor degli ostri ardenti
mi trasse pien di giovenil baldanza,
si ch’a l’altrice de le chiare genti
chiesi mercé di riposata stanza,
credendo Amor vi soggiornasse, come
par che prometta il suo fallace nome.
CANTO NONO
5<>3
75. Parte colà de' più liet’anni io spesi,
e de’ colli famosi a l’ombra vissi,
e sotto Stelle nobili e cortesi
or l’altrui lodi, or le mie pene scrissi.
Stelle, i cui raggi d’alta gloria accesi
vinceano i maggior lumi in Cielo affìssi:
ma l’infiuenze lor per tutto sparse,
ad ogni altro benigne, a me fur scarse.
76. Vidi la Corte, e ne la Corte io vidi
promesse lunghe, e guiderdoni avari,
favori ingiusti, e patrocinii infidi,
speranze dolci, e pentimenti amari,
sorrisi traditor, vezzi omicidi,
ed acquisti dubbiosi, e danni chiari,
e voti vani, ed Idoli bugiardi,
onde il male è securo, e ’l ben vien tardi.
77. Ma come può vero diletto? o come
vera quiete altrui donar la Corte ?
Le diè la Cortesia del proprio nome
solo il principio, il fine ha da la Morte,
lo volsi dunque pria che cangiar chiome,
terra e cielo cangiar, per cangiar sorte.
Ma lung’ora però del loco, in cui
ricovrar mi devessi, in dubbio fui.
78. Sperai di tanti danni alcun ristoro
trovar là dove ogni valor soggiorna,
ne la Città che '1 nome ebbe dal Toro,
sì come il fiume suo n’ebbe le corna.
Venni a la Dora, che di fertil oro
(come il titol risona) i campi adorna.
Ma ’n prigion dolorosa, ove mi scòrse,
lasso, che ’n vece d’òr, ferro mi porse!
LA FONTANA D’APOLLO
5°4
79. Di quel Signor, che generoso e giusto
regna colà de l’Alpi a le radici,
non mi dogl’io; così pur sempre Augusto
goda, al valor devuti, anni felici.
Sol del destino accuso il torto ingiusto,
e ’l finto amor de’ disleali amici,
per la cui sceleragine si vede
là dove nasce il Po, morir la fede.
80. Venne, sospinta da livor maligno,
ancor quivi l’Invidia a saettarmi,
che sua ragion con scelerato ordigno
difender volse, e disputar con l'armi;
e rispondendo col focil sanguigno
e col tuon de le palle al suon de’ carmi,
mosse l’ingiurie a vendicar non gravi
de le penne innocenti i ferri cavi.
81. M’assalse insidiosa, e com’avante
lingua vibrò di fiele e di veleno,
così poi vomitò foco sonante
per la bocca d’un fulmine terreno.
Con la canna forata e folgorante
tentò ferirmi, e lacerarmi il seno,
come la fama mi trafisse, e come
mi lacerò con le parole il nome.
82. Non meritava un lieve scherzo e vano
d’arguti risi, e di faceti versi,
ch’altri devesse armar l’iniqua mano
di sì perfidi artigli e sì perversi,
e scoccar contro me colpo villano,
ch’inerme il fianco a la percossa offersi.
Che non fa ? che non osa ira e furore
d’animo desperato, e traditore?
CANTO NONO
Pensò forse il fellon quando m’offese
per atto tal di migliorar ventura,
e con la voce del ferrato arnese
d’acquistar grido appo l’età futura.
Sperò col lampo che la polve accese
di rischiarar la sua memoria oscura,
e fatto da la rabbia audace e forte
si volse immortalar con la mia morte.
Girò l’infausta chiave, e le sue strane
volgendo intorno e spaventose rote,
abbassar fe’ la testa al fiero Cane
che ’n bocca tien la formidabil cote,
si che toccò le machine inumane
ond’avampa il balen ch’altrui percote,
e con fragore orribile e rimbombo
aventò contro me globi di piombo.
Ma fusse pur del Ciel grazia seconda,
ch’innocenza e bontà sovente aita,
o pur virtù di quella sacra fronda
che da folgore mai non è ferita ;
fra gli ozii di quest’antro e di quest’onda
fui riserbato a più tranquilla vita.
Forse com’amator di sua bell’arte,
campommi Apollo da Vulcano e Marte.
Quindi l'Alpi varcando, il bel paese
giunsi a veder de la contrada Franca,
dove i gran Gigli d’oro ombra cortese
prestaro un tempo a la mia vita stanca.
La virtù vidi, e la beltà francese,
v’abonda onor, né cortesia vi manca.
Terren sì d’ogni ben ricco e fecondo,
ch'i’ non so dir, se sia provincia, o mondo.
5°6
LA FONTANA D’APOLLO
87. Ma però che ’l Furor suole in gran parte
di que’ petti guerrieri esser Tiranno,
e le penne pacifiche e le carte
con aste e spade conversar non sanno,
e tra gli scoppi e i timpani di Marte
i concenti d’Amor voce non hanno,
questo scoglio romito, e questo lido
feci de’ miei pensier refugio e nido.
88. Qui mi vivo a me stesso, e ’n quest’arena
che cosa sia felicità comprendo,
e qui purgando la mia roza vena,
da’ tuoi candidi Cigni il canto apprendo,
con cui sfogar del cor la dolce pena
la Pescatrice mia m’ode ridendo.
Vena povera certo, ed infeconda,
ma schietta e naturai, com'è quest’onda.
89. Così vinto il rigor del fier destino,
con cui vera Virtù sempre combatte,
di Pausilippo e Nisida e Pioppino
risarcisco le perdite c’ho fatte.
Il puro stagno, e ’l bel fonte vicino,
le lor rive fiorite, e Tonde intatte
son mia Corte, e mia reggia; altro non bramo,
che l’erba e l’acqua e la cannuccia e l’amo.
90. Uom, ch’anelante a vani acquisti aspira,
e ’n cose frali ogni suo studio ha messo,
fa qual turbo o paleo, che mentre gira,
la sepoltura fabrica a se stesso,
e dopo molte rote alfin si mira
aver al moto il precipizio appresso.
Che vai tanto sudar, gente inquieta,
s’angusta fossa a le fatiche è meta?
CANTO NONO
5°7
91. Il meglio è dunque in questa vita breve
procacciar contro Morte alcun riparo,
e poi che ’l corpo incenerir pur deve,
rendere almeno il nome eterno e chiaro.
Chi da Fortuna rea torto riceve
specchisi in me, ch’a disprezzarla imparo.
Sol beato è chi gode in ore liete
tra modesti piacer bella quiete. —
9 2 . — Virtù non men ch’Amor, di sé s’appaga —
dice la Dea, ch’intenta il parlar ode. —
Sì come amor sol con amor si paga,
così virtù sol di virtù si gode.
Altro premio, altro prezzo, ed altra paga
non richiede, né vuol, ch’onore e lode.
Ella è merce e mercé sola a se stessa. —
Così dicendo, al bel fonte s’appressa.
93. Xe l’Isoletta un picciol pian ritondo
da siepe è cinto di fin oro eletto,
che col metallo prezioso e biondo
difende il praticel, che vi fa letto.
E di germi odoriferi fecondo
d’aromatiche piante havvi un boschetto,
che fan con l’ombre lor frondose e spesse
il loco insuperbir di ricca messe.
94. Un Parnasetto d’immortal verdura
nel centro del pratel fa piazza ombrosa,
in mezo al cui quadrangolo a misura
la pianta de la fabrica si posa.
Fermansi a contemplar l’alta struttura
la Vaga e ’l Vago in su la sponda erbosa,
e van mirando i peregrini intagli,
cui nulla è sotto il Sole opra ch’agguagli.
LA FONTANA D’APOLLO
508
95. Di terreno Scultor scarpelli industri
formar non saprien mai sì bella Fonte;
e ben fece molt’anni e molti lustri
ai tre Giganti Etnei sudar la fronte.
Nove di marmo fin figure illustri
cerchiano un sasso, e ’l sasso assembra un monte
e quel monte ha due cime, e ’n su le cime
alato corridor la zampa imprime.
96. Deh perdoniti il Ciel sì grave fallo,
per cui men caro il buon licor si tiene,
Zoppo fabricator del bel cavallo
che ne venne ad aprir novo Hippocrenel
Bastar ben ti devea che '1 suo cristallo
scaturisse Helicona in larghe vene,
senza far di quell’acque elette e rare
l'uso a pochi concesso, ornai vulgare.
97. Quanti da indi in qua del nome indegni
poeti il chiaro studio han fatto vile?
Quanti con labra immonde audaci ingegni
vanno a contaminar l’onda gentile?
Non si turbi il bel coro, e non si sdegni,
se venale e plebeo divien lo stile:
poi che del mondo ogni contrada quasi
di Cabalimi abonda, e di Parnasi.
98. È sì ben finto il zappador destriero,
ch’a lo spuntar del giorno in Oriente
i corsieri del Sol credendol vero
ringhiando gli annitrirono sovente.
Piove dal sasso in un diluvio intero
la piena in pila concava e lucente;
e la pila, ch’accoglie in sé la pioggia,
de le Muse su gli omeri s’appoggia.
CANTO NONO
509
99. Ha lo stromento suo ciascuna Musa,
ed a ciascun stromento in ogni parte
l’onda canora in cavo piombo chiusa
per molte canne l’anima comparte.
Strangolata gorgoglia, indi diffusa
volge machine e rote ordite ad arte,
e con tenor di melodia mentita
de la man, de la bocca il suono imita.
100. Sta sotto l’ombra de la cava pietra
che sottogiace al volator Pegaso
il bel Signor de la cornuta cetra,
il gran Rettor di Pindo e di Parnaso.
In testa il lauro, al fianco ha la faretra,
e versa l’acqua in più capace vaso:
l’acqua, che d’alto vien lucida e tersa,
per l’armonico plettro in giù riversa.
101. Intorno al labro spazioso e grande
de la conca che copre il Re di Deio,
s’intesse il fonte da tutte le bande
di traslucido argento un sottil velo,
e ’n tal guisa il suo giro allarga e spande
che vien quasi a formar coppa di gelo,
in guisa tal, ch'a chi per ber s’appressa
tazza insieme e bevanda è l’acqua istessa.
io>. Par che quel chiaro velo innargentato,
che di liquidi stami ordì Natura,
abbia l’Arte tessuto e lavorato
per guardar da la polve onda sì pura;
o sia per asciugar forse filato
l’acqua, che ’n sostener quella scultura
le Dee del tempo e de l’oblio nemiche
stillan, quasi sudor de le fatiche.
LA FONTANA D’APOLLO
5 10
103. Volgon le Muse, l’una a l’altra opposte,
le spalle al fonte, ed a lo stagno il viso,
e ’n diverse attitudini composte
fanno corona a l’armentier d’Anfriso.
In piè levate, e ’n vago ordin disposte
grondan perle dal crin, brine dal viso:
e scalze e mezo ignude accolte in cerchio
de la gran conca reggono il coverchio.
104. Da la conca più alta a la più bassa,
che ’n baccino maggior Tacque ricetta,
de le bell’onde il precipizio passa,
la qual pur le riceve, e le rigetta.
Nel cerchio inferior cader le lassa,
dove l’acqua divisa a bere alletta.
In quattro fonti piccioli è divisa,
ed ogni fonte ha la sua statua incisa.
105. Quattro le statue son; la Gloria in una,
la Fama in altra parte incise stanno,
la Virtù quindi, e quinci la Fortuna
vaghi al vago lavor termini fanno;
e ’n cima a tre scaglion posta ciascuna,
ch’agiato a l’altrui sete adito danno,
l’acqua in vaso minor versa e ripone
o per urna, o per tromba, o per cannone.
106. Chi può dir poi, sì come scherza, e ’n quante
guise si varia la volubil vena?
Or per torto sentier serpendo errante
tesse di bei Meandri ampia catena.
Or con dirotta aspergine saltante
bagna lambendo il ciel l’aura serena;
e poi che quanto può s’inalza e poggia,
sparge l’accolto nembo in lieta pioggia.
CANTO NONO
5H
107. Piovuta si ringorga e si nasconde
l’acqua, e ’n cupo canal suppressa alquanto,
singhiozza sì, che ’l mormorio de Tonde
sembra di rossignuol gemito e pianto.
Poi per secrete vie sboccando altronde,
esce con forza tal, con furor tanto,
che si disfiocca in argentata spuma,
e somiglia a veder candida piuma.
108. Meraviglia talor, mentre s’estolle,
arco stampa nel ciel simile ad Iri.
Trasformasi l’umor liquido e molle,
vólto in raggi, in comete, in stelle il miri.
Miri qui sgorgar globi, eruttar bolle,
là girelle rotar con cento giri,
spuntar rampolli, e pullular zampilli,
e guizzi e spruzzi e pispinelli e spilli.
iog. !Ne lo spazio che Torlo a cerchiar viene
tra cornice e cornice al maggior vase,
havvi un fregio di scudi, il qual contiene
Tinsegne in sé de le più chiare case,
e di Cigni scherzanti e di Sirene
varie trecce ogni scudo ha ne la base,
che distendendo van su i bianchi marmi
Tali e le code, e fan cartiglio a Tarmi.
110. Posto è in tal guisa intorno a la bell’opra
l’ordin de Tarmi più famose al mondo,
che de le Muse, che stan lor disopra,
reggon Tincarco, compartite in tondo.
Come l’una sostenga, e l’altra copra,
son tra lor con bel cambio appoggio e pondo.
Ogni statua uno scudo ha sotto il piede
e in ogni scudo un simbolo si vede.
LA FONTANA D’APOLLO
5 1 2
iii Per distinguer l’imprese il fabro egregio
de l’ornamento nobile e sublime,
mischi di più color, ma d’egual pregio
scelse e polì con ingegnose lime.
Tal che d’ogni divisa il vario fregio
le differenze in color vario esprime,
e con pietre diverse in un commesse
e scultura e pittura accoppia in esse.
ii 2. —■ Vedi marmi colà vivi e spiranti —
disse al suo bell’Adon Venere allora. —
Son famiglie d’Eroi, de’ cui sembianti
Virtù si pregia, e Poesia s’onora.
Hanno molto a girar gli anni rotanti
pria ch’abbian vita, e non son nati ancora.
Mosso Vulcan da spirito presago,
innanzi tempo n’adombrò l’imago
113. Tu dèi saver, che sotto ’1 Ciel, secondo
il giro di quel fuso adamantino,
che la Necessità rivolge a tondo,
mossa però dal gran Motor divino,
la serie de le cose al basso mondo
muta immutabil sempre alto destino,
e fra queste vicende anco le lingue
l’una nasce di lor, l’altra s’estingue.
114. La dotta cetra Argiva udrassi pria
su ’l Cefiso spiegar melati accenti,
e trarre a la dolcissima armonia
del mare Orientai sospesi ì vènti.
Privilegio fatai di questa fia
di sacre cose innebriar le menti,
sollevando ai secreti alti misteri
de’ Numi eterni i nobili pensieri.
CANTO NONO
513
xi 5. Moverà non men dolce il Tebro poi
su le corde Latine il plettro d’oro,
onde da’ Cigni miei ne’ poggi suoi
da ripiantato il trionfale alloro.
Grave, e ben atto a celebrare Eroi
sarà del Lazio il pettine canoro,
ed a sonar con bellicosi carmi
di Guerrieri e di Duci imprese ed armi.
116. Succederà la Tosca Lira a queste,
di queste assai più dilicata e pura,
che di tutti gli onor s’adorna e veste
onde I’altre arricchirò Arte e Natura.
Intenerito dal cantar celeste
l’Arno al corso porrà freno e misura,
e da’ versi allettato e trattenuto
porterà tardo al mare il suo tributo.
117. Questa con vaghi metri e dolci note
e con numeri molli accolti in rima
ha che per propria e singoiar sua dote,
meglio ch'altra non fa, gli amori esprima.
Or a le Tosche Muse (ancor che ignote)
fu il nobil Fonte dedicato in prima;
né certo edificar si devean cose
nel paese d’Amor, fuor ch’amorose.
118. Ma perch’è ver, che de le Muse afflitte
sono Invidia e Fortuna emule antiche,
uopo d’alte difese, e d'armi invitte,
avran contro sì perfide nemiche.
Le case dunque, che qui son descritte,
sosterran l’onorate altrui fatiche;
e questi fien tra’ Principi più degni
che daran fida aita ai sacri ingegni.
33
5*4
LA FONTANA D’APOLLO
nq. Beato mondo allor, mondo beato,
cui tanta amico Ciel gloria destina.
Beatissima Italia, a cui fia dato
per costor risarcir l’alta ruina,
e tornar trionfante al primo stato
de le provincie universal Reina. —
Sì dice, e de la schiera ivi scolpita
le generose imagini gli addita.
i 20. — Ferma — dicea — la vista in quella parte,
dove il bianco Corsier su ’l rosso splende.
Questo, se ben feroce il fiero Marte
ama, e foco guerrier nel petto accende,
talor d'Apollo a vie più placid’arte
inerme ancora, e mansueto intende;
ond'aprendo la vena a novi fonti
fia che, novo Pegaso, il Ciel sormonti.
121. Sappi, che fra que’ mostri, onde s’adorna
del sommo Ciel la lucida testura,
oltre il Pegàso, altro destrier soggiorna,
adombrato però di luce oscura.
Pur di segno minor maggior ritorna
sol per esser di questo ombra e figura;
e le sue fosche e tenebrose stelle
tempo verrà, che saran chiare e belle.
122. Né speri alcun già mai con sprone o verga
domarlo a forza, o maneggiarlo in corso,
con dura sella premergli le terga,
o con tenace fren stringergli il morso.
Spirito in lui sì generoso alberga,
ch’intolerante ha di vii soma il dorso.
Chi crede averlo o soggiogato, o vinto
con fatai precipizio a terra è spinto.
CANTO NONO
515
123. Pur deposto talor l’impeto audace,
ch’avrà di sangue ostil versati rivi,
chiuderà Giano, ed aprirà la Pace,
ed ai cipressi innesterà gli olivi.
Germoglieran dal cenere che giace
de’ cadaveri morti i lauri vivi,
e diverran sol per lodarlo allora
l’Alpi Parnaso, e Caballin la Dora.
124 Dal chiaro armento di Sassonia uscito
carco n’andrà di scettri e di diademi;
né pur la bella Italia al fier nitrito
ma fia che l’Asia sbigottisca e tremi.
Poi di spoglie e trofei tutto arricchito
verrà de la mia Cipro ai lidi estremi.
Ma che? Fiero destin, perfido Trace... —
E qui scioglie un sospiro, e pensa, e tace.
125. — Tu vedi — segue poi — l’Aquila bianca,
che divide de l’aria i campi immensi,
e le nubi trascende, e lieve e franca
su i propri vanni in maestà sostiensi.
Quella in opre d’onor già mai non stanca
l’insegna fia de’ gloriosi Estensi,
il cui volo magnanimo e reale
per vie dritte e sublimi aprirà l’ale.
126. Non tanto le verrà la bella insegna
per la divina origine d’Hettorre,
quanto perché con lei fia che convegna
l’inclita augella che viltate aborre.
Quella però, ch’ogni bassezza sdegna,
assai presso a le sfere il Ciel trascorre.
Questa dal vulgo allontanando i passi
non fia ch'a vii pensier l’animo abbassi.
LA FONTANA D’APOLLO
5 i6
127. Quella la spoglia de l’antiche piume
dentro puro ruscel ringiovenita,
di rinovar se stessa ha per costume
a molti e molti secoli di vita.
Questa purgata entro ’l Castalio fiume,
quasi Fenice del bel rogo uscita,
verrà l’ire del Tempo a curar poco,
fatta immortai da Tacque, e non dal foco.
128. E come quella ognor con guardo fiso
avezzar a la luce i figli suole,
in quel modo ch’a’ rai del tuo bel viso
anch’io sempre mi volgo, o mio bel Sole;
così da questa con accorto a viso
imparerà la generosa prole
di Febo amica, ed a’ suoi raggi intesa,
di celeste splendor mostrarsi accesa.
129. Ben s’agguaglian tra lor, se non che quella
i Cigni d'oltraggiar prende diletto,
ma da questa, ch’io dico, Aquila bella
avran gli augei canori ésca e ricetto.
E s’altr’Aquila in Ciel conversa in stella
d’una cetera sola adorna il petto,
questa n’avrà fra l’altre in terra due
possenti ad eternar le glorie sue.
130. Vedi quell’altre poi quattro seguenti,
emule de la prima, Aquile nere,
per accennar, ch’a tutti quattro i vènti
hanno il volo a spiegar de Tali altere.
A semplici Colombe ed innocenti
non saran queste ingiuriose e fiere,
ma spirti avran di guerreggiar sol vaghi
con Nibbi ed Avoltoi, Vipere e Draghi.
CANTO NONO
517
131. Rapì cangiato in queste torme istesse
il mio gran genitor vago Garzone,
ben che (cred’io) se te veduto avesse,
preposto avrebbe a Ganimede Adone.
Ma se costume è naturale in esse
satollar di rapine il curvo unghione,
queste pronte a donar, non a rapire
sol di prede di cori avran desire.
132. Predice a queste l’indovina Manto
il favor tutto de l’Aonie Dive.
Per queste il Mincio con eterno vanto
popolate di Cigni avrà le rive,
mormorando concorde al nobil canto
de’ suoi Gonzaghi le memorie vive,
che vivran sempre in più d’un stil facondo,
e non morran fin che non more il mondo.
133. Sotto l'ali di queste il maggior Cigno,
che darà vita al mio Troian pietoso,
da mollir, da spezzar duro macigno
formerà canto in ogni età famoso.
E già da queste ancor destro e benigno
giunto in Italia a procacciar riposo
ebbe lo stesso Enea presagio e segno
di felice vittoria, e lieto regno.
134. Mira quel tronco, a cui di fronde aurate
fanno pomposo il crin germi felici.
È la Quercia d’Urbin, che ’n altra etate
tali e tante aprirà rami e radici,
che poi ch’avrà di spoglie assai pregiate
arricchiti di Roma i colli aprici,
in riva porterà del bel Metauro
con suoi frutti lucenti un secol d’auro.
LA FONTANA D’APOLLO
5 r8
135. Questa più ch’altra pianta irrigar l’onde
denno del fecondissimo Helicona.
Di questa Apollo a le sue chiome bionde
di lauro in vece, intesserà corona.
Al mormorio de le soavi fronde
il suono invidiar potrà Dodona.
Avranno a l’ombra sua tranquillo e fido
i miei candidi augei ricovro e nido.
136. La bella scorza, che seccar non potè
ardor d’estate, né rigor di verno,
porterà al Ciel con mille incise note
de’ suoi chiari cultori il nome eterno.
Il ceppo altier, che fulmine non scote,
prendendo d’Aquilon l'ingiurie a scherno,
sempre maggiore acquisterà fermezza,
come fa nel mio cor la tua bellezza.
137. Or colà volgi gli occhi ai sei Giacinti,
nel cui lieto ceruleo a punto miri
quell’azurro sereno, onde son tinti
de le tue luci i lucidi zaffiri.
Sì chiaro è quel color che gli ha dipinti,
che s’egli avien che ’n essi il guardo giri,
non sa il pensier, che dubbio alterna ed erra,
dir se sien Gigli in Cielo, o Stelle in terra.
138. Gigli celesti e fortunati, oh quale
seme d'alte speranze in voi s’accoglie!
Qual d’odori di gloria aura immortale
trarrà la Fama da le vostre foglie!
E quant’Api da voi porteran l'ale
ricche di ricche e preziose spoglie:
onde illustre lavor fia poi costrutto
ch’empierà di dolcezza il mondo tutto.
CANTO NONO
519
139. Voi piantati e nutriti in que' begli orti,
dove non son da bruma i fiori offesi,
darete per sottrarle agli altrui torti
a le sante sorelle ombre cortesi.
Per voi non men magnanimi che forti
cresceran tanto in pregio i gran Farnesi,
ch’a qual fiume più celebre e più chiaro
la palma usurperan la Parma e '1 Taro.
140 Quella Colonna, il cui candor lucente
del tuo seno assomiglia il bel candore,
sostegno ha de la Virtù cadente,
stabil come la fede è nel mio core.
E se tra le Colonne in Occidente
la gran lampa del Sol tramonta e more,
da questa invitta e salda ad ogni crollo
rinascerà con la sua luce Apollo.
141. Quante volte, quand’io (folle ch’io m’era)
di Gradivo l’amor gradir solìa,
questa (diceami) la mia reggia altera,
questa de’ miei trionfi il trono ha.
Cesari e Mecenati in lunga schiera
per lei rinoverà la città mia;
né figli mai tra’ suoi famosi e chiari
la gran Lupa Latina avrà più cari.
142. L’altro scudo vicin, che per traverso
di tre strisce vermiglie il bianco inostra,
e di Rose purpuree il campo terso
(simile al volto tuo) fregiato mostra;
di stirpe ha, splendor de l’Universo,
pompa del Tebro, e meraviglia nostra:
a cui, come a miglior fra le migliori,
ben converrassi il Fior degli altri fiori.
5^°
LA FONTANA D’APOLLO
143. Fior, che del sangue mio superbo vai.
Fior, pupilla d’Amor, tesor di Maggio,
tu de’ prati di Pindo onor sarai,
né dèi d’ombra o di Sol temere oltraggio.
Quella, ch'onora il Ciel Romano, e mai
non tuffa in torbid’onda il chiaro raggio,
de’ fregi tuoi, non più di stelle inteste
porterà le ghirlande, Orsa celeste.
144. Ecco del gran Tonante, ecco poi nero
un altro egregio imperiale augello.
Del Doria, a cui di Dori il salso impero
destinato è dal Ciel, lo scudo è quello.
Fido ministro del gran Giove Ibero
arderà, ferirà lo stuol rubello,
sì come tu con tuoi pungenti sguardi
i ritrosi d’Amor ferisci ed ardi.
145. Non ha questo a vibrar del Cielo in terra
il tripartito folgore vermiglio,
ma de l’altro internai, che ’n nova guerra
ha temprato di bronzo, armar l’artiglio.
Quanto il lembo del mar circonda e serra
tremerà tutto, e correrà periglio.
Solo il verde arboscel, non che ferito,
ha difeso da questo, e custodito.
146. De la progenie ch’io ti conto e mostro
Aquila peregrina alzerà ’l volo,
che ’mporporata del più lucid’ostro
le brune penne, andrà da polo a polo.
Progenie degna di famoso inchiostro,
del mondo onor, non di Liguria solo,
degna più ch’altra assai del favor mio,
che darà legge al mar, dove nacqu’io.
CANTO NONO
S2I
147. Ma deh pon’ mente a le purpuree Palle,
di que’ Medici illustri arme sovrana,
per cui (se ’l chiaro antiveder non falle)
le piaghe antiche ha da saldar Toscana.
Da Fortuna battute, al Ciel faralle
balzar Virtù sovr’ogni gloria umana.
Con esse al gioco de l’instabil sorte
vinceranno i lor Duci Invidia e Morte.
148. Palle d’alto valor fulminatrici,
onde tempesta uscir deve sì fatta,
che de’ rubelli esserciti nemici
ha ch'ogni forza, ogni riparo abbatta.
Per cui non sol de’ Barbari infelici
la superbia cadrà rotta e disfatta,
ma de lo scoppio il gran rimbombo solo
tutto de’ vizii atterrirà lo stuolo.
149. Sono i bei Globi simili ai celesti,
e simulacri de le sfere eterne;
e ben pari e conforme in quelle e ’n questi
(tranne sol uno) il numero si scerne,
a dinotar ch’agli onorati gesti
tutte quante n'ha il Ciel rote superne
volgeranno propizie amico lume,
solo escluso Saturno, infausto Nume,
150. Fiorir l’arti più belle, e rischiararsi
allor d’Arno vedrein le torbid'acque;
e risorger la luce e rinfrancarsi
de l’Italico onor, ch’estinta giacque;
e molti ingegni a nobil volo alzarsi
su l’ali di colui che da me nacque,
e con chiari concenti addolcir l'aura
dietro ai Cantor di Beatrice e Laura. —
LA FONTANA D’APOLLO
5“
151 E qui rapita ai secoli lontani
la bella Citherea la mente aperse,
onde l’istoria de’ successi umani,
quasi in teatro, al suo pensier s’offerse,
e ne’ più cupi e più profondi arcani
de l’età da venir tutta s’immerse.
— Oh qual’ — dice — vegg’io, correndo i lustri,
nascer di ceppo tal germogli illustri!
152. Io veggio quinci dopo molto e molto
volger di Ciel, girar di mesi e d’anni,
del secol tristo in tenebre sepolto
spuntar un Sole a ristorare i danni :
Sol, ch’avrà sol di Donna il sesso e ’l volto,
ma ’l cor sempre viril tra i regii affanni.
Ogni nobil virtù sol da costei
verrà che nasca, o sorgerà per lei.
153. Non fia mai, che di questa un più bel manto
alma copra più saggia, o più pudica.
Ma de le lodi sue basti sol tanto,
uopo non è ch’io più di ciò ti dica,
ché qual proprio ella siasi, e come, e quanto
vinca di pregio ogni memoria antica,
in parte ov’io condur ti voglio in breve,
esserne l’occhio tuo giudice deve. —
154. Così gli dice, ed a la bella il bello
le parole interrompe in tal maniera:
— Deh dimmi, o fida mia, che scudo è quello,
lo qual posto non è con gli altri in schiera,
ma ne la base sta, che fa scabello
al gran motor de la più chiara sfera?
In quell'azur, ch’ai ciel par si somigli,
che voglion dir que’ tre dorati Gigli ? —
CANTO NONO
5 2 3
155. — De la casa di Francia è la divisa,
e tal loco a ragion Vulcan le diede,
però ch’a punto a quella istessa guisa
fia di Febo — risponde — albergo e sede,
E sì come dal numero divisa
starsi sola in disparte ivi si vede,
così d’ogni valor ricca e possente
se n’andrà singoiar da l’altra gente.
156. Ragion è ben, che de l'Italia aggiunga
questa sola straniera onore ai fregi:
ch’altra già mai, cui Virtù scaldi e punga,
non fia, ch’i Cigni suoi cotanto appregi.
Troppo fora a contar la serie lunga,
che n’uscirà, de’ gloriosi Regi:
e senz’annoverar sì folto stuolo
basta per tutti ad illustrarla un solo.
157. Come tutte nel cor raccolte sono
de l’altre membra le virtuti insieme,
così tutta il Signor, di cui ragiono,
raccorrà in sé de’ suoi l’unica speme.
Né men materia a qual più chiaro suono
darà da celebrar sue glorie estreme,
che premio a’ bei sudor che i sacri monti
stillar vedran da le più dotte fronti.
158. Con man tenera ancor, legata e stretta
terrà Fortuna mobile e vagante,
sì che resa a Virtù serva e soggetta
faralla a suo favor tornar costante.
E ’l Veglio alato, che con tanta fretta
fugge, e fuggendo rompe anco il diamante,
perché gli onori suoi non se ne porti,
con groppi stringerà tenaci e forti.
LA FONTANA D’APOLLO
159. Oltre il buon zelo, e la giustizia, a cui
dritto è che Gallia ogni speranza appoggi,
ha che tra’ Gigli d’òr sol per costui
de le Muse Toscane il coro alloggi.
Il Tago e ’l Gange irrigheran per lui,
in vece del Castalio, i sacri poggi,
onde per fecondar l’arido alloro
Tacque, ch’or son d’argento, allor hen d’oro.
160. Nasci nasci o Luigi, amica stella
quant’onor, quanto pregio a te promette!
Vibri pur cjuanto sa cruda e rubella
l’altrui perfidia in te lance e saette.
Taccio l’altre tue glorie, e passo a quella
che le Muse da te non fian neglette.
De’ dolci studi, e de la sacra schiera
te Rettore e Tutore il mondo spera.
161. Cresci cresci o Luigi, inclita prole
d’alme eccelse e reali, e giuste e pie.
Il tuo gran nome, ove l’altrui non suole
si spargerà per disusate vie;
e dove sorge, e dove cade il Sole,
e dove nasce, e dove more il die
la Fama il porterà leggera e scarca,
e romperà le forbici a la Parca.
i6z. Tra molte e molte cetre, onde rimbomba
de’ tuoi vanti immortali il chiaro grido,
dal Sebeto traslata odo una tromba
de la tua Senna al fortunato lido.
Questa trar ti potrà d’oscura tomba,
e darti in fra le stelle eterno nido,
ch'empiendo il Ciel d’infaticabil suono
--arà lira al concento, e squilla al tuono.
CANTO NONO
3 0
163. E se ben chi la suona, e chi la tocca
sosterrà di Fortuna oltraggi e scherni,
quando l’invidia altrui maligna e sciocca
ha che ’n lui sparga i suoi veleni interni,
mentr’avrà spirto in petto, e fiato in bocca,
non però cesserà, che non t'eterni,
di te narrando meraviglie tante,
che ne suoni Parnaso, e tremi Atlante. —
164. Allor Venere tace, e dove folta
stendon la verde chioma allori e faggi,
mille intorno al bel Fonte e mille ascolta
Poeti alati e Musici selvaggi,
che con rime amorose a volta a volta
e con infaticabili passaggi
intrecciando sen van per la verdura
di lasciva armonia dolce mistura.
163. Il vago stuol de’ litiganti augelli,
per riportar de' primi onori il fasto
innanzi a Citherea tra gli arboscelli
cominciò gareggiando alto contrasto,
e concenti formò sì novi e belli
ch’a pareggiargli io col mio stil non basto.
Giurò Venere istessa in Ciel avezza
che le sfere non han tanta dolcezza.
166. O perch’assai piacesse a questa Piva
il canto che ’n su '1 fine è più sollenne,
o perché monda e di sozzure schiva
amasse il bel candor di quelle penne,
gregge di bianchi Cigni ella nutriva
ne l’Isoletta ove quel giorno venne,
ch’ambiziosi allor de le sue lodi
a cantar si sfidaro in mille modi.
526
LA FONTANA D’APOLLO
167. Infiniti da strani ermi confini
guerrier facondi e musici campioni,
e domestici a prova e peregrini,
vi concorsero insieme a far tenzoni.
Ira’ frondosi s’udìr mirti vicini
vibrar accenti, e saettar canzoni,
e de la pugna lor, che fu concento,
fu steccato la selva, e tromba il vento.
168. Vari di voce, e ne lo stil diversi,
tutti però del par leggiadri e vaghi,
e tutti a la gentil coppia conversi
cantan com’Amor arda, e come impiaghi.
Cantan molti il futuro, e forman versi
de l’opre altrui fatidici e presaghi,
ché quel ch’ivi si bee furor divino
sveglia ne’ petti lor spirto indovino.
169. — Stiamo ad udir — la Dea di Pafo disse —
degli alati Cantor le dolci gare.
Tener l’orecchie attentamente affisse
si denno a quell’insolito cantare,
perché sì belle ed onorate risse
saranno in altra età famose e chiare.
Gli augelli autor di sì soavi canti
son di sacri Poeti ombre volanti.
170. L’anime di costor, poi che disciolte
son da' legami del corporeo velo,
passano in Cigni, e che ’n tal forma involte
vivan poi sempre, ha stabilito il Cielo.
E tra questi mirteti in pace accolte
le fa beate il gran Rettor di Deio,
là dove ognor, sì come fér già quando
tenner corpo mortai, vivon cantando.
CANTO NONO
171. Molte ve n’ha, ch’ancor rinchiuse e strette
non son tra’ sensi, e queste pur son tali,
a cantar qui per mia delizia elette
fin che ’n career terreno implichin l’ali. —
Adone il canto ad ascoltar si stette
di que’ felici Spiriti immortali,
che già venian con voci in vece d armi
nel verde agone al paragon de’ carmi.
172. Fu benigno favor, grazia cortese
di lei, ch’è de’ suoi lumi unico Sole,
e miraeoi del Ciel, ch’Adone intese
di quel linguaggio i sensi e le parole,
e ben distinto ogni concetto apprese
espresso fuor de le canore gole.
Ne la scola d’Amor che non s’apprende,
se ’l parlar degli augelli anco s’intende ?
173. Era tra questi augei l’ombra d’Orfeo,
che fe' de' versi suoi seguace il bosco.
Pindaro v’era, ed eravi Museo,
e Teocrito v’era, e v’era Mosco.
Eravi Anacreonte, eravi Alceo,
e Safo, alto splendor del secol fosco,
che non portò di quanti io qui ne scrivo
luce minore a l’idioma Argivo.
174. V’era lo stuol di que’ Latini primi
che ’n amoroso stil meglio cantaro.
Gallo, Orazio, Catullo, alme sublimi,
Tibullo, Accio, Properzio, e Tucca, e Varo,
ed Ovidio, di cui non è chi stimi
ch’altro Cigno d’Amor volasse al paro.
V’era la schiera poi de’ più moderni
de l’Italica lingua onori eterni.
LA FONTANA D’APOLLO
528
175. E se ben gli altri, che le bianche piume
per le piagge spiegar di Roma e d’Argo,
fur lor maestri, ond’ebber spirto e lume,
mercé ch’a quelli il Ciel ne fu più largo,
questi, però che di Parnaso il Nume
gli ha destinati a posseder quel margo,
cantano soli a la gran Dea presenti,
tacciono gli altri ad ascoltare intenti.
1 76. Aristofane tu, ch’ornasti tanto
là ne’ Greci teatri il socco d’oro,
tu, che d’interpretar ti désti vanto
il ragionar del popolo canoro,
e ’n scena il novo inesplicabil canto
spiegar sapesti, e le favelle loro,
tanta or dal biondo Dio mercé m’impetra
che distinguerlo insegni a la mia cetra.
177. Un ve ne fu, che sovra un verde Lauro
fece col suo cantar l’aura immortale,
ed illustrò dal Battriano al Mauro
quel foco, che d’Apollo il fe’ rivale;
dicendo pur, ch’a le quadrella d’auro
cede la forza del fulmineo strale,
poi che ne l’arbor sacra, al Ciel diletta,
dove Giove non potè, Amor saetta.
178. Altro, il cui volo pareggiar non lice,
ben su 1 ’ Ali l 1 g g 1 e r , tre mondi canta,
e la beltà beata, e Beatrice,
che da terra il rapisce, essalta e vanta.
Un suo vicin con stil non men felice
seco s’accorda in una istessa pianta,
perché Certaldo ammiri, e ’l mondo scerna
la sua Fiamma, e la fama a un punto eterna.
CANTO NONO
5 2 9
170. Havvi poi d' A D r 1 a ancor canoro mostro,
purpureo Cigno, e nobile e gentile,
che la lingua ha di latte, e '1 manto d'ostro,
rossa la piuma, e candido lo stile.
Apre non lunge augel d’ E T r u r i a il rostro
(salvo il capo ch’è verde) a lui simile,
appellando il suo amor su '1 verde stelo
Scoglio in mar, Selce in terra. Angelo in Cielo.
180. Accompagna costor soavemente
il Sonator de la Sincer a avena,
che le Muse calar fece sovente
di Mergellina a la nativa arena.
Le cui dolci seguir note si sente
anco un altro fìgliuol de la Sirena,
che con qual arte i rami a spogliar vegna
lo sfrondator de la V e n d e m m i a , insegna.
181. Donne insieme ed Eroi, guerre ed amori,
quel che nacque in su '1 Po cantar s’udia,
immortalando di Ruggier gli onori
con pura vena e semplice armonia;
e di dolcezza innebrìava i cori,
i circostanti tronchi inteneria.
Arder facea d’amor le pietre e Tonde,
sospirar l’aure, e lagrimar le fronde.
182. Testor di rime eccelse e numerose
di Parthenope un figlio a lui successe,
e prese a celebrar I’Armi pietose,
liberatrici de le mura oppresse;
e i suoi pensier sì vivamente espose,
i versi suoi sì nobilmente espresse,
che fe’ del nome di Goffredo e Guelfo
sonar Cipro non sol, ma Deio, e Delfo.
34
53°
LA FONTANA D’APOLLO
183. Né tu con voce men gradita e cara
favoleggiando il canto tuo sciogliesti,
dico a te, che di gloria oggi sì chiara
il tuo Fido Pastori-; adorni e vesti.
Seguir voleano, e de la nobil gara
dubbia ancor la vittoria era tra questi,
quand’ecco fuor d’un cavernoso tufo
sbucar difforme e rabbuffato un Gufo.
184. — Oh quanto oh quanto meglio, infame augello,
ritorneresti a l'infelici grotte,
nunzio d’infausti auguri, al Sol rubello,
e de l’ombre compagno, e de la notte.
Non disturbar l’angelico drappello,
vanne tra cave piante e mura rotte
a celar quella tua fronte cornuta,
quegli occhi biechi, e quella barba irsuta.
185. Da qual profonda e tenebrosa buca,
Nottula temeraria, al giorno uscisti ?
Torna là dove Sol mai non riluca
tra foschi orrori, e lagrimosi e tristi.
Tu trionfi cantar d’invitto Duca?
Tu di Mondi novelli eccelsi acquisti ?
Tu de l’Invidia rea figlio maligno
di Pipistrel vuoi trasformarti in Cigno? —
i8b. Così parla a l’augel malvagio e brutto
la Dea, sdegnando un stil sì rauco udire,
e i chiari onor del domator del flutto,
dov’ella ebbe il natal, tanto aviiire.
Spiace de’ Cigni al concistoro tutto
la villana sciocchezza e ’l folle ardire,
che l’alte lodi ad abbassar si metta
del Colombo a lei sacro una Civetta.
CANTO NONO
5.G
187. Mentre a garrir s’appresta, acconcio in atto
che de la nobil turba il gioco accresce,
e scote l’ali, e in un medesmo tratto
gli urli tra’ canti ambizioso ei mesce,
loquacissima Pica il contrafatto
uccellato Uccellone a sfidar esce,
e con strilli importuni in rozi carmi
dàssi anch’ella a gracchiar d’amori e d’armi.
188. Ma che? non prima a balbettar si mise
quel suo (canto non già) strepito e strido,
ch’alto levossi in mille e mille guise
in fra i volanti ascoltatori un grido,
ed empiè sì, che Citherea ne rise,
quasi di festa popolare il lido.
Tacque alfine, e fuggì non senza rischio,
del vulgo degli augei favola e fischio.
189. — Non è gran fatto, che l’audacia stolta
di questa Gaza, che sì mal borbotta,
1'adunanza gentil ch’è qui raccolta
— disse Venere bella — abbia interrotta.
Già volse in altra forma un’altra volta
con la schiera pugnar famosa e dotta;
ma con l’altre Pieridi confuse
vergogna accrebbe a sé, gloria a le Muse. —
190. Amor, che vede di quel canto lieto
la madre intesa a la piacevol guerra,
volando intanto, ove '1 vicin mirteto
insidiosa chiave asconde e serra,
volge anelletto picciolo e secreto,
e con gagliardo piè batte la terra:
ed ecco d’acqua un repentino velo,
che fa pelago al suolo, e nube al cielo.
53 2
LA FONTANA D’APOLLO
191. A pena il piede il pavimento tocca,
e l’ordigno volubile si move,
che ’l fonte traditor sùbito scocca
saette d’acqua inaspettate e nove,
e prorompe in più scherzi, e mentre fiocca,
tempesta par, quand’è sereno, e piove.
Spicciano Tonde, ed aventate in alto
movono a chi noi sa furtivo assalto.
192. Come qualora a Roma il festo giorno
del suo sommo Pastor riporta Tanno,
le fusette volanti a mille intorno
col fermamento a gareggiar sen vanno,
ma ne riedon poi vinte, e nel ritorno
lucido precipizio a terra fanno,
e fanno le cadenti auree fiammelle
un diluvio di folgori e di stelle:
193. così ’l bel fonte in più fonti si sparse,
se non quanto diverso è l’elemento.
Questo gioco bagnò, quel laioi aise,
e l’una pioggia è d’òr, l’altra d’argento.
Alcun non sa di lor come guardarse
da quel furor, ch'assale a tradimento.
Altrui persegue, e quanto più lo schiva,
dov’uom crede salvarsi, ivi l’arriva.
194. Ahi crudo Amor, versar fontane e fiumi
arte non è, che tu pur ora impari,
avezzo già per soliti costumi
le tue fiamme a spruzzar d’umori amari.
E non ti basta ognor da’ nostri lumi
lagninosi stillar ruscelli e mari,
ma spesso vuoi che gl’infelici amanti
spargano il sangue, ove son scarsi i pianti.
CANTO NONO
533
195. Fugge la Dea di mille rivi e mille
bagnata il sen col suo bel foco in braccio;
e — Queste — dice a lui — gelide stille,
che m’han tutta di fuor sparsa di ghiaccio,
tosto rasciugherò con le faville
di que’ sospiri ond’io per te mi sfaccio. —
Va poi seco in disparte, e così lassa
in penoso piacer l’ore trapassa.
196. Già tramontar volea la maggior stella,
e del giorno avanzava ancora poco,
quando col bell’Adon Venere bella
partì da quel delizioso loco.
— Diman, dolce mio ben — gli soggiuns’ella —
ai primi lampi del diurno foco
ne verrai meco a visitare insieme
de’ regni miei le meraviglie estreme.
197. E ’I mio carro immortai vo' che ti porti
su i sereni del Ciel campi lucenti,
a più vaghi giardini, a più begli orti,
dove in vece di fiori ha stelle ardenti,
magion d’incorrottibili diporti,
patria beata de le liete genti.
Non deve a te mia gloria essere ascosa,
ché degna è ben del Ciel celeste cosa.
198. Quivi data per me ti fia licenza
di contemplar con mortal’occhi impuri
quante d’alta beltà somma eccellenza
Donne avran mai ne’ secoli futuri;
ben che m’ingombri il cor qualche temenza,
e vo’ che la tua fé me n’assecuri,
non alcuna di lor, mentre la miri,
a me ti tolga, ed al suo amor ti tiri. —
534
LA FONTANA D’APOLLO
199. Se ben la Dea d’Amor così dicea,
non n'era la cagion solo il diletto,
ma perché desviarlo indi volea,
non senza aver di Marte alto sospetto,
sapendo ben, che la sua stella rea
il riguardava con maligno aspetto :
e temea non le fusse a l’improviso
dentro le braccia un dì colto ed ucciso.
zoo. Sorgea la notte intanto, e l’ombre nere
portava intorno, e i pigri sogni in seno.
De bimmortali sue lucenti Fere
tutto il campo celeste era già pieno;
e di quelle stellanti e vaghe schiere
per le piagge del ciel puro e sereno
la cacciatrice Dea, che fugge il giorno.
Torme seguia con argentato corno.
LE MARAVIGLIE
CANTO DECIMO
A L L E G ORIA
Che Adone sotto la condotta di Mercurio e di Venere saglia
in Cielo, ci disegna che con la favorevole costellazione di questi
due Pianeti può l’intelletto umano sollevarsi alle più alte speco-
lazioni, eziandio delle cose celesti. La grotta della Natura, posta
nel Cielo della Luna con tutte l’altre circostanze, allude all’antica
opinione che stimava in quel cerchio ritrovarsi l’Idee di tutte le
cose. Ed essendo ella così prossima al mondo elementare, madre
della umidità, e concorrente insieme col Sole alla generazione,
meritamente le si attribuisce la giuridizzione sopra le cose natu¬
rali. L’Isola de’ Sogni, che nel medesimo luogo si finge, esprime
il dominio e la forza che ha quel Pianeta sopra l’ombre notturne,
e sopra il cerebro umano. La Casa dell’Arte, situata nella Sfera
di Mercurio, lo Studio delle varie scienze, la Biblioteca de’ libri
segnalati, l’Officina de’ primi inventori delle cose, il Mappamondo,
dove si scorgono tutti gli accidenti dell’Universo, e in particolare
le moderne guerre della Francia e della Italia, sono per darci
ad intendere la qualità di quella Stella, potentissima (quando è
ben disposta) ad inclinare gli uomini alla virtù, e ad operare effetti
mirabili in coloro che sotto le nascono.
ARGOMENTO
Di sfera in sfera colassù salita
Venere con Adone in Ciel sen viene,
a cui Mercurio poi quanto contiene
il maggior mondo in picciol mondo addita.
1. Musa tu che del Ciel per torti calli
infaticabilmente il corso roti,
e mentre de’ volubili cristalli
qual veloce, e qual pigro, accordi i moti,
con armonico piede in lieti balli
de l’Olimpo stellante il suol percoti,
onde di quel concento il suon si forma
ch’è del nostro cantar misura e norma:
2. tu divina Virtù, Mente immortale,
scòrgi l’audace ingegno, Urania saggia,
ch’oltre i propri confin si leva e sale
a spaziar per la celeste piaggia.
Aura di tuo favor mi regga l’ale
per sì alto sentier sì ch’io non caggia.
Movi la penna mia, tu che ’l Ciel movi,
e detta a novo stil concetti novi.
CANTO DECIMO
530
3. Tifi primier per Tacque alzò l’antenne,
con la cetra sotterra Orfeo discese,
spiegò per Taure Dedalo le penne,
Prometheo al cerchio ardente il volo stese.
Ben conforme a l’ardir la pena venne
per così stolte e temerarie imprese.
Ma più troppo ha di rischio e di spavento
la strada inaccessibile ch’io tento.
4. Tento insolite vie, dal nostro senso
e dal nostro intelletto assai lontane,
onde qualor di sollevarvi io penso
o di questo o di quel le voglie insane,
quasi debil potenzia a lume immenso,
ch’abbaccinata in cecità rimane,
l’uno abbagliato, e l’altro infermo e zoppo
si stanca al sommo, e si confonde al troppo.
5. E se pur che noi vinca e noi soverchi
l’infinito splendor talvolta a viene,
e che ’l pensier vi poggi, e che ricerchi
del non trito camin le vie serene,
imaginando que’ superni cerchi
non sa se non trovar forme terrene.
So ben, che senza te toccar si vieta
a sì tardo cursor sì eccelsa meta.
6. Tu, che di Beatrice il dotto amante
già rapisti lassù di scanno in scanno,
e ’l felice Scrittor che d’Agramante
immortalò l’alta ruina e ’l danno
guidasti sì, che su ’l destrier volante
seppe condurvi il Paladin Brittanno,
passar per grazia or anco a me concedi
del tuo gran Tempio a le secrete sedi.
54«
LE MARAVIGLIE
7. Già per gli ampi del Ciel spazii sereni
dinanzi al Sol Lucifero fuggiva,
e quei scotendo i suoi gemmati freni
l’uscio purpureo al novo giorno apriva.
Fendean le nebbie a guisa di baleni
anelando i destrier di fiamma viva,
e vedeansi pian pian nel venir loro
ceder l'ombre notturne ai fiati d’oro.
8. Da le stalle di Cipro, ove si pasce
gran famiglia d’augei semplici e molli,
sei ne scelse in tre coppie, e in auree fasce
al timon del bel carro Amor legolli.
Torcer lor vedi incontr’al dì che nasce
le vezzose cervici e i vaghi colli,
e le smaltate e colorite gole
tutte abbellirsi e variarsi al Sole.
9. Yengon gemendo e con giocondi passi
movon citati al bel viaggio il piede,
al bel viaggio, ov’apprestando vassi
V enere con colui che ’l cor le diede.
Al governo del fren Mercurio stassi
e del corso sublime arbitro siede.
Sovra la principal poppa lunata
posa la bella coppia innamorata.
10. Sciolser d’un lancio le Colombe a volo,
legate al giogo d’or, l’ali d’argento.
S’apriro i cieli, e serenossi il polo,
sparver le nubi, ed acquetossi il vento.
Di canori augelletti un lungo stuolo
le secondò con musico concento,
e sparser mille Passere lascive
di garriti d’Amor voci festive.
CANTO DECIMO
541
11. Quelle innocenti e candide Angelette,
da’ cui rostri s’apprende amore e pace,
non tenion già, d’Amor ministre elette,
lo Smerlo ingordo, o ’l Peregrin rapace.
Con lor l’Aquila scherza, altre saette
nel cor che ne l’artiglio aver le piace.
I più fieri dintorno augei grifagni
son di nemici lor fatti compagni.
12. Precorre e segue il carro ampia falange
(parte il circonda) di Valletti arcieri,
ed altri a consolar l’Alba che piange
col venir de la Dea volan leggieri.
Altri al Sol, che rotando esce di Gange,
perché sgombri la via van messaggieri.
Ciascuno il primo a le fugaci stelle
procura annunziar balte novelle.
13. — O tu, che ’n novo e disusato modo,
saggia scorta, mi guidi a quel gran regno
disse a Mercurio Adone — ove non odo
ch’altri di pervenir fusse mai degno,
pria ch’io giunga lassù, solvimi un nodo,
che forte implica il mio dubbioso ingegno.
È fors’egli corporeo ancora il Cielo,
poi che può ricettar corporeo velo ?
14. Se corpo ha il Ciel, dunque materia tiene;
s’egli è material, dunque è composto;
se composto mel dai, ne segue bene
ch’è de’ contrari a le discordie esposto;
se soggiace a’ contrari, ancor conviene
ch’a la corrozz'ion sia sottoposto.
E pur, del Ciel parlando, udito ho sempre
ch’egli abbia incorrottibili le tempre. —
LE MARAVIGLIE
54 2
15. Tace, e ’n tal suono ai detti apre la via
il dotto timonier del carro aurato:
Negar non vo’, che corpo il Ciel non sia
di palpabil materia edificato;
che far col moto suo quell'armonia
non potrebbe ch'ei fa mentr’è girato.
È tutto corporal ciò che si move,
e ciò c’ha il (piale e ’l quanto, il donde e ’l dove.
16. Ma sappi, che non sempre è da Natura
la materia a tal fin temprata e mista,
perch’abbia a generar cotal mistura,
quel che perde mutando in quel ch’acquista;
ma perché quantità prenda e figura
e del corpo a la forma ella sussista;
né di material quanto è prodotto
dee necessariamente esser corrotto.
17. Materia dar questa materia suole
al discorso mortai, che sovent’erra.
Chi fabricata la celeste moie
di foco e fumo tien, chi d’acqua e terra.
S’arrivassero al ver sì fatte fole,
sarebbe quivi una perpetua guerra.
Così di quel che l’uom non sa vedere,
favoleggiando va mille chimere.
1S. La materia del Ciel, se ben sublima
sovra l’altre il suo grado in eminenza,
non però da la vostra altra si stima:
nulla tra gl’individui ha differenza.
Ogni materia parte è de la prima,
sol la forma si varia, e non l’essenza.
Varietà tra le sue parti appare,
secondo ch’elle son più dense o rare.
CANTO DECIMO
Bastiti di saver, che peregrina
impressione in sé mai non riceve
la perfetta natura adamantina
di quel corpo lassù lubrico e lieve.
Paragonarsi (ancor che pura e fina)
qualità d’elemento a lei non deve.
Un fiore scelto, una sostanza quinta,
da cui di pregio ogni materia è vinta.
La sua figura è circolare e tonda,
periferia continua e senza punto.
Termin non ha, ma spazio egual circonda,
il principio col fin sempre ha congiunto.
Linea ch’a pien d'ogni eccellenza abonda,
a la divinità simile a punto,
e la divina eternitate imita,
perpetua, indissolubile, infinita.
Or a questa del Ciel materia eterna
l’anima che l’informa è sempre unita.
Questa è quella virtù santa e superna,
spirto che le dà moto e le dà vita.
Senza lei, che la volge e la governa,
fora sua nobiltà troppo avilita.
Miglior foran del Ciel le pietre istesse,
se la forma motrice ei non avesse.
Questa con lena ognor possente e franca
de la machina sua reggendo il pondo,
le rote mai di moderar non manca
di quel grand’Oriuol che gira a tondo.
Per questa in guisa tal che non si stanca,
l’Organo immenso ond’ha misura il mondo
con sonora vertigine si volve,
né si discorda mai, né si dissolve. —
544
LE MARAVIGLIE
23. Così dicea di Giove il massaggierò,
né lasciava d’andar perch’ei parlasse.
De’ campi intanto ov’ha Giunone impero
lasciate avea le regi'on più basse,
e già verso il più attivo e più leggiero
elemento drizzava il lucid’asse,
la cui sfera immortai mai sempre accesa
passò senza periglio, e senza offesa.
24. Varcato il puro ed innocente foco
ch'a la gelida Dea la faccia asciuga,
l’Etra sormonta, ed a più nobil loco
già presso al primo Ciel prende la fuga,
e ’l suo corpo incontrando a poco a poco,
che par specchio ben terso e senza ruga,
in queste note il favellar distingue
il maestro de l’arti e de le lingue:
25. —- Adon, so che saver di questo giro
brami i secreti, ove siam quasi ascesi:
con tanta attenzion mirar ti miro
nel volto de la Dea, madre de’ mesi ;
che se ben tu mi taci il tuo desiro,
e la dimanda tua non mi palesi,
ti veggio in fronte ogni pensier dipinto
più che se per parlar fusse distinto.
26. Questo, a cui siam vicini, è de la Luna
l’orbe, che ’mbianca il Ciel con suoi splendori,
candida guida de la notte bruna,
occhio de’ ciechi e tenebrosi orrori.
Genera le rugiade, i nembi aduna,
ed è ministra de’ fecondi umori.
Dagli altrui raggi illuminata splende,
dal Sol toglie la luce, al Sol la rende.
CANTO DECIMO
545
27. Di questo corpo la grandezza vera
minor sempre è del Sol, né mai l’adombra,
ché de la terra a misurarla intera
la trentesima parte a pena ingombra.
Ma se s’accosta a la terrena sfera,
egual gli sembra, e gli può far qualch ombra.
Sol per un sol momento allor si vede
vincer il Sol, d’ogni altro tempo cede.
28. Ha varie forme e molti aspetti e molti,
or è tonda, or bicorne, or piena, or scema,
e sempre tien nel Sol gli occhi rivolti,
che la percote da la parte estrema,
onde sempre almen può l’un de’ duo volti
partecipar di sua beltà suprema.
Fa ciascun mese il suo periodo intero,
e circondando il Ciel, cangia Hemispero.
29. Perché s’appressa a voi più che gli altri orbi,
suol sovra i vostri corpi aver gran forza.
Donna è de’ sensi, e Dea di mali e morbi:
ella sol gli produce, ella gli ammorza.
Quanto o padre Ocean nel grembo assorbì,
quanto in te vive sotto dura scorza,
e ’l moto istesso tuo cangiando usanza
altera al moto suo stato e sembianza.
30. Il frutto e ’l fior, la pianta e la radice,
il mare, il fonte, il fiume e l’onda e ’l pesce,
prendon da questa ogni virtù motrice,
e ’l moto ancor, quand’ella manca o cresce.
Del cerebro ella è sol governatrice,
di quanto il ventre chiude e quanto n’esce,
e tutto ciò che ’n sé parte ritiene
d’umida qualità, con lei conviene.
35
LE MARAVIGLIE
S 4 O
31. Cosa, non dico sol Saturno 0 Giove
nel mondo interior propizia 0 fella,
ma qual altra o che posa, o che si move,
stabil non versa, o vagabonda stella,
che non passi per lei; quante il Ciel piove
influenze laggiù, scendon per quella:
per quella chiara lampada d’argento,
ch’è de l'ombre notturne alto ornamento.
32. Onde s’avien che giri il bel sembiante
collocato e disposto in buono aspetto,
ancor che variabile e vagante,
partorisce talor felice effetto.
Ma fortuna non mai, fuor che incostante,
speri chiunque a lei nasce soggetto,
che con perpetuo error ha che lo spinga
fuor di patria a menar vita raminga. -—
33. Con più diffuso ancor lungo sermone
il Fisico divin volea seguire,
quando a mezo il discorso il bel Garzone
ia favella gli tronca, e prende a dire:
— D’una cosa a spiar l’alta cagione
caldo mi move e fervido desire,
cosa che da che pria l’occhio la scorse,
sempre ha la mente mia tenuta in forse.
34. D’alcune ombrose macchie impressa io veggio
de la triforme Dea la guancia pura.
Dimmi il perché; tra mille dubbi ondeggio,
né so trovarne opinion secura.
Qual immondo contagio (i’ ti richeggio)
di brutte stampe il vago volto oscura? —
Così ragiona, e l’altro un’altra volta
la parola ripiglia, e dice: — Ascolta.
CANTO DECIMO
547
35. Poi che cotanto addentro intender vuoi,
al bel quesito sodisfar prometto.
Ma di ciò la ragion ti dirà poi
l’occhio vie meglio assai che l’intelletto.
Non mancan già Filosofi tra voi
che notato hanno in lei questo difetto.
Studia ciascun d’investigarlo a prova,
ma chi s’apponga al ver raro si trova.
36. Afferma alcun, che d’altra cosa densa
sia tra Febo e Febea corpo framesso,
10 qual de lo splendor ch’ei le dispensa
in parte ad occupar venga il reflesso.
11 che se fusse pur, com'altri pensa,
non sempre il volto suo fora ristesso;
né sempre la vedria chi ’n lei s’affisa
in un loco macchiata, e d’una guisa.
37. Hawi chi crede che per esser tanto
Cinthia vicina agli elementi vostri,
de la natura elementare alquanto
convien pur che partecipe si mostri.
Così la gloria immacolata e ’l vanto
cerca contaminar de’ regni nostri,
come cosa del Ciel sincera e schietta
possa di vii mistura essere infetta.
38. Altri vi fu, ch’esser quel globo disse
quasi opaco cristal che ’l piombo ha dietro,
e che col suo reverbero venisse
l’ombra de le montagne a farlo tetro.
Ma qual sì terso mai fu, che ferisse
per cotanta distanza, acciaio o vetro?
e qual vista cerviera in specchio giunge
l’imagini a mirar così da lunge?
LE MARAVIGLIE
548
39. Egli è dunque da dir, che più secreta
colà s’asconda, ed esplorata invano
altra cagion, che penetrar si vieta
a l’ardimento de l’ingegno umano.
Or io ti fo saver, che quel Pianeta
non è (com’altri vuol) polito e piano,
ma ne' recessi suoi profondi e cupi
ha non men che la terra, e valli e rupi.
40. La superficie sua mal conosciuta
dico ch’c pur come la terra istessa,
aspra, ineguale, e tumida e scrignuta,
concava in parte, in parte ancor convessa.
Quivi veder potrai (ma la veduta
noi può raffigurar, se non s’appressa)
altri mari, altri fiumi, ed altri fonti,
città, regni, provincie, e piani, e monti.
41. E questo è quel che fa laggiù parere
nel bel viso di Trivia i segni foschi:
ben eh'altre macchie, ch’or non puoi vedere,
vo eh entro ancor vi scorga e vi conoscili,
che son più spesse, e più minute e nere,
e son pur scogli, e colli, e campi, e boschi.
Son nel più puro de le bianche gote,
ma da terra affisarle occhio non potè.
4 1 . Tempo verrà che senza impedimento
queste sue note ancor fien note e chiare,
mercé d'un ammirabile stromento
pei cui ciò ch’è lontan, vicino appare;
e con un occhio chiuso e l’altro intento
specolando ciascun l’orbe lunare,
scorciar potrà lunghissimi intervalli
per un piccini cannone e duo cristalli.
CANTO DECIMO
549
43. Del Telescopio a questa etate ignoto
per te fia, Galileo, l’opra composta,
l’opra ch’ai senso altrui, ben che remoto,
fatto molto maggior l’oggetto accosta.
Tu solo osservator d’ogni suo moto,
e di qualunque ha in lei parte nascosta,
potrai, senza che vel nulla ne chiuda,^
novello Endimi'on, mirarla ignuda.
44. E col medesmo occhiai non solo in lei
vedrai da presso ogni atomo distinto,
ma Giove ancor sotto gli auspicii miei
scorgerai d’altri lumi intorno cinto,
onde lassù de l’Arno i Semidei
il nome lasceran sculto e dipinto.
Che Giulio a Cosmo ceda allora fia giusto,
e dal Medici tuo sia vinto Augusto.
45. Aprendo il sen de l’Ocean profondo,
ma non senza periglio e senza guerra,
il Ligure Argonauta al basso mondo
scoprirà novo cielo e nova terra.
Tu del ciel, non del mar Tifi secondo,
quanto gira spiando, e quanto serra,
senza alcun rischio, ad ogni gente ascose
scoprirai nove luci, e nove cose.
46. Ben dèi tu molto al Ciel, che ti discopra
l'invenzi'on de l’organo celeste,
ma vie più ’l Cielo a la tua nobil opra,
che le bellezze sue fa manifeste.
Degna è l’imagin tua che sia là sopra
tra i lumi accolta onde si fregia e veste,
e de le tue lunette il vetro frale
tra gli eterni zaffir resti immortale.
55°
LE MARAVIGLIE
47. Non prima no, che de le stelle istesse
estingua il Cielo i luminosi rai,
esser dee lo splendor, ch’ai crin ti tesse
onorata corona, estinto mai.
Chiara la gloria tua vivrà con esse,
e tu per fama in lor chiaro vivrai :
e con lingue di luce ardenti e belle
favelleran di te sempre le stelle. —
48. Non avea ben quel ragionar fornito
il Secretano de’ celesti Numi,
quando il carro immortai vide salito
sovra il lume minor de’ duo gran lumi.
Trovossi Adone, in altro mondo uscito,
in altri prati, in altri boschi e fiumi.
Quindi arrivò per non segnato calle
presso un speco riposto in chiusa valle.
49. Circonda la spelonca erma e remota,
verdeggiante le squame, Angue custode,
Angue ch’attorce in flessuosa rota
sue parti estreme, e se medesmo rode.
Donna canuta il crin, crespa la gota,
del cui sembiante il Ciel s’allegra e gode,
de l’antro venerabile e divino
siede su ’l limitare adamantino.
50. Pendolile ognor da queste membra e quelle
mille pargoleggiando alme volanti,
e tutta piena intorno è di mammelle,
ond’allattando va turba d’infanti.
Misurator de’ Cieli e de le stelle,
e Cancellier de’ suoi decreti santi,
le leggi, al cui sol cenno il tutto vive,
ne’ gran fasti del fato un Veglio scrive.
CANTO DECIMO
Calvo è il Veglio e rugoso, e spande al petto
(le la barba prolissa il bianco pelo.
Severo in vista, e di robusto aspetto,
e grande sì, che quasi adombra il Cielo.
È tutto ignudo, e senza vesta, eccetto
quanto il ricopre un variabil velo.
Agii sembra nel corso, ha i piè calzati,
ed a guisa d’augel gli omeri alati.
Tien divisa in duo vetri in su la schiena
lucida ampolla, onde traspar di fore
sempre agitata e prigioniera arena,
nunzia verace de le rapid’ore.
A filo a filo per angusta vena
trapassa e riede al suo continuo errore,
e mentre ognor si volge, e sorge, e cade,
segna gli spazii de l’umana etade.
Di servi e serve, ad ubbidirgli avezza
moltitudine intorno ha reverente,
di quella maèstà che ’l tutto sprezza
provida essecutrice e diligente.
Mostrava Adon desio d’aver contezza
qual si fusse quel loco e quella gente;
onde così di que’ secreti immensi
il suo Conducitor gli aperse i sensi:
— Sacra a colei che gli ordini fatali
ministra al mondo è questa grotta annosa,
non solo impenetrabile a’ mortali,
agli occhi umani ed a le menti ascosa,
sì ch’alzarvi già mai la vista o l’ali
intelletto non può, sguardo non osa,
ma gl’interni recessi anco di lei
quasi a pena spiar sanno gli Dei.
55 2
LE MARAVIGLIE
55. Natura uni versai madre feconda
è la Donna, ch’assisa ivi si mostra.
In quella cava ha sua magion profonda,
occulto albergo e solitaria chiostra.
Giust’è ch’ognun di voi le corrisponda,
vuoisi onorar qual genitrice vostra;
e ben le devi tu, come creato
più bel d’ogni altro, Adone, esser più grato.
56. Quell’uomo antico, ch’a le spalle ha i vanni,
è quei ch'ogni mortai cosa consuma,
domator di Monarchi e di Tiranni,
con cui non è chi contrastar presuma.
Parlo del Tempo, dispensier degli anni,
che scorre il ciel con si spedita piuma,
e sì presto sen fugge, e sì leggiero,
ch’è tardo a seguitarlo anco il pensiero.
57. Con l’ali, che sì grandi ha su le terga,
vola tanto, che ’l Sol l’adegua a pena.
Sola però l’Eternità, ch’alberga
sovra le stelle, il giunge, e l’incatena.
La penna ancor, che dotte carte verga,
passa il suo volo, e ’l suo furore affrena.
Così (chi ’l crederebbe?) un fragil foglio
può di chi tutto può vincer l’orgoglio.
58. Di duro acciaio ha temperati i denti,
infrangibili, eterni, adamantini.
De le torri superbe ed eminenti
rode e rompe con questi i sassi alpini,
de’ gran teatri i porfidi lucenti,
degli eccelsi colossi i marmi fini.
Divorator del tutto, alfin risolve
le più salde materie in trita polve.
CANTO DECIMO
553
59. Di sua forma non so se t’accorgesti,
che non è mai l’istessa a la veduta.
Faccia ed età di tre maniere ha questi,
l’acerba, la virile, e la canuta.
Tu vedi ben, come sembiante e gesti
varia sovente, e d’or in or si muta.
L’effigie che pur or n’offerse innanzi
altra ne sembra, e non è più qual dianzi.
60. Védigli assiso a piedi un Potentato,
da cui tutte le cose han vita e morte,
con un gran libro, le cui carte è dato
volger (com’ella vuol) solo a la Sorte.
A questo Nume, che s’appella Fato,
detta quant’ei determina in sua Corte.
Quegli lo scrive, ed ordina al governo
Primavera ed Autunno, Estate e Verno.
61. Comandan questi al Secolo e palese
gli fan ciò che far dee di punto in punto.
Il Secol poi c’ha le sue voglie intese,
al Lustro impon che l’esseguisca a punto.
Il Lustro a l’Anno, e l’Anno al Mese, il Mese
al Giorno, il Giorno a l’Ora, e l’Ora al Punto.
Così dispon gli affari, e con tal legge
signoreggia i mortali, e ’l mondo regge.
62. Vedi que’ duo, l’un giovinetto adorno,
candido e biondo e con serene ciglia,
l’altra femina e bruna, e vanno intorno,
e si tengono in mezo una lor figlia.
Son color (se noi sai) la Notte e ’l Giorno,
e l’Aurora è tra lor bianca e vermiglia.
Or mira quelle tre, che tutto han pieno
di gomitoli d’accia il lembo e ’l seno.
554
LE MARAVIGLIE
63. Quelle le Parche son, per cui laggiuso
è filata la vita a tutti voi.
Nel suo volto guardar sempre han per uso,
tutte dependon sol da’ cenni suoi.
Quella tien la conocchia, e questa il fuso,
l’altra torce lo stame e ’l tronca poi.
Vedi la Verità figlia del Vecchio,
ch’innanzi agli occhi gli sostien lo specchio.
64. Quanto in terra si fa, là dentro ei mira,
e de l’altrui follie nota gli essempi.
Vede l’umana ambizion, ch’aspira
in mille modi a fargli oltraggi e scempi.
Crede fiaccargli alcun la forza e l’ira
ergendo statue e fabricando tèmpi.
Altri contro gli drizza archi e trofei,
Piramidi, Obelischi, e Mausolei.
65. Ride egli allora, e si sei prende a gioco,
scorgendo quanto l’uom s’inganna ed erra;
e poi che ’n piedi ha pur tenute un poco
quelle machine altere, alfin l’atterra.
Dàlie in preda de l’acqua, over del foco,
or le dona a la peste, or a la guerra.
Le sparge in fumo in quella guisa o in questa
sì che vestigio alcun non ve ne resta.
66. E di ciò la ministra è sol quell’una,
ch’è cieca, e d’un Delfin su ’l dorso siede,
calva da tergo, e ’l crine in fronte aduna,
alata, e tien sovr’una palla il piede.
Guarda se la conosci, è la Fortuna,
ch’ai paterno terren passar ti diede.
Mira quanti tesor dissipa al vento,
mitre, scettri, corone, oro ed argento.
CANTO DECIMO
ODO
67. Quattro Donne reali a piè le miri,
e son le Monarchie de l’Universo.
D’òr coronata è quella degli Assiri,
d’argento l’altra, c’ha l’impero Perso.
La Grecia appresso con men ricchi giri
porta cerchiato il crin di rame terso.
L’ultima, che di ferro orna la chioma.
è la guerriera e bellicosa Roma
68. Ma ciò che vai, se ’l tutto è un sogno breve?
Stolto colui che ’n vanità si fida.
Dritto è ben, che d’un ben che perir deve,
l’un Filosofo pianga, e l’altro rida.
Sola Virtù del Tempo avaro e lieve
può l’ingorda sprezzar rabbia omicida.
Tutto il resto il crudel, mentre che fugge,
e rapace, e vorace, invola e strugge.
69. Guarda su l’uscio pur de la caverna
e vedrai due gran Donne assise quivi,
e quinci e quindi da la foce interna
di qualità contraria uscir duo rivi.
Siede l’una da destra, e luce eterna
le fregia il volto di bei raggi vivi :
ridente in vista, e d’un aspetto santo,
in man lo scettro, ed ha stellato il manto.
70. È la Felicità, de’ cui vestigi
cerca ciascun né sa trovar la traccia,
ma da larve deluso e da prestigi,
di quella in vece, la Miseria abbraccia.
Stanno molte Donzelle a’ suoi servigi
d’occhio giocondo e di piacevol faccia:
vita, abondanza, e ben contente e liete
festa, gioia, allegria, pace e quiete.
LE MARAVIGLIE
Lungo il suo piè con limpid’onda e viva
mormorando sen va soavemente
il destro fiumicel, da cui deriva
di letizia immortai vena corrente.
Pila un lambicco in man sovra la riva
colmo de Tacque tien di quel torrente,
e (come vedi ben) fuor de la boccia
in terra le distilla a goccia a goccia.
A poco a poco in giù versa il diletto,
per ch’altri non può farne intero acquisto.
Scarso è l’uman conforto, ed imperfetto,
e qualche parte in sé sempre ha di tristo.
Quel ben, che qui nel Cielo è puro e schietto,
piove laggiù contaminato e misto,
però che pria che caggia, ei si confonde
con quell’altro ruscel, ch’amare ha Tonde:
l'altro ruscel, che men purgato e chiaro
passa da manca, e tutto di veleno,
vie più che fiel, vie più ch’assenzio amaro,
e sol pianti e sciagure accoglie in seno.
Vedi colei, che ’l vaso, onde volaro
le compagne d'Astrea, tutto n’ha pieno,
e con prodiga man sovra i mortali
sparge quanti mai fur malori e mali.
Pandora è quella; il bossolo di Giove
folle audacia ad aprir le persuase,
l'uggì lo stuol de le virtuti altrove,
le disgrazie restaro in fondo al vase.
Sol la Speranza in cima a Torlo, dove
sempre accompagna i miseri, rimase;
ed è quella colà vestita a verde,
che ’n Ciel non entra, e ne l’entrar si perde.
ir>
CANTO DECIMO
Or vedi come fuor de l’ampia bocca
de l’urna rea, ch’ogni difetto asconde,
in larga vena scaturisce e fiocca
il sozzo umor di quelle perfid'onde.
De l’altro fiume, onde piacer trabocca,
questo in copia maggior Tacque diffonde,
perché ’n quel nido di tormenti e guai
sempre Tamaro è più che ’l dolce assai.
76. Vedi morte, penuria, e guerra e peste,
vecchiezza e povertà con bassa fronte,
pena, angoscia, fatica, afflitte e meste
figlie appo lei d’Averno e d’Acheronte.
V’è Tempia Ingratitudine tra queste,
prima d’ogni altro mal radice e fonte.
E tutte uscite son del vaso immondo
per infestar, per infettar il mondo.
77. Non ti meravigliar, ch'affanni e doglie
in questo primo Ciel faccian dimora,
perché la Diva onde ’l suo moto ei toglie
è d’ogni morbo e d’ogni mal Signora.
In lei dominio e potestà s’accoglie
e sovra i corpi e sovra l’alme ancora.
.Ma se d’ogni bruttura iniqua e fella
vuoi la schiuma veder, volgiti a quella. —
78. Sì disse, e gli mostrò Mostro difforme
con orecchie di Mida e man di Cacco.
Ai duo volti parea Giano biforme,
a la cresta Priapo, al ventre Bacco.
La gola al Lupo avea forma conforme,
artigli avea d’Arpia, zanne di Ciacco.
Era Hiena a la voce, e Volpe ai tratti,
Scorpione a la coda, e Simia agli atti.
55»
LE MARAVIGLIE
79. Chiese a la guida Adon, di che natura
tusse bestia sì strana, e di che sorte,
ed intese da lui ch’era figura
vera ed Idea de la moderna Corte.
Portento orrendo de l’età futura,
tlagcl del mondo, assai peggior che morte,
de l'Erinni infernali aborto espresso,
vomito de l’Inferno, Inferno istesso.
80. — àia di questa — dicea — meglio è tacerne,
poi ch’ogni pronto stil vi fora zoppo.
Ben mille lingue e mille penne eterne
in mia vece di lei parleran troppo.
Mira in quel tribunal, dove si scerne
di gente intorno adulatrice un groppo,
Donna con torve luci e lunghe orecchie,
che da’ fianchi si tien due brutte Vecchie.
Si. L’Autorità tirannica dipigne
quella superba e barbara sembianza,
e l’assistenti sue sciocche e maligne
son la Sospezzione e l’Ignoranza.
Cabra ha verdi e spumanti, e man sanguigne,
mostra rigor, furor, fasto, arroganza.
Porge la destra ad una Donna ignuda,
di cui non è la più perversa e cruda.
8j Questa tutta di sdegno accesa e tinta,
e di dispetto e di fastidio è piena;
e da turba crudel tirata e spinta
Giovinetta gentil dietro si mena,
che Luna e l’altra mano al tergo avinta
porta di dura e rigida catena,
smarrita il viso, e pallidetta alquanto,
ed ha bianca la gonna e bianco il manto.
CANTO DECIMO
559
83. La Calunnia è colei, ch’ai trono augusto
per man la tragge, e par d’astio si roda.
Bella la faccia ha sì, ma dietro al busto
le s’attorce di serpe orrida coda.
L’altra condotta nel giudicio ingiusto,
a cui le braccia indegno ferro annoda,
è l’incorrotta e candida Innocenza,
sovrafatta talor da l’insolenza.
84. Il Livor l’è dincontra, il qual approva
la falsa accusa, e la risguarda in torto.
Aconito internai nel petto cova,
e di squallido bosso ha il viso smorto,
simile ad uom ch’afflitto ancor si trova
da lungo morbo, onde guarì di corto.
Coppia d’ancelle a la Calunnia applaude
(testimoni malvagi). Insidia e Fraude.
85. Segue costoro addolorata e piange
di tal perfìdia il torto e la menzogna
la Penitenza, che s’afflige ed ange
presso la Verità che la rampogna:
e si squarcia la vesta, e ’l crin si frange,
e di duol si despera e di vergogna,
e col flagel d’una spinosa verga
si batte il corpo e macera le terga.
86. Oimè, non stiam più qui, lasciano per Dio
di questi mostri abominandi il nido. —
Tacquesi, e lungo un tortuoso rio
quindi svi'ollo il saggio Duce e fido.
D’una oscura Isoletta Adon scoprio
non molto lunge, ancor incerto, il lido.
L’aria avea d’ognintorno opaca e bruna
qual fosca notte in nubilosa Luna.
56 o
LE MARAVIGLIE
87. Giace in mezo d’un fiume, il qual sì roco
dilaga Tacque sue placide e chete,
e va sì lento, e mormora sì poco,
che provoca in altrui sonno e quiete.
— Ecco — Mercurio allor soggiunse — il loco
dove discorre il sonnacchioso Lethe,
da cui la verga mia forte e possente
prende virtù d’addormentar la gente.
88. L’Isola d’ogni parte abbraccia e chiude
(come scorger ben puoi) Tonda letale.
Sembra oziosa e livida palude,
onde calighi densa in alto sale.
Vedi quante in quell’acque anime ignude
vanno a lavarsi ed a tuffarvi Tale
pria che le copra il corrottibil velo,
per obliar ciò c’han veduto in Cielo.
89. Vedine molte, ch’a bagnar le piume
vengon pur ne le pigre onde infelici,
e perdon pur dentro il medesmo fiume
la conoscenza de’ cortesi amici.
Son gl’ingrati color, c’han per costume
dimenticar favori e benefici,
e scriver ne le foglie e dar ai venti
gli oblighi, le promesse, e i giuramenti.
90. Altre ne vedi ancor quassù dal mondo
salir ad or ad or macchiate e brutte,
le quai non pur di quel licore immondo
corrono a ber, ma vi s’immergon tutte.
Genti son quelle che da basso fondo
son per Fortuna ad alto grado addutte,
dove ciascun divien sì smemorato
che più non gli sovien del primo stato.
CANTO DECIMO
561
91. O de’ terreni onor perfida usanza,
con cui l’oblio di sùbito si beve,
onde con repentina empia mutanza
viensi l’uomo a scordar di quanto deve;
e non solo d’altrui la rimembranza
in lui s’offusca e si smarrisce in breve,
ma sì del tutto ogni memoria ha spenta,
che di se stesso pur non si rammenta!
92. 11 paese de’ sogni è questo, a cui
pervenuti noi siamo a mano a mano.
Vedi ch'a punto ne’ sembianti sui,
simile al sogno, ha non so che del vano,
ch’apparisce e sparisce agli occhi altrui,
e visibile a pena è di lontano.
Qui da Giove scacciato il Sonno nero,
contumace del Ciel, fondò l’impero.
93. Ma per poter varcar l’onda soave
sarà buon ch’alcun legno or si prepari. —
Ed ecco allora in pargoletta nave
strania ciurma apparir di marinari.
Ubatone e Tarassio il remo grave
e Plutocle e Morfeo movean del pari.
Era il vecchio Fantasio il galeotto,
al mestier del timone esperto e dotto.
94. Presero un porto, ove d’elettro puro
a l’augel vigilante un tempio è sacro.
Quindi scolpito sta l’Herebo oscuro,
quinci d’Hecate bella il simulacro.
In su l’entrar, pria che si passi al muro,
v’ha di duo fonti un gemino lavacro,
che fan cadendo un mormorio secreto;
Pannichia è detto l'un, l’altro Negreto.
3 6
LE MARAVIGLIE
5^
95. Fa cerchio a la città selva frondosa,
che dà grato ristoro al corpo lasso.
La mandragora stupida e gravosa
e '1 papavere v’ha col capo basso.
L’Orso tra questi languido riposa
e riposanvi a l’ombra il Ghiro e ’l Tasso;
né d’abitar que’ rami osano augelli,
fuor che nottule, e gufi, e pipistrelli.
96. D’un' Iri a più color case e contrade
stansi tra lumi tenebrosi occulte.
Quattro porte maestre ha la Cittade,
due di terra e di ferro incise e sculte,
le quai rispondon per diritte strade
de la Pigrizia a le campagne inculte;
e per queste sovente o falsi o veri
escono i sogni spaventosi e fieri:
97. de l’altre due ciascuna il fiume guarda,
l’una è d’avorio, e si disserra allora
ch’è ne! suo centro la stagion più tarda,
l’altra è di corno, e s’apre in su l’Aurora.
Per quella a schernir l uom turba bugiarda
d'ingannatrici imagini vien fora.
Da questa soglion trar l’anime vaghe
visioni del ver spesso presaghe.
98. La bella coppia entrò per l'uscio eburno,
e fur quell’ombre da’ suoi raggi rotte.
Il suo palagio ombroso e taciturno
ne la piazza maggior tenea la Notte.
Da l’altra parte di vapor notturno
velato, e chiuso tra profonde grotte,
l’albergo ancor del Sonno si vedea,
che sovra un letto d’ebeno giacca.
CANTO DECIMO
563
99. Oh di quante fantastiche bugie
mostruose apparenze intorno vanno!
Sogni schivi del Sol, nemici al die,
fabri d’illusi'on, padri d’inganno.
Minotauri, Centauri, Hidre ed Arpie,
e Gerioni e Briarei vi stanno.
Chi Sirena, chi Sfinge al corpo sembra,
chi di Ciclopo, e chi di Fauno ha membra.
100. Chi par Bertuccia ed è qual Bue cornuto,
chi tutto è capo, e ’l capo è poi senz’occhi.
Altri han, com’hanno i Mergi, il becco acuto,
altri la barba a guisa degli Alocchi.
Altri con faccia umana è si orecchiuto
che convien ch’ogni orecchia il terren tocchi.
Altri ha piè d’Oca, e di Falcone artiglio,
l'occhio nel ventre, e nel bellico il ciglio.
101. Vedresti effigie angelica e sembiante,
poi si termina il piede in piedestallo,
visi di Can con trombe d’Elefante,
colli di Gru con teste di Cavallo,
busti di Nano e braccia di Gigante,
ali di Parpaglion, creste di Gallo,
con code di Pavon Grifi e Pegasi,
lusi per gambe, e pifferi per nasi.
102. Alcun di lor, quasi spalmato legno,
vola a vela per l’aure e scorre a nuoto,
ma di due rote ha sotto un altro ingegno
onde corre qual carro e varia moto.
Con un mantice alcun di vento pregno
gonfia e sgonfia soffiando il corpo vóto,
e tanti fiati accumula ne l’epa,
che come rospo alfin ne scoppia e crepa.
LE MARAVIGLIE
5 6 -1
103. E questi ed altri ancor più contrafatti
ve n’ha, piccioli e grandi, interi e mozzi,
quasi vive grottesche, o spirti astratti,
scherzi del caso, e del pensiero abbozzi.
Parte a le spoglie, a le fattezze, agli atti
son lieti e vaghi, e parte immondi e sozzi.
Molti al gesto, al vestir vili e plebei,
molti di Regi in abito, e di Dei.
104. Tra gli altri Adon vi riconobbe quello
che ’n Cipro già, quand’ei tra’ fior dormiva,
rappresentogli il simulacro bello
de la sua bella ed amorosa Diva.
E già quel pigro e lusinghier drappello
dietro a la Notte, che volando usciva,
gli s'accostava in mille forme intorno
per gravargli le ciglia, e tòrgli il giorno.
103. Ma ’l suo Dottor sì se n’accorse, e presto
gli fe’ le luci alzar stupide e basse.
Vener sorrise, ed ei poscia che desto
l’ebbe, non volse più ch’ivi indugiasse,
ma mostrandogli a dito or quello, or questo,
a l’altra riva un’altra volta il trasse.
Dimandavalo Adon di molte cose,
ed a molte dimande egli rispose.
106. E giunta a mezo di suo corso ornai
l'umida Notte a l’Ocean scendea,
e con tremanti e pallidetti rai
più d’un lume dal ciel seco cadea.
Cinto di folte stelle, e più che mai
chiaro il Pianeta innargentato ardea,
vagheggiando con occhio intento e vago
in fresca valle addormentato il Vago.
CANTO DECIMO
565
107. Deh perdonimi il ver, s'altrui par forse
ch’io qui del Ciel la dignitate offenda,
poi che là dove Tempo unqua non corse,
l’Ore non spiegan mai notturna benda.
Facciol, perché così quel che non scorse
il senso mai, l’intendimento intenda:
non sapendo trovar fuor di Natura
agli spazii celesti altra misura.
108. In questo mezo il Condottier superno
le sei vaghe corsiere al carro aggiunse.
Fece entrarvi gli amanti, ed al governo
assiso poi, vèr l’altro Ciel le punse,
ed al bel tetto del suo albergo eterno
in poche ore rotando, appresso giunse.
Intanto parlator facondo e saggio
la noia alleggeria del gran viaggio.
109. — Eccoci — gli diceva — eccoci a vista
de la mia stella, che più sù si gira,
candida no, ma variata e mista
d’un tal livor, ch’ai piombo alquanto tira,
picciola sì, che quasi a pena è vista,
e talor sembra estinta a chi la mira,
e ne le notti più serene e chiare
de l’anno sol per pochi mesi appare.
1 io. Questo l’avien non sol perché minore
de l’altre erranti e de le fisse è molto,
ma però che da luce assai maggiore
l’è spesso il lume innecclissato e tolto.
Sotto i raggi del Sole il suo splendore
nasconde sì, che vi riman sepolto,
e tra que’ lampi onde si copre e vela,
quasi in lucida nebbia, altrui si cela.
506
LE MARAVIGLIE
ni. Ma da Tesser al Sol tanto vicina
maggior forza e vigor prende sovente,
com’ancor questa del tuo cor Reina
per Tistessa cagione è più possente.
Seco, e col Sole in compagnia camina,
seco la rota sua compie egualmente:
ben che tra noi sia gran disagguaglianza:
ch’assai di lume e di beltà m’avanza.
112. La qualità di sua natura è bene
mutabile, volubile, inquieta.
Si varia ognor, né mai fermezza tiene,
or infausta, or seconda, or trista, or lieta,
Ma questa tanta instabiltà le viene
da la congiunzìon d’altro Pianeta,
perch’io son tal, che negli effetti miei
buon co' buoni mi mostro, e reo co’ rei.
113. Xascon per la virtù di questa luce
luminosi intelletti, ingegni acuti.
Senno altrui dona, ed uomini produce
cauti agli affari e ne l’industrie astuti.
Vago desio di nove cose induce,
e d’incognite al mondo arti e virtuti.
Per lei sol chiaro e celebre divenne
de le lingue lo studio, e de le penne.
114. K quando questa tua dolce lumiera
v’applica il raggio suo lieto e benigno,
quel fortunato, al cui natale impera,
riesce in terra il più famoso Cigno.
Così lo Dio de la seconda sfera
parla al vago figliuol del Re Ciprigno,
e tuttavia, mentre così gli conta
le proprie doti, il patrio Ciel sormonta.
CANTO DECIMO
567
115. Avean l’aureo timori per la via torta
drizzato già le mattutine ancelle,
già su i confin de la dorata porta
giunto era il Sole, e fea sparir le stelle;
la cui leggiadra messaggera e scorta
sgombrando intanto queste nubi e quelle,
per le piagge spargea chiare ed ombrose
de la terra e del ciel rugiade e rose:
116. quando vi giunse, e con la coppia scese
sovra le soglie del lucente chiostro.
Come fu dentro Adon, vide un paese
con più bel giorno e più bel ciel che ’l nostro;
poi dietro a le sue scorte il camin prese
per un ampio sentier che gli fu mostro;
e in un gran pian si ritrovaro adagio,
nel cui mezo sorgea nobil Palagio.
117. Palagio ch’ai modello, a la figura
quasi d'Anfiteatro avea sembianza.
Ogni edificio, ogni artificio oscura,
ogni lavoro, ogni ricchezza avanza.
— Vista nel primo giro hai di Natura —
disse Cillenio — la secreta stanza.
Or ecco, 0 bell’Adon, sei giunto in parte
dove l’albergo ancor vedrai de l’Arte.
118. De l’Arte emula sua la Casa è questa,
eccola là, se di vederla brami.
Di gemme in fil tirate è la sua vesta,
trapunta di ricchissimi riccami.
Mira di che bei fregi orna la testa,
come l’intreccia de’ più verdi rami.
Di stromenti e di machine ancor vedi
qual e quanto si tien cumulo a piedi.
5 6S
LE MARAVIGLIE
i iq. Mira penne e pennelli, e mira quanti
v’ha scarpelli e martelli, asce ed incudi,
bolini e lime e circini e quadranti,
subbi e spole, aghi e fusi, e spade e scudi. —
Così diceagli, e procedendo avanti,
la gran Maestra tralasciò suoi studi,
e reverente e con cortese inchino
umili'ossi al messaggier divino.
120. Dal divin messaggiero Adon condutto
la porta entrò de la celeste mole.
Di diamante ogni muro avea costrutto,
che lampeggiando abbarbagliava il Sole;
e l’immenso cortile era per tutto
intorniato di diverse scole,
e molte Donne in catedra sedenti
vedeansi quivi ammaestrar le genti.
121. — Queste d’etate e di bellezza eguali —
Mercurio ripigliò — Vergini elette
sono ancelle de l’Arte, e Liberali,
pero cbe l uom lan libero, son dette.
Fonti inessausti, oracoli immortali
del saper vero, e non son più che sette.
Fidate guide, illustrataci sante
del senso cieco, e de l’ingegno errante.
122. Colei ch’è prima, e tiene in man le chiavi
de la sublime e spaziosa porta,
di tutte l’altre facoltà più gravi
agli anni rozi è fondamento e scorta.
Quella, che con ragion belle e soavi
loda, biasma, difende, accusa, essorta,
è la diletta mia, che da la bocca
mentre che versa il mèl, l’aculeo scocca.
CANTO DECIMO
569
123. V’è l’altra poi con la faretra a lato,
sottil Arciera, a saettar intenta,
che ben acuti ognor da l’arco aurato,
di strali in vece, i sillogismi aventa.
Passa ogni petto d'aspri dubbi armato,
nega, prova, conferma, ed argomenta,
scioglie, dichiara, e da le cose vere
distingue il falso, alfin concniude e fère.
124. Vedi quell’altre ancor quattro donzelle
di sembiante e di volto alquanto oscure.
Tutte d’un parto sol nacquer gemelle,
e trattan pesi e numeri e misure.
L’una contemplatrice è de le stelle,
e suol vaticinar cose future.
Vedi c’ha in man la sfera, e de’ pianeti
si diletta d’espor gli alti secreti.
125. L’altra, che con la pertica disegna
e triangoli e tondi e cubi e quadri,
con linee e punti il ver mostrando, insegna
righe e piombi adoprar, compassi e squadri.
La terza di sua man figura e segna
tariffe egregie e calcoli leggiadri.
Sottrae la somma, la radice trova,
moltiplica il partito e fa la prova.
126. Instruisce a compor l'ultima suora
e fughe, e pause, e sincope, e battute,
e temprar note a l’armonia sonora
or lente e gravi, or rapide ed acute.
Altre vederne non men sagge ancora
oltre queste potrai fin qui vedute,
ben che le sette ch’io t’ho conte e mostre
sien le prime a purgar le menti vostre.
57°
LE MARAVIGLIE
127. Ecco altre due sorelle, e del Disegno
e de la Simmetria pregiate figlie.
L’una con bei colori in tela o in legno
sa di nulla formar gran meraviglie.
L’altra, che ne l’industria e ne l’ingegno
non ha (trattane lei) chi la somiglie,
sa dar col ferro al sasso anima vera,
al metallo, a lo stucco, ed a la cera.
1 28. Eccoti ancor col mappamondo avante
e con la carta un’altra Giovinetta,
che scoprendo i paesi, e quali e quante
regioni ha la terra, altrui diletta.
Sentenze poi religiose e sante
Damigella celeste altrove detta.
Di Dio discorre, e de l’eterna vita
ai discepoli suoi la strada addita.
129. Mira colà quella Matrona augusta,
che per toga e per laurea è veneranda.
È la Legge civil, che santa e giusta
sol cose oneste e lecite comanda.
Quella, che porge a l’altrui febre adusta
amara e salutifera bevanda,
è d’ogni morbo uman medicatrice,
cui sua virtù non chiude erba o radice.
130. Guarda or colei, che spiriti divini
spira, se ben fattezze alquanto ha brutte,
e par ch’ognun l’onori, ognun l’inchini,
qual madre universa! de l’altre tutte.
Quella è Sofia, che rabbuffata i crini,
magra, e con guance pallide e distrutte,
con scalzi piedi e con squarciati panni,
pur di dotti scolari empie gli scanni.
CANTO DECIMO
57 1
131. Azzìon, passione, atto e potenza,
qualità, quantità mostra in ogni ente,
genere e specie, proprio e differenza,
relazi'on, sostanza ed accidente,
con qual legge Natura e previdenza
cria le cose e corrompe alternamente,
la materia, la forma, il tempo, il moto
dichiara, e ’l sito, e l'infinito, e ’l vóto.
132. Tien due Donne da’ fianchi. Una che siede
sovra quel sasso ben quadrato e sodo,
è la Dottrina, ch'a chiunque il chiede
d’ogni difficoltà discioglie il nodo.
L’altra, che con la libra in man si vede
pesar le cose, ed ha il martello e ’l chiodo,
è la Ragion, che con accorto ingegno
a nessun crede, e vuol da tutti il pegno.
133. Ma quell’altra colà, c’ha sì leggiere
le penne, è Dea del mondo, anzi Tiranna.
Di fallace cristallo ha due visiere,
che l’occhio illude, e ’l buon giudicio appanna,
e la fa guatar torto e travedere,
sì ch’altrui spesso e se medesma inganna.
D’un tal cangiacolor la spoglia ha mista,
che l’apparenze ognor muta a la vista.
134. Sé di tanti color’ gemmanti e belle
suol l’augel di Giunon rotar le piume,
né di tanti arricchir l’ali novelle
quel del Sole in Arabia ha per costume,
né di tanti fiorir veggionsi quelle
de l’alato figliuol del tuo bel Nume,
di quante ell’ha le sue varie e diverse
verdi, bianche, vermiglie, e rance, e perse.
LE MARAVIGLIE
135. Opinion s’appella, e molte ha seco
ministre infami, e meretrici infide,
larve, ch’uscite del Tartareo speco
vengon de l’alme incaute a farsi guide.
Ed è lor capo un Giovinetto cieco,
ch’Errore ha nome, e lusingando ride.
D’un licore incantato innebria i sensi,
e lui seguendo, a precipizio viensi.
1 36. Mira intorno Astrolabi ed Almanacchi,
trappole, lime sorde, e grimaldelli,
gabbie, bolge, giornee, bossoli e sacchi,
labirinti, archipendoli e livelli,
dadi, carte, pallon, tavole e scacchi,
e sonagli, e carrucole, e succhielli,
naspi, arcolai, verticchi ed oriuoli,
lambicchi, bocce, mantici e crocciuoli.
137. Mira pieni di vento otri e vessiche,
e di gonfio sapon turgide palle,
torri di fumo, pampini d’ortiche,
fiori di zucche, e piume verdi e gialle,
aragni, scarabei, grilli, formiche,
vespe, zanzare, lucciole e farfalle,
topi, gatti, bigatti, e cento tali
stravaganze d’ordigni e d’animali.
138. Tutte queste che vedi, e d’altri estrani
fantasmi ancor prodigiose schiere
sono i capricci degl’ingegni umani,
fantasie, frenesie pazze, e chimere.
V’ha molini e palei mobili e vani,
girelle, argani e rote in più maniere.
Altri forma han di pesci, altri d’uccelli,
vari, sì come son vari i cervelli.
CANTO DECIMO
573
139. Or mira a l’ombra de la sacra pianta
fregiata il crin de l’onorate foglie
la Poesia, che mentre scrive e canta,
il fior d’ogni scienza insieme accoglie.
La Favola è con lei, ch’orna ed ammanta
le vaghe membra di pompose spoglie.
L’accompagna l’Historia, ignuda Donna,
senza vel, senza fregio, e senza gonna.
140. Vedi la Gloria, che qual Sol risplende,
vedi l’Applauso poi, vedi la Lode,
vedi l’Onor, ch’a coronarla intende
di luce eterna, onde trionfa e gode.
Ma vedi ancor coppia di Furie orrende,
che di rabbia per lei tutta si rode.
La persegue l’Invidia empia e crudele,
c’ha le vipere in mano, in bocca il fiele.
141. La maligna Censura ognor l’è dietro,
e quant’ella compone emenda e tassa.
Col vaglio ogni suo accento, ogni suo metro
crivella, e poi per la trafila il passa.
Posticci ha gli occhi in fronte, e son di vetro,
or se gli afftge, or gli ripone e lassa.
Nota con questi gli altrui lievi errori,
né scorge intanto i suoi molto maggiori. —
142. Ciò detto, di diaspri e d’alabastri
gli mostra un Arsenal capace e grande,
che sovr’alte colonne e gran pilastri
le sue volte lucenti appoggia e spande.
Turba v’ha dentro di diversi mastri,
ingegner’ d’opre illustri e memorande.
— Qui di lavori ancor non mai più visti
soggiornan — dice — i più famosi Artisti.
574
LE MARAVIGLIE
143. Di quanto mai fu ritrovato in terra,
o si ritroverà degno di stima,
o sia cosa da pace, o sia da guerra,
qui ne fu l’essemplar gran tempo prima.
Qui pria per lunghi secoli si serra
ignoto ad ogni gente, ad ogni clima,
poi si publica al mondo e si produce
a l’umana notizia, ed a la luce.
144. Vedi Prometheo, figlio di lapeto,
che di spirto celeste il fango informa.
E vedi Cadmo, autor de l’Alfabeto,
da cui prendon le lingue ordine e norma.
Vedi il Siracusan, che ’l gran secreto
trova, ond’un picciol Cielo ha moto e forma.
E ’l Tarentin, che la Colomba imita,
e ’l grand’Alberto ch’ai metal dà vita.
145. Ecco Tubai, primo inventor de’ suoni,
il Tebano Anfi'one, e ’l Trace Orfeo.
Ecco con altre corde ed altri tuoni
Lino, Iopa, Thamira, e Timotheo.
Ecco con nove armoniche ragioni
il mirabil Terpandro, e ’l buon Tirteo,
fabri di nòve lire e nòve cetre,
animatori d'arbori e di pietre.
146. Mira Tesibio, e mira Anassimene
su la mostra segnar l’ore correnti.
Mira Pirode poi, che da le vene
trae de la selce le scintille ardenti.
Anacarsi è colui, mira che tiene
in mano il fòlle, e dà misura ai vènti.
Mira alquanto più in là metter in uso
Esculapio lo specchio, e Clostro il fuso.
CANTO DECIMO
575
147. E Gige v’ha, che la pittura inventa,
ed havvi col pennello Apollodoro,
e Corebo è con lor, che rappresenta
de la Plastica industre il bel lavoro,
e Dedal, ch’agguagliar non si contenta
con sue penne nel volo e Borea e Coro,
ma machinando va d’asse e di legni,
ingegnoso Architetto, alti disegni.
148. Epimenide, Eurialo, Hiperbio e Dosso
templi e palagi ancor fondano a prova,
e Thrasone erge il muro, e cava il fosso
Danao, che ’l primo pozzo in terra trova.
Navi superbe edifica Minosso,
Tifi il timon, con cui raffreni e mova.
Bellorofonte è tra costor ch’io narro,
ed Erittonio co’ cavalli e ’l carro.
149. Guarda Aristeo con quanto util fatica
del mèl, del latte a la cultura intende.
Trittolemo a’ mortai mostra la spica,
Bige l’aratro che la terra fende.
Preto a lo scudo, Midia a la lorica
travaglia, Etolo il dardo a lanciar prende.
Scithe pon l’arco in opra e la saetta,
l’asta Thirren, Pantasilea l’accetta.
150. Havvi poi mille fabricati e fatti
da Cretensi, da Siri, e da Fenici,
mossi da rote impetuose e tratti
altri arnesi guerrieri, altri artifici.
Vedi arpagoni, e scorpioni, e gatti,
machine di cittati espugnatrici,
e da cozzar con torri e con pareti
catapulte, baliste, ed arieti.
576
LE MARAVIGLIE
151. Bertoldo vedi là, nato in su ’l Rheno,
che per strage del mondo e per ruina
l’irreparabil fulmine terreno
fonde, temprato a l’infernal fucina.
Quegli è Giovanni (oh fortunato a pieno!)
che le stampe introduce in Argentina;
e ben gli dee Magonzia eterna gloria,
com’eterna egli fa l’altrui memoria. —
152. Così parlando, per eccelse scale
sovr’aureo palco si trovar saliti,
e quindi entraro in Galeria reale
che volumi accogliea quasi infiniti.
Eran con bella serie in cento sale
riposti in ricchi armari e compartiti,
legati in gemme, ed ogni classe loro
distinguea la cornice in linee d’oro.
153. Ceda Atene famosa, a cui già Serse
rapì gli archi vii d’ogni antico scritto,
che poi dal buon Seleuco a Tarmi Perse
ritolti, in Grecia fér novo tragitto.
Né da’ suoi Tolomei d’opre diverse
cumulato Museo celebri Egitto.
Né di tai libri in quest’etate e tanti
Urbin si pregi, o il Vatican si vanti.
154. Molti n’eran vergati in molle cera,
molti in sottili e candide membrane.
Parte in fronde di palma, e parte n’era
di piombo in lame ben polite e piane.
In Caldeo ve n’avea scritta una schiera,
altri in lettre Fenicie e Soriane,
altri in Egizzii simboli e figure,
altri in note furtive, e cifre oscure.
CANTO DECIMO
577
155. — Quest’è l’Erario, in cui si fa conserva —
seguì Mercurio — de' più scelti inchiostri
di quanti mai Scrittor Febo e Minerva
sapran meglio imitar tra’ saggi vostri.
I nomi, a cui non nóce età proterva,
vedi a caratter' d’ór scritti ne’ rostri.
Qui stan le lor fatiche, e qui son state
pria che composte sieno, e che sien nate.
156. Quanti d’illustri e celebrati Autori
si smarriscon per caso empio e sinistro
degni di vita e nobili sudori,
ed or Nettuno, or n’è Vulcan ministro ?
Or qui di tutti quei ricchi tesori
che si perdon laggiù, si tien registro.
Sacre memorie, ed involate agli anni,
che traman morte agli onorati affanni.
r 57. La Libreria del dotto Stagirita,
che ’l fior contien d’ogni scrittura eletta,
di cui Theophrasto in su l’uscir di vita
lascerà successore, è qui perfetta.
D’Empedocle, Pitthagora ed Archita
v’ha le dottrine, e qualunqu’altra setta,
di Thalete, Democrito e Solone,
Parmenide, Anassagora, e Zenone.
158. Petronio v’ha, di cui gran parte ascose
torbido Lethe in nebbie oscure e cieche.
Di Tacito vi son l’ultime prose,
tutte di Livio le bramate deche,
la Medea di Nasone, ed altre cose
de’ Latini miglior’ non men che Greche.
Cornelio Gallo con Lucrezio Caro,
Ennio, ed Accio, e Pacuvio, e Tucca, e Varo.
37
s
LE MARAVIGLIE
i 5Q. D’Andronico e di Xevio i drammi lieti,
di Cecilio e Licinio anco vi stanno,
e di Publio Terenzio i più faceti
sali, ch’a le sals’acque in preda andranno.
E non pur d’altri Istorici e Poeti
le disperse reliquie albergo v’hanno,
ma gli oracoli ancor de le Sibille,
campati dal furor de le faville. —
iGo. Tacque, e volgendo Adon l’occhio in disparte
vide gran quantità di libri sciolti,
ch’avean malconce e lacere le carte,
tutti sossovra in un gran mucchio accolti.
Giacean negletti al suol, la maggior parte
rosi dal tarlo, e ne la polve involti.
Or perché — disse — esposti a tanto danno
dal bell’ordine questi esclusi stanno?
161. E perché senza onor, senza ornamento
di coverta o di nastro io qui gli trovo?
Un fra gli altri gittato al pavimento
ne veggio là fra Drusiano e novo,
che (se creder si deve a l’argomento)
porta un titolo illustre, “ 11 Mondo novo ”,
Ma si logoro par, s'io ben discerno,
che quasi il Mondo vecchio è più moderno! —
162. — Di scusa certo, e di pietà son degni —
sorridendo l’Interprete rispose —
quei che d’ogni valor poveri ingegni
si sforzai! d’emular l’opre famose;
ch’ingordigia d'onor non ha ritegni
ne le cupide menti ambiziose,
e quand’aito volar ne veggion uno,
a quel segno arrivar vorria ciascuno.
CANTO DECIMO
579
163. Xon mica a tutti è di toccar concesso
ile la gloria immortai la cima alpina.
Chi volar vuol senz’ali, accoppia spesso
a l’audace salita alta ruina.
Ma quantunque avenir soglia l’istesso
quasi in ogni bell’arte e disciplina,
non si vede però maggior tracollo,
che di chi segue indegnamente Apollo.
164. Dietro ai chiari Scrittor di Smirna e Manto,
per cui sempre vivranno i Duci e l’armi,
tentando invan di pareggiargli al canto,
più d’uno arroterà lo stile e i carmi.
Oh quanti poi, con quanto studio e quanto
de l’Italico stuol di veder parmi
tracciar con poca loda i duo migliori,
che ’n su ’l Po canteran guerre ed amori!
163. Che di Poemi in quella lingua cresca
numerosa ferragine, e di Rime,
la facil troppo invenzion tedesca
n’è cagion, che per prezzo il tutto imprime.
Ma s’alcuna sarà, che mal riesca,
l’Opra che tu dicesti è tra le prime.
Così figliano i monti, e ’l topo nasce,
ma poi nato ch’egli è, si more in fasce.
166. Poi che sì fatti parti un breve lume
visto a pena han laggiù nel vostro mondo,
il Yecchiarel da le veloci piume,
quel che vedesti già ne l'altro tondo,
qui ridurle in un monte ha per costume
per sepelirle in tenebroso fondo.
Alfin le porta ad attuffar nel rio
che copre il tutto di perpetuo oblio.
LE MARAVIGLIE
5 So
167. Ma più non dimoriam, ché poi ch’a questi
t’ho scòrto eterni e luminosi mondi,
converrà ch’altro ancor ti manifesti
de’ secreti del fato alti e profondi,
e vie molto maggior’ che non vedesti
meraviglie vedrai, se mi secondi. —
Qui tacque, e ’n ricca loggia e spaziosa
il condusse a mirar mirabil cosa.
168. Vasto edificio d’ingegnosa Sfera
reggea, quasi gran mappa, un piedestallo,
che s’appoggiava ad una base intera
tutta intagliata del miglior metallo.
Era d’ampiezza assai ben grande, ed era
fabricata d’acciaio e di cristallo.
La cerchiavan per tutto in molti giri
fasce di lucidissimi zaffiri.
169. Forma avea d’un gran Pomo, e risplendea
più che lucente e ben polito specchio,
e d’aurei seggi intorno intorno avea
per risguardarla un commodo apparecchio.
Quivi, mentre ch’intento Adon tenea
l’occhio a la Palla, al suo parlar l’orecchio,
Mercurio seco e con la Dea s’assise,
indi da capo a ragionar si mise.
170. — Questa -—- dicea — sovramortal fattura,
la qual confonde ogni creato ingegno,
opra mirabil è, ma di Natura,
e di divin maestro alto disegno.
L’artefice di tanta architettura,
che d’ogni altro artificio eccede il segno,
fu questa mia, del gran Fattor sovrano
(ben che imperfetta) imitatrice mano.
LE MARAVIGLIE
58*
i 7 i . Sudò molto la man, né l’intelletto
poco in sì nobil machina sofferse,
e lungo tempo inabile Architetto
sue fatiche e suoi studi invan disperse;
ma quei ch’è sol tra noi fabro perfetto,
del bel lavor l’invenzi'on m’aperse,
e ’l secreto mi fe’ facile e lieve
di raccorre il gran mondo in spazio breve.
172. E che sia ver, rivolgi a questa mia
adamantina fabrica le ciglia.
Di’ se vedesti, o s’esser può che sia
istromento maggior di meraviglia.
Composta è con tant’arte e maestria,
ch’ai globo universal si rassomiglia.
Mirar nel cerchio puoi limpido e terso
quanto l’Orbe contien de l’Universo.
173. Formar di cavo rame un Cielo angusto
fia forse in alcun tempo altrui concesso,
dove or sereno, or di vapori onusto
l’aere vedrassi, e ’l tuono e ’l lampo espresso,
e tener moto regolato e giusto
la bianca Dea con l’altre stelle appresso,
e con perpetuo error per l’alta mole
di fera in fera ir tra le sfere il Sole.
174. Ala dove un tal miracolo si lesse,
o chi senno ebbe mai tanto profondo
che compilar, compendiar sapesse
la gran rota del tutto in picciol tondo?
Al magistero mio sol si concesse
far un vero model del maggior mondo,
lo qual del mondo insieme elementare
(non che sol del celeste) è l’essemplare.
LE MARAVIGLIE
582
175. Onde di quante cose, o buone o ree,
passate ha il mondo in qualsivoglia etade,
e di quante passar poscia ne dee
per quante ha collaggiù terre e contrade,
qui son le prime originarie Idee,
dove scorger si può ciò che v’accade.
Riluce tutto in questo vetro puro
col passato e ’l presente anco il futuro.
176. Vedi le Zone fervide e l’algenti,
e dove bolle e dove agghiaccia l’anno.
Vedi con qual misura agli elementi
tutti i corpi celesti in giro vanno.
Vedi il sentier, là dove i duo lucenti
Passaggieri del Ciel difetto fanno.
Vedi come veloce il moto gira
del Ciel ch’ogni altro Ciel dietro si tira.
177. Ecco i Tropici poi, quindi discerni
volgersi il Cancro, e quinci il Capricorno,
dove agguaglian del pari i corsi alterni
la notte al sonno, a la vigilia il giorno.
Ecco i Coluri, uniti ai poli eterni,
che sempre il ciel van discorrendo intorno.
Ecco con cinque linee 1 Paralelli,
e nel bel mezo il principal tra quelli.
178. Eccoti là sotto il più basso Cielo
il foco, che sempr’arde e mai non erra.
Mira de Tacque il trasparente gelo,
che ’l gran vaso del mar nel ventre serra.
Mira de l’aria molle il sottil velo,
mira scabrosa e ruvida la terra,
tutta librata nel suo proprio pondo,
quasi centro del Ciel, base del mondo.
CANTO DECIMO
58.3
170. Rimira, e vi vedrai distinti e chiari
boschi, colli, pianure, e valli e monti.
Vedrai scogli ed arene, isole e mari,
e laghi e fiumi e ruscelletti e fonti,
provincie e regni, e di costumi vari
genti diverse, e d’abiti, e di fronti.
Vedrai con peli, e squame, e penne, e rostri
e fere, e pesci, ed augelletti, e mostri.
180. Vedi la parte ove l’Aurora al Tauro
il capo indora, e l’Oriente alluma.
Vedi l'altra, ove lava al vecchio Mauro
il piè di sasso l’Africana spunta.
Vedi là dove sputa il fiero Cauro
su le balze Rifee gelida bruma.
Vedi ove il Negro con la negra gente
suda sotto l’ardor de l’asse ardente.
181. Ecco le rupi onde trabocca il Arilo,
che la patria e ’l natal sì ben nasconde,
liceo l’Eufrate, che per dritto filo
le due gran region parte con Tonde.
L’Indo è colà, che per antico stilo
fa di tempeste d’or ricche le sponde.
Quell’è il terreo, là dove sferza e scopa
le sue fertili piagge il mar d’Europa.
iSj. Vuoi l’Arabie veder per te famose?
la Petrea, la Deserta, e la Felice?
Eccoti il loco a punto, ove t’espose
la trasformata già tua genitrice.
Ve’ le rive di Cipro, ambiziose
d’una tanta bellezza abitatrice.
Conosci il prato ove perdesti il core?
È quello il tetto, ove t’accolse Amore?
5*4
LE MARAVIGLIE
183. Grande è il teatro, e ne' suoi spazii immensi
chi langue in pena, e chi gioisce in gioco.
Ma per non ti stancar la mente e i sensi
in cose ornai che ti rilevan poco,
tanto sol mostrerò, quanto appartiensi
a la bell’ésca del tuo dolce foco.
Sai pur, che protettrice è questa Dea
de la stirpe di Dardano e d'Enea.
184. Le diede sovra Pallade e Giunone
Paride già de le bellezze il vanto,
ben che tragico n’ebbe il guiderdone,
e corser sangue il Simoenta e ’l Santo.
Questa (ma non già sola) è la cagione
ch’ella il seme Troiano ami cotanto. —
Mirolla in questo dir Mercurio, e rise:
l'altra arrossì col rimembrar d’Anchise.
185. — Or mentre — seguì poi —, del cavo fianco
uscito del destrier ch’insidie chiude,
stuol di greci guerrieri il Frigio stanco
assai con armi impetuose e crude,
sotto la scorta del buon Duce Franco
ricovra a la Meotica palude
una gran parte di reliquie vive,
essuli, peregrine, e fuggitive.
186. Taccio il corso fatai di queste genti,
e de’ suoi vari casi il lungo giro;
per quanti fortunevoli accidenti
in Germania passar con Marcomiro;
come di Marcomiro i discendenti
nel Gallico terren si stabilirò,
dapoi che Feramondo al mondo venne,
che de lo scettro il prim’ onor vi tenne.
CANTO DECIMO
585
187. Né fia d’uopo additarti ad uno ad uno
di quest’ampia miniera i gran Monarchi,
e le palme, e le spoglie, e di ciascuno
l’eccelse imprese e gli onorati incarchi.
La folta selva degli Eroi ch’aduno
consenti pur che brevemente io varchi,
e scelga sol del numero ch’io dico
col degno figlio il valoroso Enrico.
188. Volgi la vista ove ’l mio dito accenna,
e la Lega vedrai l’insegne sciorre,
e quasi armata ed animata Ardenna,
tre foreste di lance in un raccòrre.
Ma d’altra parte il Paladin di Senna
vedile pochi e scelti a fronte opporre.
Vedi con quanto ardire oltre Garona
fa le truppe marciar contro Perona.
189. Montagna che del Ciel tocchi i confini,
selva d’antiche e condensate piante,
fiume che d’alta rupe in giù ruini,
tempesta in nembo rapido e sonante,
neve indurata in freddi gioghi alpini,
fiamma Ch’Euro a le stelle erga fumante,
Mar, Cielo, Inferno a l’animosa spada
forano agevol guado, e piana strada.
190. Guerrier, destrieri atterra, armi, stendardi
spezza, e sprezzando gli urti, apre le strade.
Nembi di sassi, grandini di dardi,
turbini d’aste, fulmini di spade
piovongli sovra, ed ei de’ più gagliardi
sostien gl’incontri, agl’impeti non cade:
né stanco posa, né ferito langue,
fatto scoglio di ferro in mar di sangue.
LE MARAVIGLIE
586
191 Tutto del sangue ostil molle e vermiglio
abbatte, impiaga, uccide, ovunque tocchi.
Vedil vibrando a prova il ferro e '1 ciglio
ferir col brando, e spaventar con gli occhi
S’altri talor ne l’orrido scompiglio
si rivolge a mirar quai colpi ei scocchi,
dal guardo è pria che da la spada ucciso,
e chi fugge la man, non campa il viso.
19J. Chi gli contenderà l’alto diadema,
s’un’oste tal d’ogni poter disarma?
né sol da presso il Rhodano ne trema,
ma fa da lunge impallidir la Parma?
Reco del Tago la speranza estrema,
il Signor degli Allobrogi, che s’arma.
Ecco, che ’n prova al paragon concorre
con l’Italico Achille il Gallo Hettorre.
193. Odi Parigi i fieri tuoni, e vedi
quanti Tirata man fulmini aventa.
Deh che pensi ? o che fai ? perché non cedi
da co’ Giganti suoi Fiegra paventa.
Stendi stendi le palme, e pietà chiedi,
e l’auree chiavi al regio piè presenta.
Stolta sei ben, s’altro pcnsicr ti move:
così si vince sol Tira di Giove.
194. Vedilo entrar ne le famose mura,
ed occupar le maldifese porte.
Van con la Fuga cieca e malsecura
declinando il furor del braccio forte
Tignobil Pianto, e la plebea Paura,
chi non fugge da lui, segue la morte.
Battuto dal timor cade il consiglio,
e l’ordine confuso è dal periglio.
CANTO DECIMO
195. Eccolo alfin, ch'è con applauso eletto
de’ Galli alteri a governare il freno.
Xé studia quivi con tiranno affetto
beni usurpati accumularsi in seno.
Con larga man, con gioviale aspetto
versa d’oro, ov’è d’uopo, il grembo pieno,
e d’or in or regnando altrui più scopre
generosi pensier, magnanim’opre.
196. Xon v’ha più loco ambizione ingorda,
non più stolto furor, discordia fiera.
Xon v’ha Prudenza cieca, o Pietà sorda:
Pace e Giustizia in quell’impero impera.
Sa far (sì ben le repugnanze accorda)
Autunno germogliar di Primavera,
mentre fra gli aurei Gigli a Senna in riva
pianta dopo la Palma anco l’Oliva.
197. Virtù quanto è maggior, tanto è più spesso
de l’Invidia maligna esposta ai danni,
la qual suol quasi a lei far quello istesso
che ’l tarlo ai legni, e la tignuola ai panni.
Qual ombra che va sempre al corpo appresso,
la perseguita ognor con vari affanni.
Ma son gli oltraggi suoi, ch’offendon poco,
lime del ferro, e mantici del foco.
198. Mira il fior de’ migliori, al cui gran lume
l’altrui sciocco livor divien farfalla,
mercé di quel valor, che per costume
quanto s’affonda più, più sorge a galla:
malgrado di chi nocergli presume,
ai pesi è palma, a le percosse è palla;
onde di novo onor doppiando luce
è fatto inclito Re d’inclito Duce.
588
LE MARAVIGLIE
igg. Del Guerrier forte, i cui gran pregi essalto,
ria tale e tanta la sublime altezza
che, come Olimpo oltra le nubi in alto
non teme i venti, e i fulmini disprezza,
così d’invidia, o pur d’insidia assalto
danneggiar non potrà tanta grandezza,
anzi ogni offesa ed ogni ingiuria loro
sarà soffio a la fiamma, e fiamma a l’oro.
zoo. Se non ch’io veggio di furor d’inferno
d’una Furia terrena il petto acceso,
e punto da le vipere d’Averno
un cor malvagio a perfid'opra inteso.
Non vedi là, come colui ch’a scherno
prese esserciti armati, a terra ha steso,
mosso da folle e temeraria mano,
con un colpo crudel ferro villano?
zoi. Quando a balte speranze in sen concette
tenendo il mondo già tutto converso,
cinto d’armi forbite e genti elette
spaventa il Moro, ed atterrisce il Perso,
e gli appresta Fortuna e gli promette
lo scettro universal de l’Universo,
pria ch’egli vada a trionfar d’altrui,
vien Morte iniqua a trionfar di lui.
zoz. Vansi le Virtù tutte a sepelire
nel sepolcro che chiude il Sol de’ Franchi,
salvo la Fama, che non vuol morire
perch’a le glorie sue vita non manchi;
e come al caso orribile a ridire
i suoi tant’occhi lagrimando ha stanchi,
così per farlo ancor sempre immortale
c’apparecchia a stancar le lingue e l’ale.
CANTO DECIMO
5 S 9
203. Ma che? Se da colei che vince il tutto
è vinto alfine il sempr’invitto Enrico,
l’alto onor de’ Borbon quasi distrutto
in parte a ristorar vien Lodovico,
che da sì degno stipite produtto,
aggiunge gloria al gran legnaggio antico,
e sotto l’ombra del materno stelo
alza felice i verdi rami al Cielo.
204. Or mi volgo colà, dove Baiona
smalta di Gigli i fortunati lidi.
Veggio superbo il mar, che s’incorona
di gemme e d’or, qual mai più ricco il vidi.
Già già l’arena sua tutta risona
di lieti bombi, e di festiva gridi.
Veggio per Tonde placide e tranquille
sfavillar lampi, e lampeggiar faville.
205. Né l’Indico Oceano Orientale
tante aduna nel sen barbare spoglie,
né lo stellato ciel cumulo tale
di bellezze e di lumi in fronte accoglie.
Oh spettacol gentil, pompa reale,
oh bennato consorte, oh degna moglie!
Qual concorso di Regi e di Reine
scende a felicitar Tacque marine!
206. Risguarda in mezo al fiume, ov’io ti mostro,
vedrai colonne eburnee, aurei sostegni
con un gran sovraciel di lucid’ostro
far ricca tenda a un’isola di legni,
che fianco a fianco aggiunti, e rostro a rostro,
porgono il nobil cambio ai duo gran regni,
mentre prendono e dan Spagna e Parigi
Lisabetta a Filippo, Anna a Luigi.
590
LF. MARAVIGLIE
207. Ma vedi opporsi agl’imenei felici
suddite al Gallo e ribellanti schiere,
e coprir di Guascogna i campi aprici,
quasi dense boscaglie, armi guerriere.
Quinci e quindi aversarie e protettrici
<piegan Guisa e Condè bande e bandiere.
Ma del figlio d’ Enrico il novo Enrico
si mostra sì, non è però nemico.
20S. Iduno è colui che sotto ha quel destriero
baio di pelo, Italian di razza.
Di tre vaghi Alironi orna il cimiero,
e di croci vermiglie elmo e corazza.
Ben che misto di bigio abbia il crin nero,
gli agi abbandona, ed esce armato in piazza,
v carco in un d’esperienza e d’anni,
torna di Marte ai già dismessi affanni.
209. L’altro è quei più lontan, che la campagna
■-corre di ferro e d’or grave e lucente.
E su ’l verde degli anni, e l’accompagna
fiera e di novità cupida gente.
Ha ne lo scudo i Gigli, e di Brettagna
cavalca ubero un corridor possente,
( tien dal fianco attraversata al tergo
una banda d’azurro in su l’usbergo.
210. Già già numero immenso ingombra il piano
di tende armate e di trabacche tese.
Piagne disfatte il misero Aquitano
e le messi e le moli al bel paese.
Già tinto il Giglio d’or di sangue umano,
ch’è pure (ahi ferità) sangue francese,
sembra quel fior che del suo Re trafitto
ne le foglie purpuree il nome ha scritto.
CANTO DECIMO
591
11. Gallia infelice, ahi qual s’appiglia, ahi quale
ne le viscere tue morbo intestino!
Rode il tuo sen profondo interno male
di domestico tosco e cittadino.
Pugnan discordi umori in corpo frale
sì ch’io preveggio il tuo morir vicino;
ed al tuo scampo ogni opra, ogni arte è vana,
se M e i) 1 c a pietà noti ti risana.
12. Pon’ colà mente a la gran Donna d’Arno
con qual valor la sua ragion difende,
né con petto tremante o viso scarno
fra tante cure sue posa mai prende.
Vorrebbe (e '1 tenta ben, ma '1 tenta indarno)
senza ferro estirpar le teste orrende,
le teste di quell’Hidra empia ed immonda,
di veleno infornai sempre feconda.
13. Che non fa per troncarle? ecco pospone
a le publiche cose il ben privato,
ed a l’impeto ostil la vita espone
per salvar del gran pegno il dubbio stato.
Ad accordo venir pur si dispone,
e sospende tra l’ire il braccio armato,
pur che ’l furor s’acqueti, e cessi quella
d’orgoglio insano Aquilonar procella.
14. Ma quando alfin la gran tempesta scorge
che l’aria offusca e ’I mar conturba e mesce,
e che l’onda terribile più sorge,
e che ’l vento implacabile più cresce,
al ben saldo timon la destra porge,
drizzasi al polo, e di camin non esce,
or con forza reggendo, or con ingegno
fra tanti flutti il travagliato legno.
LE MARAVIGLIE
592
215. Fisa dritto colà meco lo sguardo,
dove l’ampia riviera il passo serra.
Quivi campeggia il gran Campion Guisardo,
contro cui non si tien torre, né terra.
E par che dica intrepido e gagliardo:
« Chi la pace ricusa, abbia la guerra ».
E con prodezza a la baldanza eguale
de l’aversario i miglior Forti assale.
216. L’essercito reai cauto provede
di genti e d’armi, e non s’allenta o stanca
per esseguir quanto giovevol crede
o necessario a la Corona Franca.
Oh senza essempio incomparabil fede!
quando ai casi oportuni ogni altro manca,
sol questi al par de le più forti mura
mostra petto costante, alma secura.
217. Fa gran levate di cavalli e fanti.
Che può contro costor l’oste nemica?
Gente miglior non vide il Sol tra quanti
cinser spada già mai, vestir lorica.
Non sanno in guerra indomiti e costanti
o temer rischio, o ricusar fatica.
Usi in ogni stagion con l’armi grevi
bere i sudori, e calpestar le nevi.
218. Oh qual fervor di Marte, oh qual già tocca
al Re crescente il cor foco d’ardire!
Brama di gir tra’ folgori che scocca
piu d’un cavo metallo, a sfogar l’ire.
Ma dapoi che non può là dove fiocca
la tempesta del sangue in pugna uscire,
vassene o caccia essercitando, o giostra,
ch’una effigie di guerra almen gli mostra.
CANTO DECIMO
593
219. Così Leon da la mammella irsuta
uso ancora a poppar cibi novelli,
tosto che l’unghia al piè sente cresciuta,
a la bocca le zanne, al collo i velli,
già la rupe natia sdegna e rifiuta,
la tana angusta, e le vivande imbelli.
Già segue già tra le cornute squadre
per le Getule selve il biondo padre.
220. Ma quella Dea (ch'altro che Dea non deve
dirsi colei ch’a divin’opre aspira)
smorza intanto quel foco, e non l’è greve
per la commun salute il placar l’ira.
1 congiurati Principi riceve
e l’accampato essercito ritira,
ed al popol fellone e contumace
perdonando il fallir, dona la pace.
221. Ecco d’astio privato ancor bollire
de’ Duci istessi gli animi inquieti,
e ’n stretta lega ammutinati ordire
di novelle congiure occulte reti.
Ecco l’accorto Re viene a scoprire
di quel trattato i taciti secreti,
e da’ sospetti d’ogni oltraggio indegno
con la prigione altrui libera il regno.
222. Poi che '1 pensier del machinato danno
vano riesce, e d’ogni effetto vóto,
del capo afflitto le reliquie vanno
qual polve sparsa a lo spirar di Noto.
Ma per nove cagion pur anco fanno
novo tra lor sedizioso moto;
e pur con nove forze e genti nove
la regia armata a danni lor si move.
38
594
LE MARAVIGLIE
223. Fuor de’ materni imperi intanto uscito
passa il Re novo a possedere il trono,
da cui pria calcitrante, e poi pentito,
chi pur dianzi l’offese ottien perdono.
Richiamata è Virtù, Marte sbandito
per quell’alto donzel di cui ragiono,
l’alto donzel, che sostener non pavé
con si tenera man scettro sì grave.
224. Il Tamigi, il Dannubbio, il Beti, il Rheno
l’ama, il teme, l’ammira anco da lungo,
anzi fin ne l’Italico terreno
a dar le leggi col gran nome giunge.
E se pur di vederne espresso a pieno
un degno essempio alcun desio ti punge,
risguarda in riva al Po, come si face
arbitro de la guerra e de la pace.
225. Io dico, ove tra ’l Po, che non lontano
nasce, e la Dora e ’l Tanaro risiede
il bel paese, al cui fecondo piano
la montagna del Ferro il nome diede.
Vedrai Savoia con armata mano
che due cose in un punto a Mantoa chiede,
il pegno de la picciola nipote,
e de’ confin la patteggiata dote.
226. Vedi di Cadmo il successor, che viene
in campo a por le sue ragioni antiche,
e perché l’una nega, e l’altra tiene.
Case unite in amor tornan nemiche.
Forse nutrisci, o Mincio, entro le vene
il seme ancor de le guerriere spiche,
poi che veggio dal sen de la tua terra
pullular tuttavia germi di guerra ?
CANTO DECIMO
595
Veder puoi di Torin l’invitto Duce,
cui non ha Roma o Macedonia eguale,
che carriaggi e salmerie conduce
con varie sovra lor machine e scale.
Su lo spuntar de la diurna luce
a Trino arriva, e la gran porta assale.
Vedi stuol piemontese e savoiardo
quivi attaccar l’espugnator pettardo.
Reco, rotto il rastei, passato il ponte,
non però senza sangue e senza morti,
le genti alloggia a l’alta rocca a fronte,
prende i quartier più vantaggiosi e forti,
manda la valle ad appianar col monte
i picconieri e i manovali accorti,
mette i passi a spedir scoscesi e scabri
con vanghe e zappe e guastadori e fabri.
Fa con gabbie e trincee steccar dintorno
de’ miglior posti i più securi siti.
Col sembiante reai vergogna e scorno
accresce ai vili, ed animo agli arditi.
Far fiamma o lampo, or parte, or fa ritorno
cercando ove conforti, ed ove aiti,
mentre il cannon, che fulminando scoppia,
nel rivellin la batteria raddoppia.
Ed egli in un co’ generosi figli
studia come talor meglio si batta,
sempre occupando in fra i maggior perigli
la prima entrata, e l’ultima ritratta.
Convien che pur di ceder si consigli
la terra alfin per non restar disfatta:
ed apre al vincitor, che l’assecura
da la preda, dal ferro, e da l’arsura.
596
LE MARAVIGLIE
231. Moncalvo a un tempo espugna anco e conquista,
ma chi può qui vietar che non si rube?
Va il tutto a sacco. Oh qual confusa e mista
scorgo di fumo e polve oscura nube!
E se pari l’udir fusse a la vista,
risonar v’udirei timpani e tube.
Rendersi i difensor già veder parmi,
salve le vite con gli arnesi e l’armi.
232. Pur ne l’Alba medesma Alba è sorpresa,
e pur da le rapine oppressa langue.
11 miser cittadin non ha difesa,
per doglia afflitto, e per paura essangue.
Va il soldato ove ’l trae fra l’ire accesa
fame d’or, sete d’or più che di sangue.
Suscita l’oro ch’è sotterra accolto,
e sepelisce poi chi l’ha sepolto.
233. Di buon presidio il gran Guerrier fornisce
le prese piazze, ed ecco il campo ha mosso.
Nova milizia assolda, e ’ngagliardisce
di gente elvezia e valesana il grosso.
Ecco de la città che ’mpaludisce
là tra ’l Belbo e la Nizza, il muro ha scosso.
Ecco a difesa del Signor di Manto
il vicino Spagnuol movesi intanto.
234. Per reverenza de l’insegne Ibere
toglie a Nizza l’assedio, e si ritraggo.
Quindi van di cavalli armate schiere
d’incisa e d’Acqui a disertar le piagge.
Tragedia miserabile a vedere
le culte vigne divenir selvagge,
e dal furor del foco e de le spade
abbattuti i villaggi, arse le biade.
CANTO DECIMO
597
235. Trema Casale; a temprar armi intesi
sudano i fabri a le fucine ardenti.
L’acciar manca a tant’uopo, onde son presi
mille dagli ozii lor ferri innocenti.
Rozi non solo e villarecci arnesi,
ma cittadini artefici stromenti
forma cangiano ed uso, e far ne vedi
elmi e scudi, aste ed azze, e spade e spiedi.
236. Il vomere già curvo, or fatto acuto,
a Bellona donato, a Cerer tolto,
su la sonante incudine battuto,
d’aratore in guerrier vedi rivolto.
L’antico agricoltor rastro forcuto,
nel fango e ne la rugine sepolto,
vestendo di splendor la viltà prima,
ringiovenisce al foco ed a la lima.
237. Intanto e quinci e quindi ecco spediti
vanno e vengono ognor corrieri e messi,
ché '1 buon Re ch’io dicea, vuol che sopiti
sieno i contrasti, e la gran pugna cessi ;
ed acciò che gli affar di tante liti
in non sospetta man restin rimessi,
ai deputati imperiali e regi
la consegnar de la vittoria i pregi.
238. S’induce alfin, capitulati i patti,
l’Eroe de l'Alpi a disarmar la destra,
e de’ diffinitor de’ gran contratti
tra le mani il deposito sequestra.
Ma qual rio sacrilegio è che non tratti
l’empia Discordia, d’ogni mal maestra?
Ecco da capo al rinovar de l’anno
novi interessi a nove risse il tranno.
59«
LE MARAVIGLIE
230. Tornano a scorrer l’armi, ov’ancor stassi
la prateria sì desolata e rasa
che ne stillano pianto e sangue i sassi,
poi che fabrica in piè non v'è rimasa,
né resta agli abitanti afflitti e lassi
villa, borgo, poder, castello o casa.
Già s’appresta la guerra, e già la tromba
altri chiama a la gloria, altri a la tomba.
240. Colui ch’è primo e la divisa ha nera,
e su l'usbergo brun bianca la croce
(ben il conosco a la sembianza altera),
è Carlo, il cor magnanimo e feroce.
Di corno in corno e d’una in altra schiera
il volo impenna al corridor veloce.
Per tutto a tutti assiste, e '1 suo valore
intelletto è del campo, anima e core.
241. Spoglia di grosso e malcurato panno,
lacerata da lance e da quadrella,
l'armi gli copre, e fregio altro non hanno:
né vuol tanto valor vesta più bella.
Spada, splendido don del Re Brittanno,
cinge, né v’ha ricchezza eguale a quella.
Ricca, ma più talor suo pregio accresce,
cli’i rubin tra i diamanti il sangue mesce.
24 z. Mira colà, dove distende e sporge
Asti verso Aquilon Cantiche mura.
Poco lunge di fuor vedrai che sorge
un picciol colle in mezo a la pianura.
Quindi (fuor che la testa) armato ei scorge
le classi tutte, e ’l suo poter misura.
Quindi del campo in generai rassegna
rivede ogni guerrier, nota ogn’insegna.
CANTO DECIMO
599
243. Quasi Pastor, che le lanose gregge
con la provida verga a pasco adduca,
con leggiadre ordinanze altrui dà legge
il coraggioso, il bellicoso Duca.
Per mostrar quivi a chi raffrena e regge
come di ferro e di valor riluca,
spiega ogni stuol vessilli e gonfaloni,
gonfia stendardi, e sventola pennoni.
244 Quanto d’Insubria il bel confin circonda
fin sotto le Ligustiche pendici,
quanto di Sesia e Bormia irriga l’onda
vóto riman di turbe abitatrici.
Quei che ne la vallea cupa e profonda
soggiornan del Monviso a le radici
vengonvi, e di Provenza e di Narbona
quei che bevon Durenza, Isara, e Sona.
243. Né pur d’Augusta solo e di Lucerna
le valli ìnculte e le montagne algenti,
e dagli aspri cantoni Agauno e Berna
mandanvi copia di robuste genti;
ma giù da PAlpi, ove mai sempre verna,
v’inondan quasi rapidi torrenti
per le vie di Bernardo e di Gebenna
quei che lasciano ancor Ligeri e Senna.
246. Un, che con armi d’or va seco al paro,
è l’Aldighiera, il Marescial temuto,
che sotto giogo di pesante acciaro
doma il corpo rugoso e ’l crin canuto.
Ecco di Damian l’eccidio amaro,
da’ duo franchi Guerrier preso e battuto,
ed ecco d’Alba la seconda scossa.
Chi fia, ch’impeto tanto affrenar possa ?
óoo
LE MARAVIGLIE
247. Pon’ mente a quel cimier, che con tre cime
di bianca piuma si rincrespa al vento.
È di Vittorio, il Principe sublime,
del Piemonte alta speme, alto ornamento.
Ben l’interno valor negli atti esprime,
ha di latte il destrier, l’armi d’argento,
e d’un aureo moni], ch’ai petto scende,
groppo misterioso al collo appende.
248. Vedi con quanto ardire, e ’n che fier atto
inaspettato a Messeran s’accampa,
e giunto a Cravacor quasi in un tratto
di ruina mortai segni vi stampa.
Già questo e quel, poi che del giusto patto
non tur contenti, in vive fiamme avampa.
Già d’amboduo con esterminio duro
spianato è il Forte, e smantellato il muro.
249. Vuoi veder un, che nato a grandi imprese,
d’emular il gran padre s’affatica?
Mira Tomaso, il giovane cortese,
che tinta di sanguigno ha la lorica,
e ’l cuoio del Leon sovra l’arnese
porta, de l’avo Alcide insegna antica.
Di seta ha i velli, e con sotti! lavoro
mostra il ceffo d’argento, e l’unghie d’oro.
250. Vedilo in dubbia e perigliosa mischia
passar tra mille picche, e mille spade.
Già dal volante fulmine che fischia
trafitto il corridor sotto gli cade.
Ma ne’ casi maggior vie più s’arrischia
quel cor, che col valor vince l’etade,
e pien d’ardir più generoso ed alto,
preso novo destrier, torna a l’assalto.
CANTO DECIMO
Coi
51. Miralo poi, mentre il maggior fratello
con gran guasto di morti e di prigioni
rompe il soccorso, e ’l Capitan di quello
uccide, che confuso è tra’ pedoni,
de la Cavalleria giunto al drappello
tórre i regii stendardi a duo Campioni,
indi mandargli per eterno essempio
d’alta prodezza ad appiccar nel tempio.
52. Solo il gran Filiberto altrove intanto,
dubbioso spettator, stassi in disparte.
Ma ’l buon Maurizio con purpureo manto
regge il paterno scettro in altra parte,
e l’alte leggi del governo santo
con giusta lance ai popoli comparte.
Talor pio cacciatore ai fidi cani
del devoto Amedeo dispensa i pani.
53. Oh se mai prenderà, Tifi celeste,
il gran timon de la beata nave,
da quai scogli secura, a quai tempeste
sottratta, correrà calma soave!
Già la vegg’io per quelle rive e queste
portar, nov’Argo, di gran merci grave,
scòrta da divin Zefiro secondo,
il vello d’oro a vestir d’oro il mondo.
54. Ma vedi or come freme, e come ferve
contro costoro il fior d’Italia tutta:
genti a Ciberò o tributarie o serve,
gioventù ben armata e meglio instrutta.
Ben a tante e sì fiere armi e caterve
s’oppon l’inclito Estense, e le ributta.
Alfin pur a l’essercito che passa
libero il camin cede, e ’l varco lassa.
00 2
LE MARAVIGLIE
255. Passan l’ardite schiere, e di Milano
il Prefetto maggior tra’ suoi l’accoglie.
Eccolo là sovra un corrente Ispano,
che l'insegne reali a l’aura scioglie.
il baston generai di Capitano
tien ne la destra, e veste oscure spoglie.
Mira poi come in un feroci e vaghi
s’annan da l’altro lato i gran Gonzaghi.
256. Quei c’ha d’un verdescuro a fiocco a fiocco
la sovravesta, è di Xiverse il pregio.
Vedi un, c’ha d’or lo scudo, e d’or lo stocco -
quegli è Vincenzo, il giovinetto egregio.
L’altro, che splende di lucente cocco,
e ’n sembiante ne viene augusto e regio,
riposato nel gesto, e venerando,
quegli (s’io ben comprendo) è Ferdinando.
257. Lascia i bei studi, e prende a guerra accinto
da’ tranquilli pensier cura diversa.
Manto, che ’l fior de’ lucid’ostri ha tinto,
fa ricca pompa a l’armatura tersa.
Groppo di gemme in cima il tiene avinto
sì che l’omero e ’l petto gli attraversa,
ma pur Tacciar con argentata luce
sotto la fina porpora traluce.
258. Vedi il Toledo, che Vercelli affronta,
già l’ha di stretto assedio incoronata.
La Città tutta a le difese pronta
sta su le mura, e su le torri armata.
Vedi lo Scalator, che sù vi monta,
e ’l Cittadino a custodir l’entrata;
ma poi ch'assai resiste, e si difende,
per difetto di polve alfin si rende.
CANTO DECIMO 603
259. In questo raezo il Capitano alpino
di far gualdane e correrie non resta.
Filizano, ed Annone, e ’l Monferrino
con mille piaghe in mille guise infesta.
Oltre il frutto perduto, il contadino
forza è che paghi or quella taglia, or questa.
Corre l'altrui licenza, ove l’alletta
desire o di guadagno, o di vendetta. —
260. Così divisa, e de l'istorie ignote
svela il fosco tenor lo Dio d’Egitto:
quando nel terso acciar, tra le cui rote
quanto creò Natura è circoscritto,
Adone in parti alquanto indi remote
volgesi, e vede un non minor conflitto,
dove la gente in gran diluvio inonda,
e diffuso in torrenti il sangue abonda.
261. Onde rivolto al messaggier volante,
de la bella facondia arguto padre,
disse: — O Nunzio divin, tu che sai tante
meraviglie formar nove e leggiadre,
l’altra guerra, che fan quindi distante
l’altre, ch’altrove io veggio, armate squadre,
fammi conto ond’avien, poi ch’ancor quivi
par si combatta, e corra il sangue in rivi. —
262. — Io ti dirò — risponde —, altra cagione
Austria in un tempo a guerreggiar sospinge
con la Donna reai del gran Leone,
che per Adria guardar la spada stringe.
Né pur del sangue di più d’un squadrone
la terra sola si colora e tinge,
ma ’l mare istesso in non men fiero assalto
rosseggia ancor di sanguinoso smalto.
LE MARAVIGLIE
604
263. Se gola hai di vederlo, or meco affisa
dritto le luci, ov’io l’affiso e giro. —
Egli girelle, e ’n disusata guisa
vide ondeggiar lo sferico zaffiro.
Già d’Anfitrite a man a man ravisa
i vasti alberghi entro l’angusto giro,
e di gran selve di spalmati legni
popolati rimira i salsi regni.
264. Da le rive Adriatiche e dal porto
di Parthenope bella alate travi
già del ferro mordace il dente torto
spiccano onuste di metalli cavi.
Già quinci e quindi a par a par s’è scorto
un navilio compor di molte navi,
le cui veloci e volatrici antenne
per non segnate vie batton le penne.
265. Volan per l’alto, e de’ cerulei chiostri
arano i molli solchi i curvi abeti.
Pompon co’ remi e co’ taglienti rostri
de le prore ferrate il sen di Theti.
1 fieri armenti de’ marini mostri
fuggono spaventati ai lor secreti.
Sotto l'ombra de l'arbori ch’aduna
quest’armata e quell'altra, il mar s’imbruna.
266. A pena omeri quasi ha il mar bastanti
il peso a sostener di tanti pini.
A pena il vento istesso a gonfiar tanti
può co’ fiati supplir candidi lini.
Fugaci Olimpi, e vagabondi Atlanti,
Alpi correnti, e mobili Appennini
paion, svelti da terra, e sparsi a nuoto,
i gran vascelli a la grossezza, al moto.
CAXTO DECIMO
ÒO
267. Veder fra tanti affanni in tanta guerra
la Ver gin bella a Citherea dispiacque,
la Vergin bella che s’annida e serra
tra i lucenti cristalli ov’ella nacque;
ond’hanno insieme il mar lite e la terra:
l’una l'offre le rive, e l’altro Tacque.
Pugnan con belle ambiziose gare
per averla tra lor la terra e ’l mare.
26S. Ecco che gorghi già di foco e polve
vomita il bronzo concavo e forato,
scoccando sì, che i legni apre e dissolve,
con fiero bombo il fulmine piombato.
Nebbia d’orror caliginoso involve
e mare e ciel da questo e da quel lato.
Sembra ogni canna, tante fiamme spira,
la gola di Tifeo quando s’adira.
260. Già viensi ad afferrar poppa con poppa,
già spron con sprone impetuoso cozza,
già vota il fuso, e ’l fil che Cloto aggroppa
di mille vite a un punto Atropo mozza.
Spada in spada, asta in asta urtando intoppa,
l’acqua già ne divien squallida e sozza,
e del sangue commun tinta, somiglia
del gran golfo Eritreo Tonda vermiglia.
270. L’una classe ne l’altra aventa e scaglia
pregni d’occulto ardor globi e volumi,
onde, mentre più stretta è la battaglia,
incendio repentin vien che s’allumi.
Scoppian le cave palle, e fan che saglia
turbo a le stelle di faville e fumi.
Tra ’l bitume, e la pece, e ’l nitro, e ’l zolfo
chi sbalza al ciel. chi sdrucciola nel golfo.
6o6
LE MARAVIGLIE
271. Scorre Vulcano, e mormorando rugge,
e tra’ ruggiti suoi vibra la lingua.
Gabbie intorno e castella arde e distrugge,
né sa Nettuno ornai come l’estingua.
L’ésca del sangue, che divora e sugge,
alimento gli porge onde s’impingua.
Vince, trionfa, e con la man rapace
depreda il tutto imperioso, e sface.
272. In ben mille piramidi vedresti
sorger la fiamma dagli ondosi campi,
alzar le punte, ed a que’ venti e questi
crollar le corna, e scaturirne i lampi.
Tra sì fieri spettacoli e funesti
par che la fiamma ondeggi, e l’onda avampi.
Par che torni a la lite, onde pria nacque,
fatto Abisso di foco, il Ciel de Tacque.
273. L’eccelse poppe e le merlate rocche
son cangiate in feretri, e fatte tombe.
Con rauche voci e con tremende bocche
romoreggian tamburi, e stridon trombe.
Lanciansi i dardi e vòtansi le cocche,
vibransi baste e rotansi le trombe.
Chi muor trafitto, e chi malvivo langue,
solcan laceri busti il proprio sangue.
274. Tremendi casi la spietata zuffa
mesce di ferro in un, d’acqua, e di foco.
Chi nel fondo del pelago s’attuffa,
chi del sale spumante è fatto gioco,
chi galleggia risorto e ’l flutto sbuffa,
chi tenta risalir, ma gli vai poco
ché ricade ferito, ed a versare
vien di tepido sangue un mar nel mare.
CANTO DECIMO
607
275. Strepito di minacce e di querele,
di percosse e di scoppi i lidi assorda.
Altri con man de le squarciate vele
s’attien sospeso in aria a qualche corda,
ma giunto da l’arsura empia e crudele
vassi a precipitar ne l’onda ingorda,
onde con strana e miserabil sorte
prova quattro elementi in una morte.
276. Or quando più crudel bolle la guerra,
e va baccando la Discordia stolta,
quando di qua di là l’onda e la terra
tutta è nel sangue e ne l’orrore involta;
ecco del fier Bifronte il tempio serra
colui eh'anco il serrò la prima volta.
Placa gli animi alteri, e fa che cada
l’ira da’ cori, e da la man la spada.
277. E per fermar con sempre stabil chiodo
la Pace, ch’è gran tempo ita in essiglio,
Cristi x a bella in sacrosanto nodo
stringe del Re de’ monti al maggior figlio.
Vedrassi il groppo, onde si gloria Rhodo,
insieme incatenar la Palma e ’l Giglio.
E tu di Gigli allor, non più di rose
tesserai. Dea d’Amor, trecce amorose.
278. Già d’età, già di senno, e già cresciuto
tanto è di forze il giovinetto Augusto,
ch’ottien del pari amabile e temuto
vanto di buono, e titolo di giusto.
Ma l’orgoglio de’ Principi abbattuto
sorge ancor più superbo e più robusto,
e ’l bel regno da lor stracciato a brani
rassomiglia Attheon tra’ propri cani.
LE MARAVIGLIE
608
279. Movesi a l'armi, e ne va seco armato
Enrico, il primo fior del regio seme,
quei che pur dianzi andò, quasi sdegnato,
co’ men fedeli a collegarsi insieme.
Sdegno fu, ma fu lieve; or ch’a lo stato
del gran cugino alto periglio ei teme,
gli sovien quand’è d’uopo in tanta impresa
di consiglio, d’aiuto, e di difesa.
280. Va con poche armi ad assalir la fronte
de’ nemici dispersi, e gli sorprende.
Non vedi Can, che volontarie e pronte
gli disserra le porte, e gli si rende?
Vedi di Sei nel sanguinoso ponte
quante squadre rubelle a terra stende.
Poi per domar la scelerata setta
vèr l’estrema B'iarne il campo affretta.
281. Cede lo sforzo e l’impeto nemico,
ingombra’ Navarrin terrore e gelo.
Già v’entra, e ne l’entrarvi il Re ch’io dico,
non men che di valor, s’arma di zelo.
Rende ai distrutti altari il culto antico,
a se stesso l’onor, la gloria al Cielo.
Ogni passo è vittoria, ovunque ei vada,
e vince senza sangue e senza spada.
282. Qual uom, che pigro e sonnacchioso dorme,
giace col corpo in su le piume molli:
con l’alma, del pensier seguendo Torme,
varca fiumi, e foreste, e piani, e colli;
tal rivolgendo Adon gli occhi a le forme
de la cui vista ancor non son satolli,
non sa se vede, o pargli di vedere,
tra lumi ed ombre imagini e chimere.
CANTO DECIMO
609
283. Mentre ch’ei pur de’ simulacri accolti
nel mondo cristallin l’opre rimira,
del silenzio in tal guisa i nodi ha sciolti
l’alto inventor de la celeste lira:
— Sappi che dietro a molti corsi e molti
del gran Pianeta che ’l quart’orbe gira,
pria ch’abbia effetto il ver, staranno ascose
le qui tante da te vedute cose.
284. Ma que’ successi ch'ancor chiude il fato
t’ho voluto mostrar come presenti,
acciò che miri alcun fatto onorato
de le più degne e gloriose genti.
Fin qui Giove permette, e non m’è dato
più in là scoprirti de’ futuri eventi.
Or tempo è da fornir l’opra che resta:
vedi il Sol, che nel mar china la testa.
285. Vedi, ch’armata d’argentati lampi
per le campagne del suo Ciel serene
la stella inferior, ch’ornai degli ampi
spazii de l’Orizonte il mezo tiene,
mentre de l’aria negli aperti campi
a combatter col dì la notte viene,
prende a schierar de le Guerriere ardenti
i numerosi esserciti lucenti.
286. Lungo troppo il camino, e breve è l’ora,
onde convien sollecitare il passo,
per poter, raccorciata ogni dimora,
tornar per Torme nostre al mondo basso.
Però che ’l suo bel lume ha già l’Aurora
due volte acceso, ed altrettante casso
da che partimmo, e qui (fuor ch’a felice
gente immortale) il troppo star non lice. —
39
bio
LE MARAVIGLIE
287. Cosi Mercurio; e l'altro allor dintorno
dove l'occhio il traea volgendo il piede,
le ricche logge de l’albergo adorno
di parte in parte a contemplar si diede.
E da che prese a tramontare il giorno,
ch’ivi a l’ombra però già mai non cede,
non seppe mai da tal vista levarse
fin che l’altr’Alba in Oriente apparse.
LE BELLEZZE
CANTO UNDECI M O
ALLEGORIA
Per la luce, che circonda l’ombre delle Donne belle, s’intende
la bellezza, la qual da’ Platonici fu detta raggio di Dio. Nella
Fama, che séguita la Reina Maria de’ Medici, e parla delle sue
grandezze, si comprende che la loda va sempre dietro alla virtù,
e che le azzioni generose e illustri non restano già mai senza la
meritata gloria. In Mercurio, ch’a prieghi d’Adone calcolandogli
la figura della natività, e pronosticandogli la morte, vien confu¬
tato da Venere, si dinota quanto sia grande l’umana curiosità
di volere intendere le cose future, e quanto poco si debba credere
alla vanità dell’Astrologia giudiciaria.
ARGOMENTO
Bellezze a contemplar d'alme divine
sen poggia al terzo Ciel la coppia lieta;
e degli effetti di quel bel Pianeta
scopre lo Dio facondo alte dottrine.
O già de l’Arno, or de la Senna onore,
Maria più ch’altra invitta e generosa,
Donna non già, ma nova Dea d’Amore,
che vinta col tuo Giglio hai la sua Rosa,
e del Gallico Marte il fiero core
domar sapesti, e trionfarne sposa,
nate colà su le Castalie sponde
prendi queste d’onor novelle fronde.
Queste poche d’onor fronde novelle,
questi fior di Parnaso e di Permesso
la tua chioma reai degna di stelle
non sprezzi, ond’io corona oggi le tesso;
poi ch’anco il Sole, o Sol de l’altre belle,
eh’è de la tua beltà ritratto espresso,
scorno non ha, che fra la luce e l’oro
che gli fregiano il crin, serpa l’alloro.
CANTO UNDECIMO
6X5
3. Che tue lodi garrisca, e di te canti
stridula voce, ignobil cetra e vile,
che i tuoi si chiari e sì famosi vanti
adombri oscuro inchiostro, oscuro stile,
che i pregi tuoi si spaziosi e tanti
raccolga angusto foglio, Alma gentile,
sdegnar non dèi, ch’è gloria, e non oltraggio
illustrar l’ombre altrui col proprio raggio.
4. Sai che pur rauco a salutar l’Aurora
in fra i Cigni canori il Corvo sorge.
In picciol’onda, in picciol vetro ancora
chiusa del Ciel l'immensità si scorge.
Né suol celeste Dea quando talora
simulacro votivo altri le porge,
ricco di sua bellezza aver a sdegno
rozo lin, rozo piombo, e rozo legno.
5. Tu de l’ingegno mio propizia stella
per quest’acqua ch’io corro esser ben dèi,
poi che i divini amor canto di quella
de la cui stirpe originata sei ;
e di volto e di cor benigna e bella
ben la somigli, e ti pareggi a lei,
a cui per farsi a te del tutto eguale
quanto sol manca è l’onestà reale.
6. Troppo audace talor tento ben io
cantando alzarmi al tuo celeste foco,
ma le penne a l’ardir, l’aure al desio
mancano, e caggio augel tarpato e roco.
Pur se de l’opre tue nel cantar mio
il più si tace, e quel ch’io scrivo è poco,
gran fiamma secondar breve favilla
suole, e fiume talor succede a stilla.
6t6
LE BELLEZZE
7. Uscita col canestro era e con l’urna
la condottrice de’ novelli albori,
da l’aureo vaso e da la mano eburna
versando perle, e seminando fiori.
Già la caliginosa aura notturna
spogliava l’ombre, e rivestia i colori,
e precorreano e prediceano il giorno
la stella innanzi, e gli augelletti intorno:
8. quando l’augelle querule e lascive
il carro de la Dea levando in alto,
dal cerchio di quel Nume, a cui s’ascrive
l’eloquenza e ’l saver, spiccaro il salto.
E ’n breve acceso di fiammelle vive,
vive, ma non cocenti, un puro smalto
quasi di schietto azurro oltramarino,
a la vista d’Adon si fe’ vicino.
9. — Vassi al Ciel di costei che ’l cor ti si’ace
disse Mercurio allor — dal Ciel secondo.
Mira colà de la sua bella face
il dolce e signorii iume fecondo.
O letizia, o delizia, o vita, o pace
universal de l’uno e l’altro mondo!
Come seren, qual non più mai si vide,
de la lampa felice il lampo ride!
io. Di questa stella, a cui siarn presso ornai,
la grandezza non è quant’altri crede,
ch’è del globo terren minore assai :
pur tanta in ogni modo esser si vede,
e tanti sparge e si vivaci rai,
che Giove istesso in qualche parte eccede;
ed a lei cede ogni altra luce intorno,
salvo le due, che fan la notte e ’l giorno.
CANTO UNDEC1MO
617
11. Né di tutto l’essercito stellante,
i cui splendor col suo bel volto imbruna,
fiamma sì luminosa arde tra quante
ferme n’ha il Cielo, o peregrine, alcuna.
Quinci quando talor spunta in Levante,
piazza intorno si fa, come la Luna;
e talvolta adivien che splender suole
in faccia al giorno, al paragon del Sole.
12 . Qualor gli sguardi aventurosi gira,
e spiega in su '1 balcon le chiome bionde,
tai di grazia e d’amor faville spira,
tanti di cortesia raggi diffonde,
che può gli occhi invaghir di chi la mira,
e la notte fugar, che si nasconde,
dando stupor dal suo lucente albergo
al mio gran Zio, che la sostien su ’l tergo
13. Luce del mondo ed ultima e primiera,
ella il giorno dischiude, ed ella il serra.
Sorge la prima a rischiarar la sera
tosto che ’l carro d’or gira sotterra.
Poi quando tutta la fugace schiera
de le stelle minor nel mar si serra,
riman ne l’aria d’ogni luce priva
sola in vece del Sol fin ch’egli arriva.
14. Sempre accompagna il Sol, né mai da lui
per brevissimo spazio si disgiunge,
com’ancor fa la mia, sì ch’ambodui
non sappiam l’un da l’altro andarne lunge.
Siam suoi seguaci, e seco ognun di nui
quasi in un tempo al fin del corso giunge,
terminando di par con la sua scorta
del gran calle vital la linea torta.
6lS LE BELLEZZE
15. Ben (come veder puoi) di sua sembianza
grande veracemente è la chiarezza,
ma sua virtute e sua fatai possanza
sappi ancor, che risponde a la bellezza.
Di piacevol natura ogni altra avanza,
tutta benignità, tutta è dolcezza.
Tu per lei sola a picn fatto contento
saprai per prova dir, s'adulo, o mento.
16. Egli è ben ver, che se Saturno o Marte
a lei s’accosta con obliquo aspetto,
le contamina il lume e le coniparte
di sua rea qualità qualche difetto.
Ma quando avien che ’n elevata parte
lunge da sguardo infausto abbia ricetto,
non si può dir con quanti effetti e quali
fortunati suol far gli altrui natali.
17. Gli agi del letto, e con diletto e riso
scherzi, giochi, trastulli, ozii promette
Bellezza dona, e leggiadria di viso,
ma fa molli le genti, e lascivette.
E se quand’io le son incontro assiso
meco amica e concorde i rai riflette,
produce in terra con auspicii lieti
chiari Oratori, e celebri Poeti.
18. Se Febo poscia a visitar si move,
e ’n sito principal la casa tiene,
o viensi a vagheggiar col Padre Giove,
de’ suoi tesori prodiga diviene.
Il grembo a pieno allarga, e laggiù piove
ogni grazia, ogni onore, ed ogni bene:
e col favor de l’una e l'altra luce
a gran fortune i suoi soggetti adduce. —
CANTO UNDECIMO
6ig
19. Con questo dir per entro il lucid’arco
del cerchio adamantin drizza il sentiero,
ch’ai conosciuto carro aprendo il varco,
la Diva ammette al suo celeste impero.
Loco che di piacer, di gioia carco.
Paradiso del Ciel può dirsi invero;
e tanta luce e tanta gloria serra,
ch’appo quel Cielo ogni altro Cielo è terra.
20. Aurette molli, Zefiri lasciva,
fonti d’argento e nèttare sonanti,
di corrente zafftr placidi rivi,
rive smaltate a perle ed a diamanti,
rupi gemmate di smeraldi vivi,
selve d’incenso e balsamo stillanti,
prati sempre di porpora fioriti,
piagge deliziose, antri romiti.
21. Vaghi perterra di grottesche erbose,
di pastini ben culti ampi giardini,
bei padiglioni di viole e rose,
di garofani bianchi e purpurini,
dolci concordie e musiche amorose
di Sirene, di Cigni, e d’augellini,
boschi di folti allori e folti mirti,
tranquilli alberghi di felici spirti.
22. Freschi ninfei di limpidi cristalli,
puri canali di dorate arene,
siepi di cedri, cespi di coralli,
scogli muscosi e collinette amene,
ombre secrete di solinghe valli,
e di verdi teatri opache scene,
tortorelle e colombe innamorate
fanno gioir le regio n beate.
620
LE BELLEZZE
23. Havvi riposte e cristalline stanze
di scelti unguenti e d’odorati fumi,
che soglion ricettar belle adunanze
di Ninfe no, ma di celesti Numi.
Altra liete canzoni e liete danze
accorda a l’armonia de’ sacri fiumi.
Altra nuota in un rio, c'ha Tonde intatte
di manna e mòle, e di rugiada e latte.
24. Sì come suol triangolar cristallo,
ripercosso talor da raggio averso,
mostrar rosso ed azurro e verde e giallo
quasi fiorito un bel giardin diverso;
onde chi mira i bei colori, ed hallo
del gran Pianeta al lampeggiar converso,
veggendo Iride fatto un puro gelo,
non sa se ’l Sol sia in terra, o il vetro in Cielo:
25. così volgendo ai dilettosi oggetti,
novi al suo senso, attonito le ciglia,
entrato il bell’Adon tra que' ricetti,
non senza alto piacer si meraviglia.
Su ’l collo ai volatori amorosetti
Tuccisor d’Argo abbandonò la briglia,
e gli lasciò su per la riva fresca
pascer d’ambrosia incorrottibil ésca.
26. Nel dritto mezo vaneggiava un piano
cinto di colli e spazioso in giro,
che portava lo sguardo assai lontano,
tutto u’or mattonato, e di zaffiro.
Era in un piazza e prato, e quivi in strano
lavor composti a riguardare uscirò
vari orticelli di bei fior dipinti,
che di larghi sentieri eran distinti.
CANTO UNDECIMO
Ó2I
27. Dietro la pesta Adon, sotto la cura
de la sua bella ed amorosa Duce,
si mise per la florida pianura,
la cui via dritta invèr la costa adduce,
quando rasserenossi oltremisura
quell’Hemispero di beata luce,
ed ecco un lustro lampeggiar dintorno,
che Sole a Sole aggiunse, e giorno a giorno.
28. A guisa di carbon che si raviva
di Borea ai soffi, e doppio vampo acquista,
novo splendor sovra splendore arriva,
che riga l’aria di vermiglia lista.
Quasi ampia sfera, il bel chiaror s’apriva,
nel cui centro il Garzon ficcò la vista,
e vide entro quel circolo lucente
gran tratta spaziar di lieta gente.
29. Come augellini che talor satolli
a stormo a stormo levansi dal fiume,
quasi congratulanti, ai vicin colli
scoton cantando le bagnate piume:
o come pecchie che da’ campi molli
rapir le care prede han per costume,
tra' purpurei fioretti e tra gli azurri
alternando sen van dolci sussurri :
30. così menavan tra festivi canti
l’anime fortunate allegra vita,
lucide a meraviglia e folgoranti,
tutte in età di gioventù fiorita.
Vive persone no, paion sembianti
specchiati in bel cristal, che ’l vero imita.
Ciascuna lor imagine rassembra
vanità, ch’abbia corpo, ed abbia membra.
6 22
LE BELLEZZE
31. Treraolavan per entro i rai sereni
quelle fulgide fiamme a mille a mille
non altrimenti ch’atomi o baleni
soglian per le snebbiate aure tranquille,
o lucciolette, che ne’ prati ameni
con vicende di lampi e di scintille
vibrano, quasi fiaccole animate,
il focil de le piume innargentate.
32. — Deh per quel dolce ardor — disse il Donzello
a la sua Dea — che per te dolce m'arse,
dammi ch’io sappia: che fulgore è quello
che repentino agli occhi nostri apparse ?
E quelle luci, che ’n più d'un drappello
vanno per mezo i raggi erranti e sparse,
dimmi che son, poi ch’a beltà sì rara
la chiarezza del Ciel più si rischiara ? —
33. — La luce che tu miri, è quella istessa
ch’arde ne’ tuoi begli occhi — ella rispose —:
specchio dì Dio, che si vagheggia in essa,
fior de le più perfette e rare cose:
stampa immortai da quel suggello impressa,
dove il Fattor la sua sembianza pose:
proporzi'on d’ogm mortai fattura,
pregio del mondo, e gloria di Natura.
34. Ésca dolce de l’occhio, e dolce rete
del cor, che dolcemente il fa languire,
vero piacer de l’alma, alma quiete
de’ sensi, ultimo fin d’ogni desire,
fonte che solo altrui può trar la sete
e sol render amabile il martire.
S’udito hai nominar già mai bellezza,
qui ne vedi l’essenza, e la pienezza.
CANTO UNDECIMO
623
35. L’anima nata in fra l’eterne forme,
ed avezza a quel bel ch’a sé la chiama,
de la beltà celeste in terra Torme
cerca, e ciò che l’alletta e segue e brama;
e quando oggetto a’ suoi pensier conforme
trova, vi corre ingordamente, e l’ama.
Fior, fronde, e gemme, e stelle, e Sole ammira,
ma vie più ’l Sol che ’n duo begli occhi gira.
36. Bellezza è Sole, e lampo, e fiamma, e strale,
fère ov’arriva, e ciò che tocca accende.
Sua forza è tanta, e sua virtute è tale,
ch’innebria sì, ma senza offesa offende.
Nulla senza beltà diletta o vale,
il tutto annoia, ove beltà non splende.
E qual cosa si può fra le create
più bella ritrovar de la beltate ?
37. Perde appo questo (ancor che in un s’accoglia
quanto il mondo ha di buono) ogni altro bene.
Ogni altro ben, ch’a desiare invoglia,
alfin sazia il desio, quando s’ottiene.
Sol quel desio che di beltà germoglia
cresce in godendo, e vie maggior diviene.
Sempre amor novo a novo bel succede,
tanto più cerca, quanto più possiede.
38. Giogo caro e leggier, leggiera salma,
prigionia grata, e tirrania soave.
In qualunqu'altro affar perder la palma
altrui rincresce, e Tesser vinto è grave.
A quest’impero sol qual più grand’alma
soggiace, e d’ubbidir sdegno non have.
Non è cor sì superbo, o sì rubello,
che non si pieghi e non s’inchini al bello.
6-4
LE BELLEZZE
39. Violenza gentil, ch’opprime, affrena,
tira, sforza, rapisce, e pur non nóce,
tosco vital, che nutre ed avelena,
e senza danno al cor passa veloce,
magia del Ciel, ch’incanta ed incatena,
e non ha mano, e non ha lingua o voce,
voce che muta persuade e prega,
man che senza legami annoda e lega.
40. Un sol guardo cortese, un atto pio
di bella Donna mille strazii appaga,
fa sùbito ogni mal porre in oblio,
lodar l’incendio, e benedir la piaga,
cupido di penar rende il desio
e del proprio dolor l’anima vaga,
ed uom di vita e di conforto privo
è possente a tornar beato e vivo.
41. Questo è quel lume ch’innamora e piace,
e fa corona a l’anime contente.
Né foco in fiamma, né favilla in face,
né stella in Ciel, né Sole in Oriente
arde in sì puro incendio, e sì vivace,
ch’agguagli il dolce ardor che qui si sente.
Sono astratte sostanze, e lucici ’ombre,
d’ogn’impaccio terren libere e sgombre.
42. Son de le Donne più famose e belle
tutte raccolte qui l’alme beate,
però che per fatai legge di stelle
quante già mai ne fieno, o ne son state,
quelle che nacquer già mill’anni, e quelle
che nasceran ne la futura etate,
son (come qui le vedi) a schiera a schiera
tuttequante devute a la mia sfera.
CANTO UXDECIMO
625
43. E se vago sei pur di mirar come
liete sen van per questa piaggia aperta,
e vuoi ch’alcuna io ne disegni a nome,
meco non ti rincresca ascender l’erta.
Quivi di quante scorgi aurate chiome
contezza avrai più manifesta e certa,
ché meglio apparirà (ben che remota)
qualunque fia tra lor degna di nota. —
44. C.iò detto, ad un poggiuol poggiaro in cima
de le rupi più basse e più vicine.
— Ma qual — segui Ciprigna — elegger prima
del bel numer degg’io, ch’è senza fine?
o quai più stimerò degne di stima ?
le Barbare, le Greche, o le Latine,
fra tante le più belle e nobil Donne
ch’abbia il Ciel destinate a vestir gonne?
45. Tu vedi ben colei che tanta luce
fra l’altre tutte di bellezza ha seco.
È la famosa suora di Polluce,
flebil materia al gran Poeta cieco.
Vedi Briseida, che ’l più forte Duce
fé’ sdegnoso appartar dal campo greco.
Polisena la segue, e va contenta
che l’ira ostil col proprio sangue ha spenta.
46. L’altra, ch’alquanto ha turbatetto il ciglio,
è la vezzosa Vedova Africana,
del mio ramingo ed agitato figlio
fiamma quasi maggior che la Troiana.
Tien ne la destra il ferro ancor vermiglio,
né la piaga del petto in tutto è sana;
e ’n tanta gioia pur mostra la vista
d’ira, d’odio, d’amor, d’affanno mista.
40
626
LE BELLEZZE
47. Quella, c’ha in man due serpi, e tanta dopo
lussuria trae di barbaresche spoglie,
e pende nel color de l'Ethiòpo,
ma col suo bruno a l’Alba il pregio toglie,
e ’l nero crine a l’uso di Canopo
sotto un diadema a più colori accoglie,
del grand’Antonio amica, è Cleopatra,
che l’ha di sua beltà fatto Idolatra.
48. Danae è colei, che semplicetta accolse
nel grembo virginal l’oro impudico.
Quella è l’incauta Semele, che volse
mirar in trono il non ben noto amico.
Ecco Europa colà, da cui già tolse
la più nobil provincia il nome antico.
Eccoti Leda qui, che si compiacque
del bianco augello, ond'Helena poi nacque.
49. Y’è Dlanira, che si duol delusa
d'aver ucciso l’uccisor d’Anteo.
Havvi Arianna, che l’inganno accusa
del troppo ingrato e perfido Theseo.
Guarda Andromeda poi, che non ricusa
il fido suo liberator Perseo.
Ed Hero guarda, che da lido a lido
trasse più volte il nuotator d’Abido.
50. Vedi una turba di progenie ebrea
tutta in un groppo, che laggiù camina ?
In queste sol, che ’l fior son di Giudea,
arde di santo amor fiamma divina.
Y’ha Rebecca, e Rachele, e Bersabea,
havvi Susanna, Hestèr, Dalida, e Dina,
e Giuditta è tra lor, la vedovella
feroce e formidabile, ma bella.
CANTO UNDECIMO
627
51. Mira il tragico ardor del pria crudele,
poi ripentito, anzi arrabbiato Herode,
Marianne gentil, che le querele
del fiero amante di quassù non ode.
L’altra, che d’aver tolto al suo fedele
il bel trionfo insuperbisce e gode,
io dico a Tito il buono, è Berenice,
che del gran vincitore è vincitrice.
52. Or t’addito di belle un altro coro,
non meno accese in amoroso rogo.
La gran Donna del Lazio è madre loro,
cui por s’aspetta a l’Universo il giogo.
Livia d'Augusto è prima in fra costoro,
Messalina di Claudio ha l’altro luogo,
senza mill’altre ancor, che ne tralascio,
per restringer gran massa in picciol fascio.
53. Lasciar però non voglio una, che sotto
la manca poppa insanguinata e guasta
ha di punta mortale il fianco rotto,
Lucrezia, ancor che fama abbia di casta.
Non so, s’ha come il corpo il cor corrotto:
so, ch’a la forza altrui poco contrasta;
e so che col pugnai non s’apre il petto,
che gustar pria non voglia il mio diletto.
54. No no, non già per ira il sen si fiede
ch’abbia (ti so ben dir) contro il Tiranno,
per vendicar (sì come il vulgo crede)
con un colpo il suo torto, e ’I commun danno.
Fallo sol per dolor, perché s’avede
pur troppo tardi del suo sciocco inganno,
che n’ha passata per follia d’onore
senza tanto piacer l’età migliore.
LE BELLEZZE
55. Volgiti a Fausta, che di foco infausto
per cagion del figliastro ha il cor tant’arso,
che convien che d’Amor fatto olocausto
Crispo l’estingua col suo sangue sparso.
11 tempo a dirne tante è troppo essausto,
l'occhio a segnarle tutte è troppo scarso.
Lascio l’antica schiera, e passo a quella
che dee nobilitar l’età novella.
56. Tra’ più chiari splendor de le moderne
vedi là scintillar Giulia Gonzaga.
De l’immensa beltà che ’n lei si scerne
potrà far solo il grido incendio e piaga,
ed al fier Soliman le fibre interne
strugger de l’alma innamorata e vaga,
onde per adempir gli alti desiri
verrà lo Scitha a ber Tonde di Liri.
57. Vedi duo rami del medesmo stelo,
una coppia reai di Margherite,
<;r>1 nor Kpo t* lo oloffo in PiniQ
e far di casto amor dolci ferite.
Quella ch’è prima, e di purpureo velo
le schiette membra e candide ha vestite,
indorerà con luce ardente e chiara
e del secolo il ferro, e di Ferrara.
58. L’altra, che mano a man seco congiunge,
di Lorena felice i poggi onora.
Folgoreggia il bel volto ancor da lunge,
e di lume divin tutto s’infiora.
Amor non cura, e pur saetta e punge,
ed altrui non volendo uccide ancora.
Mira con che ridente aria soave
tempra il rigor del portamento grave.
CANTO UN DECIMO Ó2y
59. Ecco d’ogni beltà, per cui beata
fìa Xovellara, un novo mostro e strano.
Per imagin formar sì ben formata
del gran Pittor s’avantaggiò la mano.
D’Amor Guerriera, e di faville armata
fa piaghe ardenti onde si fugge invano.
Ogni sua paroletta, ogni suo sguardo
lulmina una facella, aventa un dardo.
60. Isabella la bella è costei detta,
che da le prime due non si dilunga.
Disponi il core o gran Vincenzo, aspetta
ch’un suo raggio per gli occhi al cor ti giunga.
Saprai di qual ardor, di qual saetta
dolcemente mortai riscaldi e punga.
Venga a mirar costei chi non intende
come si possa amar cosa ch’offende.
61. Che lume è quel, che trae di lampi un nembo?
che candid'ombra ? e di che rai si veste?
Porta nel volto Amor, le Grazie in grembo,
e nulla ha di terren, tutta è celeste.
Sì sì, tien scritto ne l’aurato lembo:
“ La Fenice del Po, Giulia da Este ”.
O del mondo cadente ultima speme,
prole gentil de l’onorato seme!
O2. Oh come la vegg’io folgor divino
tra mille balenar luci Lombarde'
Fin ch’uom degno di lei trovi il destino,
scompagnata trarrà l’ore più tarde.
Quasi tra perle lucido rubino,
da fin or circoscritto, a vampa ed arde.
Quasi rosa tra’ fior, che ’n fresca sponda
ferma il Sol, molce l’aura, e nutre l’onda.
630
LE BELLEZZE
63. Ecco del Tebro una pregiata figlia,
onde la gloria Aldobrandina irraggia,
Idolo de la terra, e meraviglia
di questa lieta e fortunata piaggia.
Volge l’arciere e sagittarie ciglia
bella, né men che bella, onesta e saggia.
Ride il bel volto, e quasi un Ciel s’ammira,
che le Stelle paterne intorno gira.
64. Altre due ne van seco in una schiera,
che le sembrali compagne, e son sorelle.
Colei che più s’accosta a la primiera,
apre al verno maggior rose novelle.
L’altra incontrando la più chiara sfera,
fa quel del Sol, ch’ei fa de l’altre stelle.
Farà la prima il Taro adorno e lieto,
de l’altre due s’arricchirà Sebeto.
65. Ornai Savoia agli onor suoi m'appella,
e quattro Dive a rimirar m’invita,
Caterina e Maria con Isabella,
e la maggior di tutte è Margherita.
Qual Paride, che scelga or la più bella ?
Qual lingua fia di giudicarle ardita ?
Per queste, onde risona e Thile e Battro,
le Grazie, che son tre, diverran quattro.
66. L’Aurora ti parrà, se quella vedi,
quand’ella il pigro suo Vecchio abbandona.
Se questa prendi a risguardar, la credi
la bella e bianca figlia di Latona.
Se de l’altra di lor notizia chiedi,
e miri lo splendor che l’incorona,
dirai ch’a mezo giorno, a meza state
ha minor lume il luminoso frate.
CANTO UNDECIMO
67. Ma la Perla ch’io dico, ai cui gran pregi
l’Indo stupisce, e l’Oriente ha scorno,
dagli antichi tesor di cento Regi
uscita a rischiarar d'Europa il giorno;
quella che dee di preziosi fregi
far del gran figlio mio l’erario adorno,
è tal, che mai non ne produsse alcuna
la conca ove nascendo ebbi la cuna.
68. Amor dirà che ’l paragone è vile,
a cui tanto di questa il candor piacque
ch’ai suo povero sen ne fe’ monile,
e nel foco affmolla, e non ne Tacque.
Dirà che questa sua Perla gentile
tra Tonde no, ma tra le stelle nacque;
e che ’l Ciel, perché vince ogni altra stella,
vuoisi in vece del Sole ornar di quella.
69. Il più lucido hi del vello aurato
per porla in nobil filza, ha Cloto attorto;
e per legarla, il più fin or pregiato
ha scelto Amor ch’abbia l’Occaso o l’Orto.
Ma legge vuol d’irreparabil fato
che ’n breve il suo Signor rimanga morto;
né potend’ella distemprarsi in pianto,
piangan sangue per lei Torino e Manto.
70. Quell’altra, che somiglia altera e sola
Tunica Verginella peregrina,
qualor le piume ha rinovate, e vola
a visitar la region vicina,
Matilda è poi, d'Emanuel figliuola,
ne’ cui begli occhi Amor gli strali affina,
ed a cui diè di sua beltà superna
quanto può dar l’onnipotenza eterna.
632
LE BELLEZZE
71. Quegli occhi vaghi e di dolcezza ardenti,
per cui ha più del Ciel bella la terra,
struggeran, non che i cor, le nevi algenti,
che de l’Alpi canute il cerchio serra.
Moveran con tal armi e sì pungenti
contro l’alme ritrose assalto e guerra,
che torran lor ne l’amorosa impresa
e l’ingegno, e la fuga, e la difesa.
72. Vedi un rivaggio, che de l’erba fresca
ripiegando le cime, il prato bagna.
Quivi agli amori Amor istesso adesca
quant’avran mai di bello Italia e Spagna.
Quivi fiorisce ogni beltà donnesca,
ma forz’è che di dirne io mi rimagna,
ch’a l’occhio, che non ben tante n’accoglie,
la lontananza e lo splendor le toglie.
73. Pur non convien che con silenzio io passi
quelle che son tra l’Alpi e i Pirenei.
E prima a la mia vista incontro lassi
alma che co’ suoi lumi abbaglia i miei.
Sola degna a cui ceda, e ’l pomo lassi,
ch’ottenni dal Pastor de’ boschi Idei.
Margherita Valesia, il cui valore
è tesor di Virtù, pompa d’Onore.
74. Quest’altra Perla, che qual Sol fiammeggia,
ragion non è ch’io del mio dir defraude,
ben che d’un tal suggetto io ben m’aveggia
con le parole estenuar la laude.
Oh con qual grazia e maestà passeggia,
come stupido il Ciel tutto l’applaude!
Tanti spirti reali intorno piove,
che par la Sfera mia Sfera di Giove.
CAXTO UNDECIMO
&33
75. Ma par negli atti si contristi e dolga,
e va turbata e disdegnosa alquanto,
che senza morte si rallenti e sciolga
quel nodo onde la strinse Himeneo santo;
e ch’altra a un punto le rapisca e tolga
di Gallia il regno, e di beltate il vanto,
onde perder in un deggia per quella
e di Reina il titolo, e di bella.
76. Più oltre oh che divin volto vegg’io,
il cui grave rigor modera e molce
di benigna letizia un raggio pio,
e d’onesto sorriso un lampo dolce!
Ell’è Ciarlotta, ardor del regno mio,
che gli onor di Condè sostiene e folce;
Nume degno d’altari e che s’adori
con sacrifici d’anime e di cori.
77. Dal Cielo ond’esce il gran fanal di Deio,
a la riva ch’è meta a sua fatica,
e da’ pigri Trioni, ove di gelo
la Tana il piede incristallito implica,
fin dove sotto il più cocente cielo
ferve di Libia la pianura aprica,
beltà non v’ha che più s’ammiri e pregi,
possente ad infiammar l’alme de’ Regi.
78. Aguzza il guardo pur, se pur da tante
luci esser può che non languisca offeso;
e guarda ch’a quel Sol ch’avrai davante
non resti 0 l’occhio cieco, o il core acceso.
Vedrai Maria Borbon, dal cui sembiante
il modello del bel Natura ha preso.
Beltà che far potrebbe in forme nove
spuntar le corna, e nascer l’ali a Giove.
LE BELLEZZE
634
79. Questa degli avi suoi degna nipote
farà di Mompensier più chiari i figli.
Hanno ancor molto a volger queste rote
pria che nasca laggiù chi la somigli.
Bella onestà le ’mporpora le gote,
ma confonde a le rose i patrii Gigli.
Fa beato l’Inferno il suo bel viso,
e pon le pene eterne in Paradiso.
80. Risguarda or quella in umiltà superba
sotto candido vel fronte serena,
quant’aspetto reai ritiene e serba!
È la vaga Luigia di Lorena.
De l’angelica vista alquanto acerba
e del bel guardo la licenza affrena;
ma la forza del foco e de lo strale,
che passa i cori, ad affrenar non vale.
Si. Per questa il mio reame, il suo legnaggio
non men d'onor che di beltà fiorisce.
Vince parlando ogni rigor selvaggio,
le Tigri umilia, e gli Aspidi addolcisce.
Stempra gli smalti col benigno raggio,
scalda i ghiacci, apre i marmi, i cor rapisce.
Amor, questi miracoli son tuoi,
che ’n virtù de’ begli occhi il tutto puoi.
82. Mira quell’altra, che con schivi gesti
dal commercio commun sen va lontana.
Agli atti gravi, agli andamenti onesti
sfaretrata talor sembra Diana.
Ma per quanto comprendo ai rai celesti,
è la Dea Catherina, alma sovrana,
che ’n sé romita, e da lo stuol divisa
fa di sé sol gioir Gioiosa e Guisa.
CANTO UNDECIMO
635
83. Anna obliar di Siiesson non deggio,
ornamento e stupor de la mia Corte.
Languir per lei d’Amor mill’alme veggio,
e veggio al nascer suo nascer la morte.
O de le glorie mie colonna e seggio,
o maniere leggiadre, o luci accorte!
Dove di quelle luci il Sol non giri,
altro ch’ombre non vede occhio che miri.
84. Fisa la vista, e tra’ più densi rai
Enrichetta Vandoma intento mira,
e duo d’Amor Luciferi vedrai,
che ’n vece d’occhi la sua fronte gira.
Duo giardini di fior non secchi mai
veston le guance, onde dolce aura spira.
Ride la bocca, onde puoi ben vederle
in ostel di rubin chiostri di perle.
85. E che dirò di quella nobil ombra
in cui tanto di lume Apollo infuse,
che di Safo e Corinna i raggi adombra,
e gloria accresce e numero a le Muse?
Anna Roana, che d’un lauro a l’ombra
le suore seco a gareggiar ben use
sfida a cantar con que’ celesti accenti,
che del foco d’Amor son sì cocenti.
86. Tacerò poi fra tante lampe eccelse
quella onde Roccaforte arde e sfavilla?
Per crear questa luce, il Ciel si svelse
del destro lume l’unica pupilla.
S’ancor verde ed acerba Amor la scelse
per arder l’alme, e sol d’ardor nutrilla,
deh che fia poscia, e qual trarranne arsura
quando a le fiamme sue sarà matura ?
636
LE BELLEZZE
87. Ma dove lascio un altro lume chiaro?
Maria, de’ Mombasoni egregia prole?
Grazia che stia di tanta grazia al paro,
non mira in quanto mondo alluma il Sole.
Le doti illustri de lo spirto raro
raccontar non si lasciano a parole.
Dir di lei non si può, che non s’onori,
onorar non si può, che non s’adori.
SS. Incomposta bellezza e semplicetta
parte si scopre in lei, parte si chiude.
Ignudo Amor nel vago viso alletta,
le Grazie nel bel sen scherzano ignude.
Cortese orgoglio e maestà negletta,
maniere insieme e mansuete e crude,
gravità dolce e gentilezza onesta
bella la fan, ma ’n sua beltà modesta.
89. A queste glorie aggiungi, a queste lodi
i pregi del magnanimo marito,
10 dico Carlo, che con saldi nodi
d amor santo e pudico e seco unito,
e l’un fassi de l’altro in dolci modi
di scambievole onor fregio gradito
con quel lume reciproco fra loro
ch’oro a gemma raddoppia, c gemma ad oro.
90. O del Rhodano altero inclito figlio,
per cui di gloria il Gallo impenna l’ali.
Signor degno di scettro, il cui consiglio
volge la chiave de’ pensier reali ;
11 cui sommo valor farà dal Giglio
sovente pullular palme immortali ;
dritto fia ben, che d’ogni gioia colmo
stringa sì bella vite un sì degn’olmo. —
CANTO UNDECIMO
637
91. E qui Venere tace, indi gli addita
in disparte un drappel di donne elette;
e fra lor, come capo, è reverita
una, che trae per man tre pargolette.
Tien composta negli atti, a brun vestita
le bionde trecce in fosco vel ristrette;
e diadema reale ha su la chioma
di tre Gigli fregiato, e di sei Poma.
92. Son le fanciulle a la beltà materna
e nel volto e nel gesto assai sembianti;
e ’n fronte a la maggior par si discerna
cerchio di gemme illustri e scintillanti,
sì che d’Apollo la corona eterna
tempestata non è di raggi tanti:
onde nel tutto a lei si rassomiglia
di sì gran genitrice emula figlia.
93. Tal dove l’ombre trionfali spande
la pianta amica a Giove, e cara al Sole,
sotto il suo tronco verdeggiante e grande
tenera sorge e giovinetta prole.
Tal rosa ancor non atta a le ghirlande
non aperta e non chiusa in orto suole
spiegando a l’aura i suoi novelli onori
da la madre imparar come s’infiori.
94. Parve fra le più degne e più leggiadre
questa ad Adon la più leggiadra e degna,
onde rivolto a la benigna madre
del picciol Dio che nel suo petto regna,
— Chi è colei, che fra sì belle squadre —
disse — d’ogni beltà porta l’insegna?
colei che ’n vista affabilmente altera
guida l’illustre ed onorata schiera?
6 3 8
LE BELLEZZE
95. Ben Reina mi par de le Reine,
cotanta in lei d’onor luce risplende.
Ed ha tre fanciullette a sé vicine,
in cui l’effigie sua ben si comprende.
E coronata d’or l’oro del crine,
vassene avolta in tenebrose bende,
e sotto oscuro manto e bruno velo
può d’ogni lume impoverire il Cielo. —
96. — Adone — ella risponde —, i’ ben vorrei
spegner la sete al bel desir che mostri,
ma scarsi sono a favellar di lei
non che gli accenti, i più facondi inchiostri.
Non han luce più chiara i regni miei,
non vedran più bel Sol mai gli occhi vostri.
Con voce di diamante e stil di foco
cento lingue d’acciar ne dirian poco.
97. Altre volte soviemmi aver narrato
qual d’eccellenze in lei cumul si serra.
Oh quante palme, oh quanti allori il fato
ne la futura età le serba in terra!
Ma di quanti travagli il mondo armato,
per maggior gloria sua, le farà guerra!
Che non può l’alta grazia, e ’l buon consiglio
e del provido ingegno, e del bel ciglio?
98. Ma di sue lodi, a cui di par non m’ergo,
dar ti potrà colei miglior novelle;
dico colei, che tu le vedi a tergo
tra ’l fido stuol de le seguaci ancelle.
Fama s’appella, e tien sublime albergo
là ne l’ultimo Ciel sovra le stelle,
dove sorge fondata immobilmente
di diamante immortai, torre eminente.
CANTO UNDECIMO
63Q
99. Olimpo a Giove ingiurioso monte,
Atlante de le stelle alto sostegno,
Pelia, ch’altrui fu scala, Ossa, che ponte
per assalir questo superno regno,
l’Hemo, il Libano, il Tauro, o qual la fronte
erge a più eccelso inaccessibil segno,
fora a questa d’altezza ancor secondo,
che passa il Ciel, che signoreggia il mondo.
xoo. Entrate innumerabili ha la rocca,
e ’l tetto e ’l muro in molte parti rotto,
di bronzo usci e balconi, e non gli tocca
(che gran romor non faccia) aura di motto.
Tosto ch’esce il parlar fuor d’una bocca,
a lei per queste vie passa introdotto,
e forma quivi un indistinto suono,
come suol di lontan tempesta o tuono.
101. Quivi la pose il gran Rettor de’ Cieli,
quasi guardia fedel, cauta custode,
perché ciò che si fa scopra e riveli,
nunzia di quanto mira, e di quant’ode.
Cosa occulta non è ch’a lei si celi,
e dà conforme a l’opre o biasmo, o lode.
Se si move aura in ramo, in ramo fronda,
esser non può, che da costei s’asconda.
102. De l’umane memorie ombra seguace,
sempre avisa, riporta, e parte, e riede.
Né riposa già mai, né già mai tace,
e più quanto più cresce acquista fede.
Garrulo Nume, e spirito loquace,
vita de’ nomi, e di se stessa erede,
possente ad eternar gli Eroi pregiati,
e far presenti i secoli passati.
640
LE BELLEZZE
103. Generolla la terra, e co’ Giganti
nacque in un parto orribili e feroci.
Dea, che quant’occhi intorno ha vigilanti,
tanti ha vanni al volar presti e veloci,
e quante penne ha volatrici, e quanti
lumi, tanti anco ha lingue, e tant’ha voci,
e tante bocche, e tante orecchie, ond’ella
tutto spia, tutto sa, tutto favella.
104. Picciola sorge, e debile da prima,
poi s’avanza volando, e forza prende.
Passa l’aria, e la terra, e su la cima
poggia de’ tetti, e fra le nubi ascende.
E per vari idiomi in ogni clima
pari al guardo ed al volo il grido stende.
Di ciò ch’altri mai fa, di ciò che dice
o di buono, o di reo, publicatrice.
105. Questa, che deve a tuttiquattro i vènti
far poi la gloria sua chiara e sollenne,
sodisfaratti in più diffusi accenti. —
Così detto, chiamolla, ed ella venne.
Battea per le serene aure ridenti
con moto infaticabile le penne.
L’occhiuto augel rassomigliava a l’ali,
che di varie fiorian gemme immortali.
106. Di tersa luce e folgorante acceso
brando, a’ cui lampi il Sol perdea di molto,
stringea ne l’una man, l’altra sospeso
reggea dal busto essangue un capo sciolto.
Per la squallida chioma avinto e preso,
fosco nel ciglio, e pallido nel volto,
spirava nebbia; e seppe Adon, che questa
de l’Oblio smemorato era la testa.
CANTO UNDECIMO
641
107. La sollecita Dea, cui del desio
del bellissimo Adori nulla è nascosto,
e che quando l’alato e cieco Dio
il congiunse a la madre, il seppe tosto:
ben di lontan la sua dimanda udio,
e quanto Citherea gli avea risposto;
ond’una allor de le sue cento lingue
sciogliendo, il ragionar così distingue:
108. — Volgi, o mortale, ove quel Sol lampeggia
di bellezze e di grazie unico e solo
gli occhi felici, e la beltà vagheggia
ch’alza i più pigri ingegni a nobil volo.
Dico quel Sol, per cui dolce fiammeggia
la terra, il Cielo, e l’un e l’altro polo;
quel vivo Sole, a la cui chiara lampa
Senna senno non ha, se non avampa.
109. Questa è l’eccelsa e gloriosa Donna
ch’accoppia a regio scettro animo regio,
gran Reina de’ Galli, e de la gonna
e del sesso imperfetto eterno pregio.
De l’inferma virtù stabil colonna,
de l’età ruginosa unico pregio.
Essempio di beltà, nido d’Amore,
specchio di castità, fonte d’onore.
no. Dal gran centro del Ciel lunga catena
di bel diamante innanellata pende.
Con questa Amor, che l’Universo affrena,
annoda altrui soavemente, e prende.
Per questa Tuoni da la beltà terrena
d’un grado in altro a la celeste ascende,
e di questa quel bel, che 'n lei s’ammira,
un amo è d’or, che qui l’anime tira.
4 t
642
LE BELLEZZE
in. Quest’amo ascose in fra’ suoi strali Amore
in quel divino e maestoso aspetto,
in cui di due bellezze un doppio ardore
abbaglia ogni pensier, scalda ogni affetto.
L’una di nobil fiamma accende il core,
l'altra è degli occhi un reverito oggetto;
e quel gemino bel sì ben si mesce,
che qual foco per foco incendio cresce.
112. L’una il cupido senso alletta in guisa
con vivi lampi di serena luce,
ch’empie d’alto piacer chi ’n lei s’affisa,
se ben casti desir sempre produce.
L’altra dal career suo l’alma divisa
di raggio in raggio al sommo Sol conduce,
mostrandole laggiù sotto uraan velo
quella beltà che si contempla in Cielo.
113. Ben tu per questa scala ancor le piume
del tuo basso intelletto alzar potrai,
e ne lo specchio del creato lume
de l’increato investigar i rai ;
e del corporeo e naturai costume
l’impura qualità vinta d’assai,
di quel bei ciglio a la beata sfera
tornar d’umil Farfalla Aquila altera.
114. Laggiù nel mondo a soggiornar ben tardi
verrà, ma carca di caduca salma.
E ben che la gentil, per cui tu ardi,
possegga di beltà la prima palma,
sì nobili però non son que’ dardi
(con pace sua) che ti saettan l’alma.
L’una è lasciva Dea, l’altra pudica,
l’una madre d’Amor, l’altra nemica.
CANTO UNDECIMO
643
115. E ti so dir ch’alfin, poi ch’avrà molto
vestite in terra le terrene spoglie,
quando il nodo vital le sarà sciolto
da la falce crudel che ’l tutto scioglie,
lo suo spirto reai ha qui raccolto
in questo istesso Ciel dov'or s’accoglie;
e (com’è legge di destino eterno)
s’usurperà di Venere il governo.
116. A lei di questo giro il grave pondo
dal sovrano Motor sarà commesso,
e d’influir laggiù nel vostro mondo
quanto influisce il suo bel Nume istesso.
E ben contenta de l'onor secondo
bramerà la tua Dea di starle appresso;
né ben possente ad emularla a pieno,
una de le sue Grazie essere almeno.
117. Potrebbon forse per cessar le gare
de le vicende lor partir le cure.
Quella le notti addur serene e chiare,
questa portar le torbide ed oscure.
Crederò ben, che per invidia amare
tai cose, ed a soffrir le saran dure;
ma perché ’l corso de l’eterne rote
porta questo tenore, altro non potè.
118. Senno farà, se volentier le cede
e porta in pace il vergognoso oltraggio,
poi che pur di sua stirpe è degna erede,
e di sua luce un segnalato raggio.
Sai ben di qual origine procede
del famoso Quirin l’alto legnaggio.
Sai che d’ogni suo ramo è ceppo Enea,
che fu figliuol de la medesma Dea.
LE BELLEZZE
644
iiq. Tu dèi dunque saver, ch’a nascer hanno
del buon sangue Troian l’alme Latine,
onde il Tebro ornerà dopo qualch'anno
prosapia di propagini divine.
Quindi gli Anicii e i Pier Leon verranno,
poi d’Austria i Regi, indi d’Etruria alfine
a dilatar nel secolo più fosco
il Romano splendor, l’Austriaco, e ’l Tosco.
120. Veggio de l’Austro l’onorata pianta
si fatti partorir germi felici,
che ne l'arbor de l’ór non fu mai tanta
ricca copia di rami, e di radici.
Ma tra’ primi virgulti, onde si vanta,
quel ch’avrà più d’ogni altro i Cieli amici
sarà Filippo, onor di sua famiglia,
dico colui che reggerà Castiglia.
121. Seguirà Carlo, al fortunato impero
promosso poi con titolo di Quinto,
che di trionfi laureati altero,
e d'illustri trofei fregiato e cinto,
poi che partito dal paterno Ibero
avrà l’Africa corsa, e ’l mondo vinto,
romito abitator d’ermi ricetti,
deporrà ’l fascio de’ terreni affetti.
122. Sottentrerà l’altro Filippo al peso
quasi d’un novo Atlante un novo Alcide.
Re tanto a pace ed a virtute inteso
già mai da polo a polo il Sol non vide.
Questi lo scettro in I.usitania steso
(cotanto il fato a’ bei pensieri arride)
in regione ancor non nota o vista
di là dal mondo un altro mondo acquista.
CANTO UNDECIMO
645
123. Caterina vien poi con Isabella,
qui le vedi ambedue starsene in gioia.
Questa va Belgia a far beata, e quella
di sue bellezze ad abbellir Savoia.
Ecco il terzo Filippo; o degna, o bella
progenie del Guerrier ch’usci di Troia!
Spagna, costui con l’armi e col consiglio
ti fìa Frincipe e padre, e padre e figlio.
124. Non fia clima remoto, estrema Zona,
dove lo scettro suo l’ombra non stenda.
Ma l'ampia monarchia de la corona
è la luce minor che ’n lui risplenda.
Quel che sovramortal gloria gli dona,
è quella coppia amabile e tremenda,
Pietà, che con Giustizia insieme alberga:
oh di tronco bennato inclita verga!
123. Oh come a propagar di stelo in stelo
viensi la sterpe del gran Rege Ispano!
Ecco novo Filippo innanzi ’1 pelo
già di novo spavento empie Ottomano.
Destina a lui quell’Angeletta il Cielo
che la Donna reai si tien per mano:
10 dico de le tre la meno acerba,
quella c’ha la corona, a lui si serba.
126. Ma del regio troncon che si dirama,
11 secondo germoglio ecco discerno.
Fernando il buon, la cui temuta fama
fia del Turco crude] terrore eterno.
E perché, fuor che ’l giusto, altro non brama,
sempre rivolto a’ rai del Sol superno,
spiegherà nel vessillo altero e bello
del sommo Giove lo scudiero augello.
646
LE BELLEZZE
127. Lascio Massimo poi, trapasso Ernesto,
e Ridolfo, e Matthia, del gran cultore
di quel più ch’altro aventuroso innesto
successori a l’impero, ed al valore.
E taccio Alberto, il qual non fìa di questo
(quantunque ultimo d’anni) ultimo onore,
ch’a l’indomito Rhen quel giogo grave,
che sì duro gli fu, farà soave.
128. L’altra è Giovanna, e ben scorger la puoi
dolci balli menar per questi campi,
lieta ch’ai Ciel per lei di tanti Eroi
s’aggiunga un Sol che più del Sole avampi.
Stupisce bistro, e de’ cristalli suoi
stemprar sente lo smalto a sì bei lampi,
mentre passando in braccio al gran Francesco,
con l’Italico Ciel cangia il Tedesco.
129. E così ha ch’un stretto groppo incalme
d’Austria e d’Etruria ambe le piante insieme:
Etruria, a cui non già men nobil’alme
de’ gran Medici ancor promette il seme,
che per tante ch’aduna e spoglie e palme
fin di Bizanzio il fìer Soldan ne teme.
Ma quand’ogni altro pur venga mancando,
basta a supplir per tutti un sol Fernando.
130. Questi non pur con ben armati legni
tremar fa in guerra i più lontani mari,
di Corinto e di Ponto i lidi e i regni
purgando ognor di Barbari Corsari;
ma in pace ancor de’ più famosi ingegni
e di Cigni nutrisce incliti e chiari
schiere felici, onde per lui diviene
l'Arno Meandro, e la Toscana Atene.
CANTO UNDECIMO
^47
131. Cosmo di Cosmo anch’ei degno nipote
lascerà dopo lui memorie illustri,
e le genti rubelle e le devote
domerà, reggerà per molti lustri.
L’oro fia ’l men de la sua ricca dote,
quando con degne nozze Europa illustri,
copulando l’Hesperie, e novi onori
traendo d’Austro a la città de’ Fiori.
132. Mira colei, ch’alluma e rasserena
tutto di questo Ciel l'ampio Orizonte.
Quella fia sua consorte, e Madalena
(leggilo in lettre d’oro) ha scritto in fronte:
del gran fiume German limpida vena,
pur scaturita da l’Austriaco fonte.
Rosa già mai non vagheggiò l’Aurora
più modesta o più bella in grembo a Flora.
133. Lunga istoria sarebbe, o bell’Adone,
de la schiatta ch’io dico a contar gli avi.
Giulio, Clemente, Hippolito, Leone,
e i lor sommi maneggi, e i pesi gravi.
Ostri, mitre, diademi, elmi, corone,
e stocchi, e scettri, e pastorali, e chiavi;
e la linea non mai rotta dagli anni
de’ Lorenzi, de’ Pieri, e de’ Giovanni.
134. Ma sovra questi, e sovr’ogni altro frutto
che sì nobil già mai ceppo produca,
un rampollo gentil sarà produtto,
in cui tanto valor fia che riluca,
ch’a lo splendor del suo legnaggio tutto
par che tenebre e lume a un punto adduca,
sì come Sol, ch’illumina le stelle,
ma sorgendo tra lor, le fa men belle.
LE BELLEZZE
648
133. Ve’ quel cerchio lucente, ove raccolte
quasi in aureo epiciclo, altr’ombre stanno.
Quivi in gran nebbia di splendore involte
le miglior di sua stirpe insieme vanno,
e foltissimo stuol di molte e molte
stelle terrene e Dee dietro si tranno;
ma di tutte è colei che le conduce
la lumiera maggior, l’unica luce.
136. Quella che seco parla, e che s’asside
sovra la rugiadosa erba vicina,
e d'esser del bel numero sorride,
pur con regio diadema, è Caterina;
e rintuzzar saprà l'armi omicide
c’han col tempo a sbranar Gallia meschina,
e saprà del gran corpo in sé diviso
saldar le piaghe, onde fia quasi ucciso.
137. Congiungerassi in nobil giogo e degno
l'ima al secondo, e l'altra al quarto E n k 1 c o .
Non si turbi però, né prenda a sdegno
di restar vinta da costei ch’io dico,
e di ceder a lei non pur del regno
lo scettro sol, ma d’ogni pregio antico;
non pur de la reai gloria e grandezza,
ma la corona ancor de la bellezza.
13S. De l'istessa brigata eccoten’una
che come singoiar fra l’altre io sceglio,
che l'Arno e '1 Mincio illustra, e ’n sé raguna
del fior d'ogni beltà la cima e '1 meglio,
gemma d’Amore, e senza menda alcuna
di grazia e di virtù limpido speglio.
Lèonora, ch'onora ogni alto stile,
e desta amore in ogni cor gentile.
CANTO UNDECIMO 649
139. Un’altra Caterina ha in compagnia,
che come il volto, ha l'abito vermiglio.
Quella e questa del par sposata ha
del sangue d’Ocno a genitore e figlio.
Ma vedi come a la gran Suora e Zia
reverenti ambedue volgono il ciglio,
dico a costei, che senza spada o lancia
ha sol con gli occhi a trionfar di Francia.
140. Dal Mare il nome avrà, di cui fu prole
l’istessa Dea c’ha del tuo core il freno;
e com’è di bellezza un chiaro Sole,
così fia un Mar di mille grazie pieno.
Raccorrà in sé quanto raccoglier suole
di ricco il Mare e di pregiato in seno.
Anzi al Mar darà perle il suo bel riso,
oro il bel crine, e porpora il bel viso.
141. In questo sol dal Mar fia differente:
ricetta ei scogli e mostri, ira e iurore;
ma costei sosterrà scettro innocente,
pien di clemenza, e privo di rigore.
In lei duo vivi Soli hanno Oriente,
nel Mare il Sol tramonta, e ’l giorno moie.
Agli assalti de' venti il mar soggiace,
l’animo suo tranquillo ha sempre pace.
142. Non fia già mai fra le più degne e conte
dovunque il volo mio stenda i suoi tratti
altra che la pareggi o la sormonte
in leggiadre fattezze, o in chiari fatti.
Prudenza in grembo, e pudicizia in fronte,
senno ne’ detti, e maestà negli atti
nova Aspasia la fan, nova Mammea,
anzi, degna del Ciel, novella Astrea.
650
LE BELLEZZE
143. Pieri magnanime imprese, opre virili
del suo nobil pensier le cure prime.
A l’ago, a l’aspo, a’ rozi studi e vili
non piegherà già mai l’alma sublime.
Ma da le basse valli erger gli umili,
i superbi abbassar da l’alte cime,
maneggiar scettri e dispensar tesori,
questi fìen di sua man degni lavori.
144. Uopo che molle amomo unga il bel crine,
o che barbaro nastro unqua lo stringa
non avrà già, ché gli ori e l’ambre fine
fia che col suo biondor d’invidia tinga.
Non de la guancia l’animate brine
artefice color fia che dipinga,
altro che quel color di fiamme e rose,
che Beltà sol con Onestà vi pose.
145. Non in terso cristallo avrà costume
de’ begli occhi arrotar lo strai pungente,
ma le fia solo il chiaro antico lume
del suo sangue reai specchio lucente.
Sangue reai, che quasi altero fiume,
di grandezza immortai colmo e possente,
verrà dal fonte di sì ricche vene
le belle a fecondar Galliche arene.
146. Tenteran Morte rea, Fortuna avara,
ambe d’Amor nemiche, e di Natura,
di quest’inclito Sol la luce chiara
con benda vedovil render oscura.
Ma nel manto funesto assai più cara
fia de’ begli occhi suoi la dolce arsura;
e come fiamma di notturna sfera,
scoprirà doppio lume in spoglia nera.
CANTO UN DECIMO
651
147. Barbara man con sacrilegio infame,
ferro crudel con perfida ferita
de l’Alcide di Gallia il regio stame
troncando (ahi stolta in ciò vie più ch'ardita)
oserà di spezzar l’aureo legame
de la più degna e gloriosa vita.
Così talvolta avien, che chi di spada
cader non può, di tradimento cada.
148. Ma come a questa Venere novella
quando il velo mortai squarcerà Morte,
per esser più de l’altra onesta e bella
il terzo Cielo è destinato in sorte;
così costui, che la guerriera stella
vincerà di valor, Marte più forte,
del suo giorno vitale a sera giunto,
fìa del quint’orbe al gran dominio assunto.
149. Ahi qual allor, qual esser deve e quanto,
o Muse, il vostro affanno, il vostro lutto?
Dritto è che resti, abbandonando il canto,
da’ sospir vostri il sacro fonte asciutto.
Dritto è che torni poi col largo pianto
de’ vostri lumi a ricolmarsi tutto.
Degno n’è il caso; e se mortai non siete,
esser almen passibili devete.
150. Ma che ha di costei, veduto estinto
sotto un colpo fellon l’Hercol novello?
e di sangue reai bagnato e tinto
chiudere il corpo augusto angusto avello?
Languirà, piangerà, né però vinto
fìa ’l decoro dal duolo, o il duol men bello.
Men bello il duol non fìa nel suo bel viso,
che ’l festivo seren del dolce riso.
LE BELLEZZE
652
151. Xé, se ben sola e sconsolata resta
dopo l’orrendo e scelerato scempio,
vedova lagrimosa in bruna vesta,
cede il fren del discorso al dolor empio;
anzi qual buon nocchiero in ria tempesta,
di bontà Sole, e di giustizia essempio,
mar di prudenza, e di fortezza scoglio,
degli scogli e del mar rompe l’orgoglio.
152. E del vero sembiante essendo priva
(ben che l’abbia nel cor) del gran marito,
procura pur, se non l'effigie viva,
d'averne almeno un Idolo mentito.
Quindi venir da la Toscana riva
per man d’altro Lisippo a sé scolpito
fa di pesante e concavo metallo
il Colosso reai su ’l gran cavallo.
153. Fonder di bronzo ornai più non bisogna
canne tonanti o fulmini guerrieri,
anzi convien che stempri il gran Bologna
quanti tormenti ha Marte orridi e fieri.
Tempo è ch’abbiano a far scorno e vergogna
le statue illustri e i simulacri alteri
ai crudi ordigni, agli organi da guerra,
poi che mercé d’E nrico, è pace in terra.
134. Ed io quando per lui bombarde ed armi
in aratri e ’n trofei vedrò cangiate,
poi che tien tutti i bronzi e tutti i marmi
rosi dai dente de l’ingorda etate,
per eternar con gloriosi carmi
del magnanimo Re l’opre onorate,
non già d’altra materia o d'altre tempre
le trombe mie vo’ fabricar per sempre.
CAXTO UNDECIMO
653
155. Ma strano caso avien, mentre per Tonde
l’edificio mirabile camina,
però che tra le cupe acque profonde
l'assorbe la voragine marina.
Ciprigna istessa, che nel mar s’asconde,
e dal mar nacque, ed è del mar Reina.
credendol Marte, in quel passaggio il prende
per abbracciarlo: alfin delusa il rende.
156. Dal divino Scultor veggio animato
l’alto destrier, che sembra un picciol monte
Veggiol, quasi da Pallade intagliato,
far con la vasta imago ombra al gran ponte.
E mentre quivi in cotal atto armato
se medesmo a mirar china la fronte,
Tistesso Eroe, del Ciel fatto Guerriero,
non sa dal finto suo scegliere il vero.
157. Ella, che de l’Artefice, ch’avanza
Natura istessa, il gran prodigio ammira,
sente da l’insensibile sembianza
uscir vive faville, onde sospira;
e temprando il martìr con la membranza,
da la scultura, che si move e spira,
pende immobile, e tace, e così intanto
inganna gli occhi, e disacerba il pianto.
158. Ma come quella a cui non d’altro cale
che ’n vera pace assecurar Parigi,
per riunirsi a la corona Australe
stringe con esso lei la Fiordiligi.
Figlia del gran Monarca Occidentale
l’alta sposa sarà del buon Luigi,
A N n a , che ne’ verd’anni ed immaturi
fia ch’agli anni rapaci il nome furi.
^54
LE BELLEZZE
159. S’io dicessi che ’n bocca ha 1 ’Oriente,
Ch'Aprii di puri gigli il sen le ’nfiora,
ch’ella porta negli occhi il Sol nascente,
e ne le guance la vermiglia Aurora,
poco direi, se ben veracemente
quanto dir ne saprei mentir non fora.
Ma ’l più s’asconde, e ’l men che ’n lei s'apprezza,
è la terrena esterìor bellezza.
]6o. Vedila là, che per solinghe strade
spoglia il prato de’ fregi ond’è vestito,
e per crescer bellezza a la beltade
intrecciando ne va serto fiorito.
Da l’Ibero, ove ’l Sol tramonta e cade,
nascerà l’altro Sol, ch’or io t’addito.
Vedi che del crin biondo il bel tesoro,
come il fiume paterno, ha Tonde d’oro.
161. O face di beltà gemina e doppia,
a cui tante il destin glorie predice,
là dove Amor con nobil laccio accoppia
d’Iberia e Gallia il Sole e la Fenice.
Leggiadra, augusta, aventurata coppia,
nasca da voi succession felice,
che con sempre fecondo ordin d’Eroi
susciti in terra il prisco onor de’ tuoi.
162 . Ésca fien queste nozze, onde pugnaci
verrà poi Marte ad eccitar faville,
sì che d’Amore e d’Himeneo le faci
fiamme saran di saccheggiate ville.
Dal letto al campo andrassi, e ’l suun de’ baci
turbato fia da mille trombe e mille.
Ragionarti di ciò parmi soverchio,
ché già mostro ti fu ne l’altro cerchio.
CANTO UXDECIMO
655
163. Altri accidenti ancor volger si denno
pria che cresciuto il pargoletto Giglio,
ella deponga (e deporrallo a un cenno)
10 scettro Franco, e ceda il trono al figlio;
e la costanza accompagnando al senno,
dimostri animo invitto, e lieto ciglio:
costanza tal, che si può far ritratto
d’ogni altra sua virtù sol da quest’atto.
164. Or di qual più bel lauro ornar le chiome?
di qual fregio miglior vergar le carte
speran gl'illustri spirti ? o quale al nome
trar maggior luce altronde, o gloria a l'arte?
Ma che? forano lor troppo gran some
a segnarne pur l’ombra, a dirne parte,
ancor che da le Dee del verde monte
tutto in lei si versasse il sacro fonte.
165. Sembra penna mortai, ch’osi talora
ritrar de’ suoi splendor gli abissi immensi,
pennel che bella imagine colora,
ma non le dà però spirti né sensi.
Onde se non l’essalta e non l’onora
11 mio roco parlar quanto conviensi,
scusimi il Sol de’ begli occhi sereno,
che quanto splende più, si vede meno.
166. Sveller però per celebrarla io voglio
da le mie piume i più spediti vanni,
con cui più d’uno stile in più d’un foglio
farà scrivendo a Morte illustri inganni;
e con quell’armi, ond’io trionfar soglio,
torrà l’ira a l’oblio, la forza agli anni ;
frà’ quali un ne verrà, ch’Austro e Boote
risonar ne farà con chiare note.
LE BELLEZZE
656
167. Dal Mare ancor costui fra che s’appelli,
per in parte adeguar l’alto suggetto
ma presso al Mar d'onor’ sì grandi e belli
fta picciol fiume il suo rozo intelletto.
Pur come (ben che poveri) i ruscelli
corrono al Mare, ed han dal Mar ricetto,
così sprezzato ancor non fia ’l suo stile,
di Mar sì vasto tributario umile.
168. O fortunato, o ben felice ingegno,
destinato a cantar divini amori,
sì dal Ciel favorito, e fatto degno
di tanti e tanto invidiati onori!
Tu sarai di quel nome alto sostegno,
che fta ricca mercede a’ tuoi sudori,
di cui fia che risoni e Sona e Senna,
ornamento immortai de la tua penna.
ifiy. Io quanto a me non poserò volando
(ben che sia ’l mondo a tanta gloria angusto)
fin che le lodi sue non spiego e spando
da l'Atlante nevoso a l’Indo adusto.
E con bisbiglio armonico essaltando
in petto feminil pensiero augusto,
se bene il falso al ver mescer mi piace,
sarò lodando lei sempre verace.
170. E giuro ancor di quest’aurata tromba
il sonoro metallo enfiar sì forte,
ch’a quell’alto romor che ne rimbomba
l’ali al Tempo cadran, l’armi a la Morte.
Né vietar potrà mai letargo o tomba,
perfida invidia, ingiuriosa sorte,
che dovunque virtù la scòrge e chiama
non la segua per tutto anco la Fama. —
CANTO UN'DECIMO
6.57
171. Così parlò, poi fuggitive e preste
le penne dispiegò l’alata Dea,
e ’l cavo bronzo accompagnando a queste
voci, gli atrii del Ciel fremer facea.
E da più d’un vicino antro celeste
più d’un’Eco immortai le rispondea.
Allor l’Eternità quant’ella disse
col suo scarpello in bel diamante scrisse.
172. La vista intanto inusitata e strana
di quelle vaghe e peregrine larve,
che qual si fusse, o sussistente, o vana,
basta che grata e dilettosa apparve,
divenuta o più chiara, o più lontana,
non so dir come, in un momento sparve.
Parve pesce fugace in cupo fiume,
non so se fusse o la distanza, o il lume.
173. Come in superba e luminosa scena
al dispiegar de la veloce tela,
ogni pompa e splendore, ond’ella è piena,
ai riguardanti sùbito si cela;
così repente in men che noip balena
ciascuna imago agli occhi lor si vela,
e ne le più secrete e più profonde
viscere de la luce si nasconde.
174. Scendon la balza, e dal poggetto ameno
tornano al piano onde partirò avanti.
Ma di stupore innebrfato e pieno
spesso sospende Adon tra via le piante;
e perch’aito desio gli bolle in seno
di saver qual destin gli è sovrastante,
che gliel voglia scoprir Mercurio prega,
e ’n sì fatto parlar la lingua slega:
6 5 S
LE BELLEZZE
175. — Or che di tante meraviglie ascose
l’ordin m’è noto, ai secoli prescritto,
molto vago sarei con l’altre cose
d’udir quanto di me nel fato è scritto.
Tu, per cui ciò che san, san le famose
scole d’Arcadia, e i gran Musei d’Egitto,
deh qual di mie fortune in Ciel si cela
fausto o misero evento, a me rivela.
176. Risponde il divin Messo: — l’om per natura
ad oraeoi fatidico ricorre,
perché qualunque o buona o rea ventura
sia per lui fissa in Ciel, gli deggia esporre.
Ma sovente adivien, ch’egli procura
d’intender quel che poscia inteso aborre;
e s’infortunio alcun gli si predice,
vive vita dubbiosa ed infelice.
177. E v’ha talun che da gran rabbia mosso,
senza guardar che ’l mal vien di qua sopra,
qual can, che morde il sasso ond’è percosso
odia colui che la bell’arte adopra.
tacer non vo’ pertanto, e far non posso,
che ’l gran rischio imminente io non ti scopra;
che se ben contro il Ciel forza non hanno,
pur giova a molti antivedere il danno.
178. Quando il Pianeta che de’ cerchi nostri
regge il minor, concorse al tuo natale,
feri varcando il gran sentier de’ mostri
1! più bravo e magnanimo animale,
e ’l settimo occupò di tutti i chiostri
angolo, ch'è fra gli altri Occidentale.
Tal che nel lume suo trovossi unito
ferino il segno, e violento il sito.
CANTO UNDECIMO
t >59
179. Era Saturno in su quel segno anch’esso,
e nel medesmo albergo avea ricetto,
ed a l’umida Dea giunto da presso,
la riguardava di quartile aspetto;
e vibrando il suo raggio a un tempo istesso
d’impresslon contagiosa infetto,
opposto al chiaro Dio che ’l di conduce,
il percotea con la maligna luce.
1S0. Intanto Marte era nel Toro entrato,
casa dov’abitar suol Citherea,
e già dopo il ventesimo passato
tutto sdegnoso il quarto grado avea;
e mandava al Leone il suo quadrato,
che quasi in grado eguale il ricevea.
Or questo influsso (come vuol Fortuna)
sen vien per dritto ad incontrar la Luna.
181. Contro la Luna il fier quadrato giunge,
la qual dinotatrice è de la morte,
e per direzzìon le si congiunge,
minacciandoti pur l’istessa sorte,
perché, com’anaretico, l’aggiunge
virtù nel mal più vigorosa e forte;
e l’un e l’altro in loco tal s’annida,
che ne divien nocente ed omicida.
182. Eccoti insomma che ’l più basso lume
a due stelle perverse applica a prova,
il malvagio Vecchione, e ’l crudo Nume,
a cui guerra sol piace e sangue giova.
Havvi due Fere poi, c’han per costume
di divorar chi sotto lor si trova.
Ed havvi il Sol, cui sguardo iniquo offende,
e da l’altrui rigor rigore apprende.
LE BELLEZZE
660
183. Nel tempo dunque che t’accenno or io,
sappi la mente aver provida e saggia.
Guàrdati pur dal bellicoso Dio,
e fuggi ogni crudel bestia selvaggia.
Ma non so se la vita al fato rio
potrai tanto sottrar ch’allìn non caggia,
e qual da talee suol tronco ligustro,
non péra al cominciar del quarto lustro.
184. Così parlava, e più parlar volea
l’Ambasciador del concistoro santo,
quando le sue ragion ruppe la Dea,
che seco il bell’Adon trasse da canto.
— Lascia ornai queste favole — dicea
ed al garrulo Dio non creder tanto,
però ch’egli è ben saggio a dirne il vero,
ma vie più fraudolento e menzognero.
183. Pascolava lo Dio de l’aurea cetra
in Anfriso l’armento, ed ei rubollo.
Tacciomi quando l’arco e la faretra,
ancor fanciullo, gli furò dal collo,
destro così, che ne restò di pietra
e n’arrossì, ma ne sorrise Apollo.
Tolse a Giove lo scettro, e non fu molto
se non cocea, gli avrebbe il fulmin tolto.
186. A lo Dio de la guerra invitto e franco
il pugnai portò via da la vagina.
Al mio marito la tanaglia ed anco
il martello involò ne la fucina.
A me stessa (che più?) rapì dal fianco
il cinto, e si vantò de la rapina.
Or teco a scherzi intento, ed a follie,
prende a vaticinar sogni e bugie.
CANTO UXDECIMO
661
187. Con quel parlar che morte altrui minaccia,
la giovenil simplicità spaventa,
a la lingua mendace il fren dislaccia,
e ’l periglio vicin ti rappresenta,
per veder scolorir la bella faccia,
e provar se '1 tuo cor se ne sgomenta.
Ma che? quand’egli ancor non parli a gioco,
i pronostici suoi curar dèi poco.
188. Di tai chimere io vo’ che tu ti rida:
ancor che d’empio Ciel raggio ti tocchi,
qual sì cruda sarà stella omicida,
che ’l rigor non deponga a’ tuoi begli occhi ?
Folle chi troppo credulo confida
nel vano profetar di questi sciocchi,
che presenti non san le lor sciagure,
e dansi a specolar l’altrui future.
189. Spesso la notte in fra i più ciechi ingegni,
più de l’altrui che del suo mal presago,
i moti ad osservar de’ nostri regni
stassi Astrologo Hgizzio, Arabo Mago;
e figurando con più linee e segni
ogni casa celeste ed ogni imago,
l’immenso ciel di tanti cerchi onusto
vuol misurar con oricalco angusto.
190. Giudica i casi, e de l’altrui natale,
mercenario indovin, calcola il punto,
né s’accorge talor, miser, da quale
non previsto accidente è sovragiunto;
e mentre cerca pur d’ogni fatale
congiunzion, come si trova a punto,
l’influenze esplorar benigne o felle,
quasi notturno can, latra a le stelle.
662
LE BELLEZZE
191. Non nego, che non sieno i sommi giri
nel mondo inferfor molto possenti,
perché questi volubili zaffiri
son diafani tutti e trasparenti:
onde forz’è che colaggiù traspiri
il reflesso immortai de’ lumi ardenti,
e de’ lor raggi sovra i corpi bassi
esser non può che la virtù non passi.
192. Ma dico ben, che ’l Ciel con le sue sfere
ubbidisce al gran Re che ’l tutto regge,
l’alta cui previdenza, il cui sapere
ne dispone a suo senno e le corregge,
lasciando a l’uomo il libero volere
essercitar con volontaria legge;
e raro avien che ’n quella nebbia fosca
altri di tai secreti il ver conosca.
193. L’anima umana, in cui s’alligna e vive
de la scienza un naturai desire,
stendendo oltre i confin, che le prescrive
divieto eterno, il curioso ardire,
cose imprender non dee di speme prive,
impossibili in terra a conseguire,
onde l’audacia sua pur troppo ardita
sia con l’essempio d’Icaro punita.
194. Ad oggetto sfrenato occhio non dura,
perdesi il senso in ogni estremo eccesso.
Sì che pronosticar cosa futura
ad ingegno mortai non è concesso.
Sol colui che comanda a la Natura
sa prevenir del mondo ogni successo;
né può però l’istessa Onnipotenza
a l’altrui volontà far violenza.
CANTO UNDECIMO
663
195. Inclinar ben le voglie a male o bene
favor di stella o nemicizia potè,
ma necessaria forza in sé non tiene
de le vaganti alcuna, o de l'immote.
S’uom n’è mosso talor, ciò non aviene
per tirannia de le celesti rote,
ma perché movon la corporea massa,
da cui poscia il voler mover si lassa.
196. Da’ sensi, a la cui fabrica concorre,
e ’n cui (come già dissi) il Ciel può molto,
suol l’inclinazìon nascer, che corre
dietro ai moti malvagi a freno sciolto.
Ma la ragion, che ’ntende, e che discorre,
fa resistenza a l’appetito stolto.
Vinto il fato è dal senno, e può l’uom forte
sforzar le stelle, e dominar la sorte.
197. Quando pur questi fuochi alti e superni
s'usurpassero in voi tanta possanza,
qual intelletto i gran decreti eterni
avria già mai d’interpretar speranza?
Chi per entrar ne’ penetrali interni
eli Dio, sarà già mai dotto a bastanza ?
Chi sarà, che di farsi ardir si pigli
arbitro o consiglier de’ suoi consigli?
198. Qual sì veloce ha pensiero audace?
qual ha mai sì leggier pronto discorso,
che ’l tratto lieve e l’impeto fugace
possa seguir senza divin soccorso
di quella sfera rapida e rapace,
che seco trae d’ogni altra sfera il corso?
e mille volte con diversi effetti
viene in un punto a variar gli aspetti ?
664
LE BELLEZZE
199. Se de la vista è più spedito un dardo,
se l’occhio al lampo di prestezza cede,
e pur e l’uno e l’altro è lento e tardo
a ragguaglio di quel ch’assai gli eccede,
come può cosa umano ingegno o sguardo
adeguar, ch’adeguar non si concede ?
e dal volo de l’anima agitante
il gran corpo del Ciel trarre un instante?
200. Quanti in guerra talor, quanti per peste
restano in un momento uccisi e morti ?
Quanti son da Nettun fra le tempeste
in un legno, in un punto insieme absorti ?
dunque gli danna un sol destin celeste
tutti del pari a le medesme sorti ?
come credibil fia, ch’abbian commune
una direzzi'on tante fortune?
201. S’è ver che quei ch’a l’istess’ora è nato
influsso abbia da l’altro indifferente,
perché viene a sortir diverso stato
il Re che col Villan nasce egualmente ?
Perché si varia in lor costume e fato,
se non si varia il tempo, o l’ascendente?
Ond’avien, se conforme hanno il natale,
che la vita e la morte è diseguale ?
202. Non può dunque astronomica scienza,
né specolazion di mente inferma
far securo presagio e dar sentenza
de l’avenir determinata e ferma,
perché del suo saver la conoscenza
è generai, che spesso il falso afferma ;
né senza error qual più sottil pensiero
si vanti mai di perscrutarne il vero.
CANTO UNDECIMO
66
203. Fame o contagio (è ver), pioggia ed ecclisse
a chi ’l futuro investigar s’ingegna
da le stelle talvolta erranti o fisse
esser può ben, che di ritrarre avegna.
Pur talor riuscì, quando il predisse,
contrario effetto a quel che l’arte insegna,
onde si scorge espressamente aperta
la vanità de la dottrina incerta.
204. Se quando egli predice o nebbia o vento,
vedesi in ciel rasserenare il Sole,
o quando un calor fiero e violento,
fredda l’aria divien più che non suole;
non è questo infallibile argomento
de la fallacia pur de le sue fole?
ciò non l’accusa chiaro e manifesto
venditor di menzogne in tutto il resto ?
205. Poi che il suo studio è mentitore e vano
in materie sì facili e sì trite,
qual può regola dar giudicio umano
ne le cose più dubbie ed esquisite?
Di quel c’ha innanzi agli occhi aperto e piano
le cagion non intende assai spedite;
dico d’un fior, d’un’erba, o d’un virgulto:
ed osa poi di presagir l’occulto!
206. Quando l’infante è nel materno seno,
di qual sesso si sia non ben comprende,
e vuol, nato ch’egli è, spirto terreno
scoprir qual fin dal viver suo s’attende.
Cosa avenuta ei non capisce a pieno,
e quel ch’avenir deve, a spiar prende!
Non conosce se stesso, e quel che mira,
e del gran Giove ai chiusi arcani aspira.
666
LE BELLEZZE
207. Quinci veder ben puoi quant’ella sia
facoltà temeraria, arte fallace.
Ma siasi pure ogn’influenza ria
inevitabilmente anco efficace;
contro il vigor de la bellezza mia
qual forza avrà già mai sinistra face?
e qual, dove son io, può farti oltraggio
di malefica luce infausto raggio?
208. L’orrida falce sua contro Ciprigna
il più pigro Pianeta indarno rota.
Contro me s’arma invan stella sanguigna:
vibri, se sa, la spada, o l’asta scota,
ch’a placar del suo cor l’ira maligna
basta ch’un guardo mio sol la percota.
Qual timore aver puoi d’influssi rei,
se porto il tuo destin negli occhi miei ? —
200. Dopo questo parlar, perché s’accorse
ch’Adone ai detti suoi pago rimase,
ma che malvolentier le piante torse
per dipartir da le lucenti case,
e di tante bellezze alcuna forse
poterlo a lei rapir si persuase,
gelosa pur eh'Amor non l’invaghisse
di quel che visto avea, cosi gli disse:
210. — Io veggio ben, che rimaner vorresti
meco per sempre in cosi bei soggiorni,
e l’albergo terren cangiar con questi
regni beati e d’ogni gloria adorni;
ma vuol legge fatai che più non resti,
e convien ch’io laggiù teco ne torni.
Né picciol privilegio è d’uom mortale
Tesser poggiato ov’altri unqua non sale.
CANTO UNDECIMO
667
211. Potervi solo entrar con la mia scorta
per favor singoiar ti si concede.
Destino il vieta, e non v’ha strada o porta
ond’uom vivo già mai vi ponga il piede.
Né ch’altri abiti qui Giove comporta,
sotto corporeo vel, che Ganimede.
Del camin nostro il terzo Sol si serra,
e già ne chiama a riveder la terra. —
212. Tacque, e già fatto un grado avea la Notte
de la scala onde poggia a l’Orizonte.
Volavan fuor de le Cimerie grotte
i pigri abitator di Flegetonte;
e tra le nubi ripercosse e rotte
raccolta in orbe la cornuta fronte,
Alba parea la Vergine di Deio,
sorta anzi tempo ad imbiancar il cielo.
213. La partita s’affretta, e ’l saggio Auriga
già ripiglia la via ch’ai venir tenne,
e gli amorosi augei sferza ed instiga,
che fendon l’aria senza mover penne.
L’ombre segnando di dorata riga,
il bel carro calossi, e ’n terra venne:
e posò lieve lieve alfin disceso
nel gran Palagio il suo leggiadro peso.
214. Il Sol da che partir fino al ritorno
tre volte il lume estinse, e tre l’accese,
tanto che nel viaggio e nel soggiorno
di tre notti e tre dì spazio si spese.
Ma perché ’n Ciel mai non tramonta il giorno
Adon non se n’accorse, e noi comprese;
e tal ésca gustò, tal licor bebbe,
che di cibi terreni uopo non ebbe.
<W>559B
INDICE
DEL PRIMO VOLUME
Dedica a Maria de’ Medici . p. 5
Discorso di Chapelain sull’Adone . » 15
Canto primo. La Fortuna . » 53
Canto secondo. Il Palagio d’Amore . » 99
Canto terzo. L’innamoramento . » 149
Canto quarto. La novelletta . » 197
Canto quinto. La tragedia . » 275
Canto sesto. Il Giardino del Piacere . » 317
Canto settimo. Le delizie . »> 373
Canto ottavo. I trastulli . » 439
Canto nono. La Fontana d'Apollo . » 481
Canto decimo. Le maraviglie . » 535
Canto undecimo. Le bellezze . » 6ti
FINITO DI STAMPARE NELL’OTTOBRE XQ75
CON I TIPI DELLA TIFF.RNO GRAFICA
DI CITTK DI CASTELLO